Raoul
Moretti - “Isola-Menti”
Di
Claudio Milano
Autore:
Raoul Moretti
Titolo:
Isola-Menti
Anno:
2019
Label:
FonoBisanzio Records ; IRD Distribution
Tracklist:
1.
Con-solazione
2.
Nel fluire
3.
Emersioni
4.
Lib(e)rando
5.
Là fuori
6.
Qui dentro
7.
Vie di fuga
8.
Paradiso perduto
9.
Connessioni
10. E(s)senza
11. Mondo
ritrovato
12. Fragili
squilibri
13. Identità
14. Sola-mente
Line-up:
Raoul
Moretti: arpa elettrica, elettronica, loopstation
Michele
Gazich: viola (in “Fluire”)
Giuseppe
Joe Murgia: sax soprano (in “Emersioni”)
Julia
Kent: violoncello ed elettronica (in “Qui Dentro”)
Marco
Bianchi: vibrafono e marimba (in “Fragili Squilibri”)
Beppe
Dettori: voce (in “Identità”)
Genere:
contemporanea
Voto:
8.5
Il sito di Raoul Moretti: http://www.raoulmoretti.it/
· Il
concept
Cosa emerge da questi Isola-Menti
e dalla loro paronomasia? L'isola è la Sardegna, luogo in cui Raoul vive; la
mente è segno di guida salda e costante, visualizzazione di obiettivo che già
percepisce con certezza il conseguimento, come un dardo scoccato con cognizione
di causa (ma aggiungerei, anche con livida rabbia); l'isolamento in toto
è segnale di ricercata maturazione interiore, spirituale e mossa da atti
concreti, suonare, ma attingendo alla propria natura più profonda, come se il
suono stesso fosse rivelazione a chi lo offre.
Quello che ci viene dato in
qualità di manifestazione illuminata, dicevo, è un profondo stato di
grazia-sintesi matura, accompagnato ad altrettanta emotività.
La produzione è immacolata e il
tutto suona essenziale quanto diretto.
Un flusso d'ascolto cinematico che
non può essere raccontato senza l'analisi dei capitoli singoli, pena
l'esclusione di passi essenziali di un racconto che è unicum ma pari a
tante sfaccettature di importanza estrema.
Guai a non prestare attenzione!
Questo è disco che attenzione reclama, ma che al tempo stesso attraversa senza
chieder troppo dazio.
Di contro, tantissimo restituisce.
Ciò è frutto alchemico che non
richiede “studio”, non è cosa “difficile”, anzi! Moretti urla e richiama
bisogno d'ascolto, ma la sua musica è già presente.
Lo è in centinaia di concerti
portati in Asia, Oceania, Americhe tutte, Europa, lo è in qualità di
“archetipo” che si manifesta in modo nuovo ma senza suonare mai fastidioso o
provocatorio, cose tanto care alle cosiddette “avanguardie”.
Lo è perché in esse il “dono
universale” si recepisce “a pelle”.
Alchimia è sapere a cui in pochi
possono accedere, che può essere condiviso ma che mai mostra senso di
compassione, perché la sua condivisione vorrebbe dire perdere qualcosa (un
qualcosa che spesso si rivela davvero “misero” in fin dei conti, pur nel suo
fascino misterico - come per le “luminescenti” perché massoniche e/o spesso
mafiose cattedre accademiche, giusto per fare un esempio).
Raoul non ha paura di perdere
alcunché, si manifesta come chi non ha niente da perdere, solo da dare, ma
senza rinunciare a sé.
Una musica che attraversa, mai
stucchevole, mai sopra le righe, mai irrisolta, mai banale.
Eppure io non credo Raoul
“cercasse” questo, lui suona e vive. Punto.
· Le
tracce:
“Nel Fluire” e' un gioiello
sinestetico, fatto di suoni che smembrano le armoniche dell'arpa ad esaltarne
l'essenza liquescente. La viola di Michele Gazich aggiunge loro un'enfasi
profondamente umana, struggente.
Il Videoclip di Davide Manca (Fly Media Drone Creative Services):
Il tutto contribuisce a favorire
un ideale “intramediale” del suono, evidente nelle bellissime geometrie di
fiati (Giuseppe Joe Murgia) in “Emersioni”. Le emozioni rimangono sempre
ad un ciglio dall'esplodere in luce quanto in ombra, come ad esprimere un
clinico osservare la realtà in maniera pensosa.
“Lib (e) rando” riesce a
creare con l'elettronica applicata allo strumento, l'onirico più florido dei
corrieri cosmici tedeschi. In Der Garten Pharaos è dietro l'angolo, ma
come esperienza metabolizzata e resa in una modalità estremamente personale che
fa del brano un autentico gioiello tra minimalismo storico ed imponenza.
Memorabile e tale da far capire il perché Moretti possa essere inteso in
qualità di inventore assoluto di tavolozze feconde, persino maestose, applicate
al suo strumento, le cui corde agiscono al pari di un'orchestra estesa in
chiave contemporanea.
La brevissima “Là Fuori”,
incontra un cantabile d'arpa associato ad una linea in cui lo stesso strumento
disegna una fittissima trama ritmica kraut, minimale nel senso più
nobile del termine, perché reiterata a non lesinare continue micro-varianti. Un
viaggio siderale chiuso da glaciali riverberi ambientali. Pure rock,
peraltro associato ai suoni della cassa percossa dello strumento, di grande
effetto.
“Qui Dentro”, vede la
partecipazione di Julia Kent a trame di violoncello assai evocative e il duo,
disegna traiettorie di suono su una tela pari ad un astrattismo a la
Kandisky e qui di “spirituale a farsi arte” c'è molto, una materia densa e
pulsante che rimanda al nero contrito del disco che Moretti rilasciò nel 2016,
il magnifico tuffo nel vuoto di nome Harpness. E' il brano in questione,
una sorta di fuga di amanti a cercarsi e mai incontrarsi. Un momento non parco
di struggimento, esposto sonico altamente empatico. Per quanto il sistema
armonico tonale (modale a tratti), sia struttura portante, ci sono fantasmi in
musica a fuggire da un canale a l'altro e a spezzare in dissonanza le trame del
pentagramma, non fitte ma come “affocate” in un gioco di rimandi della memoria,
come a voler trascendere spazio e tempo per affermare con certezza “tutto tutti
abbiamo attraversato e tutti tutto attraversiamo e attraverseremo”. Questo
attraversamento però è frutto dell'assenza di gioia nel percorso, il che
provoca in chi ascolta un senso di lutto non elaborato.
Un archetto accarezza come una
lama le corde dell'arpa in “Vie di Fuga”.
Una progressione minimale (non un
banale loop) dalle micro-variazioni armoniche, intesse un substrato
armonico-melodico sul quale si sviluppa un'apparente linea di canto, dico
apparente, perché qui, come in ogni solco di questo disco, tutto “canta” ed è
“voce a sé”. Non solo, l'elettronica si fa collante ansiogeno, quasi una sorta
di mantra di armonici a dare colore significante che è voce di polifonia
ulteriore, in chiave contemporanea. Questo è il disco in questione (così come
era il precedente, almeno), “musica contemporanea”, senza genere alcuno e il
fatto che sia uno strumento unico a tratteggiarlo (peraltro strumento che
continua ad avere accezione assai antica, come se il legame tra esso e
tradizione fosse cosa imprescindibile), è cosa che ha dell'unico.
Si perché laddove svecchiamento è
stato cercato attraverso il verbo new age, a malcelare presunti limiti,
qui Moretti sembra non solo di limiti non averne, ma di averli lasciati alle
spalle quasi al pari di paramenti funebri, trasformati in un giardino
rigoglioso.
In “Paradiso perduto”,
anticipata da un esposto (qui il loop su cui il racconto d'arpa c'è e
diviene confessione), la materia si fa così intima da strappare la pelle. Dura
un attimo, ma come la quasi totalità delle tracce del disco (e qui è la sua
grandezza), sembra durare una vita e più d'una... il senso di
“attraversamento”, lontano da logiche ma non “astratto” e retorico, E',
crudamente vivo.
Un'ondata massiva di calore è la
caratteristica principe di “Connessioni”, interamente gestita su
micro-mutazioni di un loop pari ad umore acquoso. Su di esso si
innestano suoni eterei a tracciare una melodia in brevissimi appoggi/fantasmi.
Una sorta di sogno/apparizione/aura. Una materia comunque densa, pulsante,
organica, dagli esiti più che semplicemente “moderni”. In questi pochi minuti
si innesta l'intero andamento sinusoidale del Ben Frost di “Aurora”. L'essenza
della luce.
“E(s)senza”, ovvero la
“voce della natura nell'animo dell'uomo” (L'Es freudiano) evocata in
quanto “assente essenza”, si manifesta in origine come un magma materico nero
pece, manco una plastica bruciata di Burri. L'arpa è impiegata spesso
attraverso le sue meccaniche (battuta con spazzole?), rese loop e suono
generato in tempo reale. L'esito è però ben diverso da quello dei padri che
hanno fatto dell'estremizzazione dello strumento capace di produrre suono
quanto rumore (mi vengono in mente la chitarra di Fred Frith, i sassofoni di
Mats Gustafsson su “Hydros One” e quelli di Peter Brotzmann in “Machine Gun”,
Colin Stetson) la loro poetica. Qui l'esito è piacevole, orchestrale. Lontano
dalla frammentazione del linguaggio, l'ordito si sviluppa pian piano attraverso
un ordine sinfonico, fatto via via di suoni sempre più siderali. In un solo
minuto si organizza una tela della quale l'occhio sembra non poter cogliere
dimensione alcuna. La resa si sedimenta attraverso un sublime romantico, non
suggerito ma strabordante!
“Mondo Ritrovato”, ricorre
da subito a manipolazione (nel senso di regolazione del suono attraverso
manopole), ma il dispiegamento minimale di trame di un'arpa resa cristallina,
associato a suoni più densi e poi via via a ritmiche, organizza una sorta di
cosmogonia ancestrale. Deve essere davvero bello il cielo di notte in Sardegna,
al pari degli abissi del suo mare. Un incanto che ancora una volta distribuisce
i suoi elementi come in un mosaico. Il ritorno di una manipolazione pari a
cesoia nella parte finale lascia un senso di smarrimento e anche di amaro, dopo
tanta meraviglia.
“Fragili Squilibri” si
muove su masse di suono trasversali, appena lumeggiate da suoni cristallini
prima e poi da frequenze centrali pari a quelle di una chitarra e di una voce
d'arpa più autorevole. La percezione è sempre pittorica e relativa a scenari
ampi, nonostante ogni brano abbia la durata di un bozzetto ma la sostanza di un
poema.
“Identità” mostra chiaro
“il tocco” di Raoul. Un pizzicato possente, capace di gestire lo strumento in
linee armonicamente complesse, cariche di sospensioni e cromatismi. Un tessuto
ricchissimo e fluido che qui rinuncia all'elettronica tout court per
incontrare la sua composizione per strumento più bella di sempre. Una
composizione che si sfrangia in mille medusee, olofoniche identità di sé, alla
soglia del terzo minuto. Compare anche la voce umana, quella di Beppe Dettori.
Una voce di gran carattere popolare, ma non estranea al jazz, dal timbro
verace, pastoso, potente e duttile. Il canto è impiegato in vocalizzi di
grandissime eleganza ed evocatività.
“Sola-mente” è un drone
che si muove come rumore subacqueo graffiato da pizzicati nervosissimi. Un
crescendo in solvenza a generare un senso d'inquieta maestà, quella di una
natura che viene a chiedere ragione di sé, della sua bellezza e della sua
potenza, che incontrollabile pare, tanto e più dei moti dello spirito.
· Conclusione
Quella di Moretti è un'arte
semplice e complessa al tempo stesso, volendo, anche “semplicissima e
complessissima”.
Le sue prove su disco sono tutte
degne di nota, se Harpscapes si affacciava alla pubblicazione con
freschezza d'ingegno; Harpness era frutto di un percorso di ricerca
interiore che faceva i conti con la catarsi di una violenza sadica e masochista
al contempo, manifestazione (che è già primo passo del superamento) di un lato
oscuro fatto anche di profonda rabbia; IsolaMenti si caratterizza per
maturità, equilibrio e perfetto dosaggio di ogni singolo elemento. Una resa
formale perfetta che non rinuncia però all'emozione, anzi la restituisce
“ripulita” a chi l'ascolta in qualità di maturazione di un percorso di vita
interiore importante.
Il solo viaggio, qui affrontato
con fede cieca e immutata nel suono, è già vittoria e questo è un parto
vincente che merita d'essere affrontato senza indugio perché, come detto, non
chiede troppo ma restituisce molto: l'inedito.
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