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venerdì 30 agosto 2019

WOODSTOCK 1969: 50 ANNI FA-IL RUOLO DI JIMI HENDRIX, DI MICHELE SCIUTTO


WOODSTOCK 1969: 50 ANNI FA
Di Michele Sciutto

15, 16 e 17 agosto 1969, al villaggio di Woodstock nei pressi di Bethel, una piccola città rurale dello stato di New York, in un'ampia vallata, 500 mila giovani assistono al più grande evento collettivo della controcultura americana. Le piogge torrenziali, i ritardi nelle esibizioni degli artisti e i momentanei problemi dell'amplificazione audio, prolungano la durata del festival.

Jimi Hendrix doveva essere l'ultimo ad esibirsi il suo numero era previsto per la mezzanotte, ma non salirà sul palco fino alle nove del mattino di lunedì 18.
Attende l'intera notte in una tenda non distante dal palco, sdraiato su una branda giunge a lui l'eco della musica di “Crosby, Stills, Nash & Young”, ma ancora ci vorrà tempo perchè dopo di loro si sarebbero esibiti “Paul Butterfield Blues Band” e “The Sha Na Na”. Nel disordine di quella tenda escono ed entrano i componenti del suo nuovo gruppo, l'unico rimasto di “The Jimi Hendrix Experience” è il batterista Mitch Mitchell ed anche il nome della band è cambiato in “Gypsy Sun and Rainbow”.

Joint dopo joint, lo spazio diviene denso di fumo, Jimi è dentro un “vuoto pneumatico”, il tempo si dilata, immagini familiari si susseguono una dopo l'altra come foto ingiallite: sua madre ancora giovane e bella, una donna fragile e sola, una forte bevitrice che morirà di cirrosi epatica. Poi la riserva indiana Cherokee di Vancouver, dove lo aveva cresciuto la nonna: “Ricorda sempre ragazzo, tutte le cose sono collegate, come il sangue che unisce una famiglia. Qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra. Non è stato l’uomo a tessere la tela della vita, egli ne è soltanto un filo. Qualunque cosa egli faccia alla tela, lo fa a sé stesso.”

Jimi guarda alla sua esistenza, è un gomitolo che si srotola e gli sfugge tra le dita, comincia a sentirsi stritolare dalla macchina del successo di cui lui stesso è stato un docile e inconsapevole ingranaggio e l'angoscia gli cresce dentro. La sua mente è affollata di ricordi: i tempi di Seattle, dove era nato il 27 novembre 1942, la prima chitarra da 5 dollari, regalatagli dal padre. Il servizio militare, volontario nei paracadutisti.  La permanenza a Nashville dove accompagna come chitarrista Isley Brothers Band, Tina Turner, King Curtis, Wilson Pickett e Little Richard, ma l'occasione giusta arriverà quando al Greenwich Village di New York incontrerà Bryan James "Chas" Chandler degli "Animals", che lo porterà a Londra per fare da gruppo d'apertura della sua tournée. "Chas" gli costruisce un trio con Noel Redding e al basso, Mitch Mitchell alla batteria, che illuminerà la scena rock britannica e diverrà leggenda. Vede la sua America, è un periodo di grandi contrapposizioni: il movimento per i diritti civili è più forte che mai e il Black Power incendia i ghetti delle grandi metropoli. I “Native American” rivendicano le proprie origini e la loro cultura, si moltiplicano le comunità hippy, ma ciò che indigna il popolo americano è la guerra del Vietnam. Tanti ragazzi partono per non tornare più, il movimento pacifista cresce nelle università e si diffonde in tutta la nazione.


In un periodo di grandi tensioni a chiudere il festival è il musicista di colore dal più ampio seguito, uno degli eroi di quella nuova generazione che rigetta il modello “American way of life”, imposto dai detentori del potere economico e politico. Proprio lui, che dovrà migrare in Europa per vedersi riconoscere i propri meriti. L'artista che ha rivoluzionato il volto della chitarra elettrica e della musica tutta. Geniale, trasgressivo, ha racchiuso nelle sue sei corde i suoni e gli stili di Charlie Christian, Django Reinhardt, Chuck Berry e Robert Johnson, ha preso uno strumento in bianco e nero e l’ha dipinto di colori cangianti, questo è Jimi Hendrix, il chitarrista più talentuoso che si sia mai visto. Ora è tornato come simbolo di una generazione che a Woodstock sogna di vedere i bombardieri minacciosi nel cielo del Vietnam trasformarsi in aquiloni colorati.

La band si fa strada protetta da un servizio d'ordine che a stento contiene l'entusiasmo dei giovani fans. Hendrix inizia con Message to Love, e non lascia fuori i brani che lo hanno reso famoso: Spanish Castle Magic, Red House, Foxy Lady, Fire, Voodoo Child, poi il silenzio, e i musicisti capiscono che Jimi ha qualcosa dentro che vuole comunicare, ma non sa esprimersi con le parole, non è stato mai un abile e loquace oratore, le storie le narra alla sua maniera con la chitarra, in una irresistibile attrattiva che affascina e coinvolge.


L'uomo è solo, guarda quei ragazzi che lo acclamano, sente su di sé le loro angosce, le paure e le speranze, ma anche la gioia di dividere quei momenti. Non c'è tempo, qualcosa di magico sta accadendo e l'insieme dei presenti lo avverte. “The Star-Spangled Banner” consegna al futuro il momento più emozionante del festival: Hendrix rappresenta la sua visione dell’America: In quasi quattro minuti di suoni distorti, feedback e un uso selvaggio della leva e del wah wah, evoca bombe che cadono, sirene di ambulanze, grida di disperazione, crollo di case, colpi di mortaio, spari di fucile e sventagliate di mitra. È la fine del mondo?... È solo il modo di vedere chiaro e netto, una sporca guerra attraverso una versione dissacrante dell'inno americano, una feroce protesta, per le politiche degli USA in Vietnam e per la repressione della polizia nelle università occupate e nelle marce pacifiste. Pochi altri artisti hanno rappresentato un’epoca densa di angosce e di contraddizioni, in un modo così brutale e al contempo di grande valenza artistica.

Sono ora le 10,30 del mattino, è sceso il silenzio, qualcuno piange, altri si abbracciano, l'esibizione continuerà e si chiuderà con Hey Joe ma nella valle di Woodstock si diffonde l'acre e persistente odore del napalm.

giovedì 29 agosto 2019

ELP all'Isola di Wight il 29 agosto del 1970


Esordiscono in pubblico al Festival di Wight il 29 agosto 1970, Emerson Lake & Palmer, una miscela micidiale di classica e rock, capaci di entrare a pieno titolo nella… Storia del Rock!

Di tutto un Pop…
Wazza






mercoledì 28 agosto 2019

Racconti sottoBanco: "Non mettere le dita nel naso"



 Racconti sottoBanco

Compie 30 anni il primo album solista di Francesco Di Giacomo...

Usciva nel 1989 "Non mettere le dita nel naso", per l'etichetta Iperspazio.

L'album vede la partecipazione di tutto il Banco del Mutuo Soccorso, più numerosi ospiti. 


In questa session venne anche registrata una versione di "Hey Joe", famoso brano portato al successo da Jimi Hendrix, cantata in "duetto" con Sam Moore (ma di questo ne parleremo prossimamente), che uscirà come maxi 45 giri, l'anno dopo, e verrà incluso come "bonus" nella ristampa in CD.
Wazza

 Francesco Di Giacomo - voce
Vittorio Nocenzi - tastiera
Rodolfo Maltese - chitarra
Pierluigi Calderoni - batteria
Cinzia Nocenzi - pianoforte
Tiziano Ricci - basso
Pietro Letti - sassofono
Paolo Carta - chitarra


Altri musicisti:

Maurizio Giammarco - sassofono
Alessandro Centofanti - tastiera, arrangiamento
Roberto Colombo - tastiera, arrangiamento
Marco Rinalduzzi - chitarra
Marcello Cosenza - chitarra
Marco Colombo - chitarra
Fabio Pignatelli - basso
Giorgio Vanni - cori
Alberto Cheli - cori
Simona Pirone - cori
Beppe Di Francia - cori

Julie - cori
Flavia - cori

lunedì 26 agosto 2019

Gli Area nell'agosto del 1975

Foto Fabrizio Longarini

Nell'agosto del 1975 gli Area fanno tappa a Volterra, Teatro Persio Flacco...


Di tutto un Pop…
Wazza



IMMAGINI DI REPERTORIO...

ANDREA PELLICONE – VAN GOGH PROJECT, di Andrea Zappaterra

ANDREA PELLICONE – VAN GOGH PROJECT
Di Andrea Zappaterra

Molto sui generis questo album di Andrea Pellicone, che usando distorsioni tematiche crea un tipo di musica fuori dai consueti schemi, utilizzando il vibrato come modulatore musicale, con tempi schizzanti tra rapide sequenze di chitarra e basso, tra suoni acuti e grevi, tra pennate rapidissime e incalzanti, ma che lasciano spazio anche a tanta armonia creativa, lirica sonora, contaminata da effetti dodecafonici.
Il titolo è Van Gogh Project.

Potrebbe sembrare una rielaborazione di qualche brano di musica classica rivisitata in chiave strutturale con inserimento quasi stonante di riff avulsi dal contesto.
Sicuramente un discorso di libertà espressiva, ma con una certa lucida ostentazione del controtempo che si muove su un binario completamente disarticolato dalla melodia, un po’ come alcuni brani “Krimsoniani”.

L’effetto che ne deriva è suggestivo, anche se di non immediata comprensione; la voce molto distaccata e profonda (un parlato più che un cantato che rievoca a mio giudizio Jimmy Hendrix) imprime un certo rallentamento narrativo ed infine i saluti in tutte le lingue concludono questo concept album basato sulle sensazioni di un alieno (Crixstrix) in visita nel nostro pianeta, con un messaggio di Fratellanza Cosmica.

È comunque un lavoro che va ascoltato molte volte per capirne appieno le intrinseche finezze, e la squisita dissonanza che sembra voler smembrare il classico per trasformarlo in qualcosa di diverso, una coperta invisibile e sonora per mascherare la bellezza che da quelle note più melodiche ne deriva.

Alcune sonorità riemergono piano piano dopo vari ascolti come gioielli sparsi nella sabbia che riaffiorano scoperti dal vento dell’originalità.

Da notare inoltre il polistrumentismo di Andrea, che ne delinea il virtuosismo musicale.


I brani:

1.      Search for Planets
2.      Falling Fireballs
3.      Crixstrix Loniless
4.      Awakened by the Stars
5.      Now the Sky
6.      Back Home

venerdì 23 agosto 2019

Il BALLETTO DI BRONZO... video interessanti!


NOTE ESTRAPOLATE DAI VIDEO SU YOUTUBE

Il BALLETTO DI BRONZO può essere considerato, sia da un punto di vista musicale che di immagine, il gruppo più "avanti” dell’intera scena del POP ITALIANO dei primi anni ‘70 (successivamente denominato PROGRESSIVE). 

Questa formazione fu attiva dall’inizio del 1970 al settembre del 1973 e, seppure in così breve tempo, lasciò un’impronta indelebile. Infatti, l’album “YS” è tuttora ricercato e collezionato in tutto il mondo e considerato da autorevoli critici musicali come un capolavoro assoluto, per alcuni il miglior album di Rock Progressivo di tutti i
tempi. 

Il Balletto ebbe un’intensissima attività concertistica e partecipò anche ad alcuni dei più importanti festival Pop, uno fra tutti quello di Novate Milanese assieme ai Colosseum. 

La formazione originaria è composta da: Gianni Leone – voce, tastiere, compositore e “mente” del gruppo; Lino Ajello – chitarra; Gianchi Stinga – batteria; Vito Manzari – basso.

Tra il 1973 e il 1995 Gianni Leone intraprende una carriera solistica: adotta lo pseudonimo “LeoNero”, e realizza dischi negli Stati Uniti (gli albums “Vero” a New York nel ’75 e “Monitor” a Los Angeles nell’80) e vari singoli in Italia.1995: Gianni Leone collabora con il gruppo rock progressivo DIVAE, partecipando come ospite sia sul CD che nei concerti, alcuni dei quali vedono la presenza anche di Gary Green, chitarrista dei GENTLE GIANT. 

Col batterista ed il bassista dello stesso gruppo riforma il BALLETTO DI BRONZO in versione TRIO. Questa formazione è attiva fino al ‘97, anno in cui il nuovo organico del gruppo vede Riccardo Spilli alla batteria ed Alessandro Corsi al basso.

1999: viene pubblicato il CD del Balletto di Bronzo TRYS, registrato dal vivo nel ‘96.
2000: il Balletto di Bronzo partecipa con molto successo al NEARfest 2000 in Pennsylvania - U.S.A., al MEXPROG Festival a Città del Messico ed al RIO ART ROCK Festival a Rio de Janeiro. Ulteriori concerti in Messico e Brasile. Concerti in Italia.
2002: Baja Prog festival (Mexicali, Messico). PROG’SUD festival (Marsiglia, Francia). Tour in Giappone; come artista solista (LeoNero) Gianni Leone torna a Tokyo per collaborazioni e concerti con i gruppi giapponesi ARS NOVA e GERARD. In Italia il Balletto di Bronzo si esibisce, fra l’altro, come opening act per Carl Palmer Band e Ozric Tentacles.
2003: tour in Messico. Tour in Cile. Concerti solistici di Gianni Leone in Italia.
2005: concerti in Italia. Opening act per Porcupine Tree.
2006: tour in Messico di grande successo e riscontro di pubblico. Presentazione di brani nuovi. Concerti in Italia.​
2007: Baja Prog Festival a Mexicali e nuovo tour del Messico. Concerti in Italia.
2008: viene pubblicato dalla Black Widow in tutto il mondo il Dvd “Live in Rome”.
2009: viene pubblicato il libro/biografia, scritto da Gianmaria Consiglio, “Il Balletto di Bronzo e l’idea del delirio organizzato”, con cd allegato contenente materiale live del gruppo e brani inediti di Gianni Leone.
2011: partecipazione al Prog Exhibition Festival a Roma. Partecipazione al Prog Exhibition
Festival a Tokyo.
2015: Concerti in Italia.
2016: Concerti in Messico e in Italia.
2017: la nuova formazione del gruppo è composta da Gianni Leone (tastiere e voce), Ivano Salvatori (basso), Riccardo Spilli (batteria).
2018: concerti in Italia e in Giappone.


DISCOGRAFIA (parziale)
Il Balletto di Bronzo:

LP YS (Polydor 2448 003L).
45 gg. LA TUA CASA COMODA/DONNA VITTORIA (Polydor 2060 053).
YS ristampa 1989 CD (Polydor ERC 32001 Japan).
YS ristampa 1992 CD (Polydor/Mellow Records 519 338-2).
YS provini in inglese risalenti al ‘71 (Mellow Records MMP 112).
YS ristampa 1995 CD (Polydor/Universal UICY-9118 Japan- Victor entertainment)
YS ristampa CD (Polydor/Universal 523 693-2 Made in France by PMDC)
YS ristampa 2014 (BTF su licenza Universal VM LP 164)
TrYS (Mellow Records MMP 367)
ON THE ROAD TO YS - vinile e CD
Live in Rome - DVD
Gianni Leone da solista (LeoNero):
LP VERO (Harvest/EMI 3C 06418272)
LP MONITOR (CBO/EMI CBN 1004).

Torino, 8-2-2019

 

Roma, 31-5-2018

Brano live estratto dal concerto tenutosi a Roma all'Asino Che Vola il 31 maggio 2018.
Gianni Leone      voce/tastiere
Ivano Salvatori   basso
Riccardo Spilli    batteria

Viola Nocenzi commenta "Until Now", di Chiara Viola


Debutta con Filibusta Records la cantante romana Chiara Viola: otto brani tra jazz e melodia, ricerca e appunti di viaggi ed esperienze, con”'Harvest Moon” di Neil Young, “Within” dei Daft Punk e la presentazione di Danilo Rea.

Viola Nocenzi si “riappropria” del suo spazio su MAT2020 - "L'angolo di Viola" - e, dopo attento ascolto, propone il suo commento audio all’album “Until Now”.



CHIARA VIOLA-"UNTIL NOW"
(Filibusta Records | Believe Distribution Services / Goodfellas  )
8 tracce - 38.50 minuti

Nata a Roma nel 1986, Chiara Viola ha praticato musica sin da giovanissima, cantando in cori scolastici e chiese, ha studiato chitarra classica prima e canto moderno dopo, infine canto jazz. Allieva di nomi come Cinzia Spata, Maria Pia De Vito e Danilo Rea, ha condiviso studi e palchi con Antonella Ruggiero, Claudio Rocchi, Max Gazzè, Riccardo Biseo, La Batteria, Ultimo e tanti altri, ha partecipato a festival come Jazzit Fest e Gezz Night. 


Chiara Viola Facebook:

Chiara Viola Instagram:

Filibusta Records:

Synpress44:

giovedì 22 agosto 2019

Tanti Auguri Francesco!


"Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite… questa è la carezza del Banco"…

Spesso Francesco a fine concerto usava "scherzosamente" questa frase di Papa Giovanni XXIII per salutare il pubblico...

Oltre ad essere un grande artista, aveva questa figura "rassicurante", come un padre, uno zio, un fratello maggiore.  La gente gli voleva bene e gli dimostrava un grande affetto, quasi sempre "accerchiato" da fans, prima e dopo i concerti.

Credo che nel "mondo rock" a poche persone sia stato riservato questo privilegio...
Buon Compleanno Francescone!
Wazza

L'amore della gente in questa Photos Gallery

Antonio Vescio  

   Roberto D'aquanno

  Bartolo Collo

 Emanuele D'Angelo

 Loris Amato

 Antonio Pio Fragasso

  Luigi Di Gregorio

  Il Muro del Canto

 Bruno Forzini

 Emilio Mori


mercoledì 21 agosto 2019

UNA CONVERSAZIONE CON PETER FONDA, DI EZIO GUAITAMACCHI



MEMORIE DI UN EASY RIDER: UNA CONVERSAZIONE CON PETER FONDA

Un ricordo di Captain America a pochi giorni dalla scomparsa: era il 2009 ed Ezio Guaitamacchi intervistava Peter Fonda per gli allora quarant'anni di "Easy Rider"
Dieci anni fa, per la nuova edizione del mio libro Figli dei fiori, figli di Satana, ho avuto un lungo incontro con Peter Fonda che mi aveva dato l'autorizzazione a usare quella piacevole conversazione come postfazione di quel libro. Oggi, a pochi giorni dalla scomparsa, ho riletto l'intervista e mi sono reso conto di quanto le sue idee e i suoi pensieri siano sempre di attualità e, per certi versi, di esempio.
Addio "Captain America", take it easy.

* * *
 
"Sembra un ragazzino.
Capelli lunghi, basette, occhiali da sole, jeans e maglietta, Peter Fonda, a 69 anni suonati, appare e si comporta quasi fosse ancora l’ultimo rampollo di una delle dinastie reali di Hollywood: un piccolo ribelle, stravagante, scapestrato ma molto simpatico, amico dei Beatles e fan dei Byrds, che fumava marijuana in pubblico e non faceva mistero di sperimentare nuovi stati di percezione sensoriale. Un personaggio controverso che, però, per molti, è ancora una delle icone più seducenti della controcultura degli anni ‘60.
Magro, tonico e sorridente, Fonda sembra davvero in gran forma (“è tutta apparenza …”, commenta in modo autoironico, “vedi qui? Ho due belle placche nelle ginocchia, triste ricordo di un incidente in moto”). Già, la moto …
Quella Harley Davidson Electra Glide sulla quale posa per la felicità di fotografi e operatori tv non può non farci venire in mente Wyatt / Captain America, il personaggio che interpreta in “Easy Rider”, il film che ha cambiato la storia del cinema. E che, sicuramente, ha condizionato l’intera carriera artistica di Peter Fonda e, forse, la sua stessa vita.

A 40 anni di distanza, cos’è stato per te “Easy Rider”?

Confesso che, all’inizio, l’enorme successo di Easy Rider è stato quasi imbarazzante, per certi versi addirittura fastidioso. Non era solo il pubblico a identificarmi con Captain America.
Gli stessi registi o produttori mi offrivano ruoli che erano, di fatto, tagliati su misura per quel personaggio.
Col tempo, ho capito e accettato che quanto si percepiva era legato all’importanza che “Easy Rider” aveva avuto. Non solo.
Finalmente, non ero più il “figlio di Henry Fonda” o “il fratellino di Jane”: anche se, per tutti, ancora non ero Peter Fonda ma … Captain America.
Nella realtà, Wyatt / Captain America e Peter Fonda sono due identità separate. È vero che ho inventato io il personaggio, che ho scritto la storia, che ho dato lo spunto per disegnare le moto e i costumi e che c’è molto di me nel modo di fare e di pensare di Captain America, però io sono una persona diversa che oggi, 40 anni dopo, è orgogliosa di aver dato vita a un film che ha cambiato la storia del cinema e (forse) del modo di vivere di più generazioni.
Pensa che, secondo l’American Film Institute, la più prestigiosa delle istituzioni americane sul cinema, “Easy Rider” è uno dei 100 film più importanti del 900. È al numero 88 di questa specialissima classifica …

Nonostante l’incredibile successo del film, non hai mai voluto farne un sequel … E, credo, te lo avranno chiesto in molti …

Già, ecco il vero motivo per cui ho voluto far morire i protagonisti alla fine della storia (ride …). Prova a pensarci: come fai a ripetere un film del genere? Come fai a dargli un seguito? Dopo un successo tale, la critica ti aspetta con i fucili spianati: qualsiasi cosa tu faccia, viene paragonata all’originale e ne esce sempre sconfitta.
Semmai, oggi (40 anni dopo), avrebbe senso riprendere lo spirito di “Easy Rider”, inventandosi altri personaggi per verificare cosa significhi per loro attraversare l’America nel nuovo millennio. Credo che sarebbe interessante e, forse, porterebbe allo stesso tipo di domande e riflessioni fatte per il film originale: cosa sta succedendo oggi al nostro paese? Cosa è diventata l’America? Solo perché oggi gli Stati Uniti hanno un presidente afroamericano significa che il razzismo è finito? No … solo perché la maggior parte degli americani è contraria alla guerra in Iraq significa che verranno ritirate le truppe? No

Verso la fine del film, Captain America pronuncia una battuta enigmatica … “we blew it”, dice, (abbiamo sprecato un’occasione) … cosa significa esattamente quella frase?

Non te lo dirò mai… anche se posso svelarti che quella battuta è la prima che ho scritto per il copione di “Easy Rider”. Era il 1967 e mi trovavo a Toronto, in Canada, per promuovere un altro film (“The Wild Angels”, di Roger Corman). Quando ho iniziato a scrivere lo script di “Easy Rider”, ho deciso di cominciare dalla fine. Ho pensato: sarebbe bellissimo raccontare il finale di una storia di due ragazzi che attraversano in moto l’America, partono con grandi intenzioni ma si devono rassegnare a quella che è la realtà dei fatti. E alla fine, decidono di ritirarsi. Ma quella parola, ritirarsi o più in generale, “andare in pensione”, non appartiene al mio vocabolario. Neanche a quello della mia vita privata.
È allora che Captain America si rende conto di qualcosa di importante che riguarda il personaggio o, più in generale, l’intero paese. Il commento è: “we blew it”, abbiamo buttato al vento un’occasione… e può voler dire moltissime cose. Ad esempio, può significare che, nonostante tutto ciò che rappresenta lo spirito di cambiamento contenuto in “Easy Rider” (la ricerca di un’identità e di uno stile di vita diverso) il paese è rimasto quello di un tempo o è persino peggiorato. La cosa è inquietante se la stessa riflessione la facciamo osservando il mondo odierno. Basta guardar fuori dalla finestra per rendersi conto del livello di inquinamento delle nostre città, della crisi economica, lo stress della gente, le guerre nel mondo, la prevaricazione della finanza, l’arroganza delle multinazionali: cose assurde, che dovremmo combattere con tutte le nostre forze. Non solo: dobbiamo, purtroppo, avere la consapevolezza che la società americana ha provocato tragedie vere in tutto il mondo.
E di questo, noi americani, dovremmo vergognarci.
Io, me ne vergogno …

Easy Rider è anche famoso per la sua fantastica colonna sonora. È vero che durante le riprese del film avevi la tua 12 corde con te e che era tua intenzione usare le canzoni che avevi composto come colonna sonora del film?

È vero che, quando posso, porto sempre la mia chitarra con me ma, ad essere sincero, non ho mai pensato di usare la mia musica e le mie canzoni come colonna sonora del film. Piuttosto, io e Dennis Hopper abbiamo messo insieme le nostre rispettive collezioni di dischi e cominciato a selezionare i brani. Devo dire che la scelta dei pezzi e l’accoppiamento degli stessi con le diverse scene dei film è stato un lavoro svolto prevalentemente da Hopper.
Ed è stato fatto da dio. Persino i miei amici Crosby, Stills & Nash mi hanno detto che non avrebbero saputo fare di meglio. Persino Robbie Robertson (il chitarrista di The Band, che avevamo interpellato prima di tutti, prima ancora di aver scelto le canzoni e che ci aveva letteralmente snobbato) dopo aver visto il film con la selezione dei brani musicali è rimasto di sasso. “Voglio fare io tutta la colonna sonora”, ci ha detto, entusiasta. Ma ormai era troppo tardi.
Ripensando anche al mio ruolo di producer, ricordo le preoccupazioni, le difficoltà nell’ottenere i permessi, il casino nel mettere tutti d’accordo: gruppi, artisti, manager, avvocati, discografici.
Poi ho avuto un’idea: perché non fare dei piccoli screeening, delle visioni private riservate ai musicisti di cui avevamo scelto i pezzi per la soundtrack? Abbiamo cominciato con gli Steppenwolf e The Band.
Sono venuti in questa minuscola stanza di proiezione presso gli studi della Columbia. John Kay, il leader degli Steppenwolf, stava seduto (serissimo) con questo paio di Wayfarer neri che non si toglieva mai, nemmeno a film iniziato… con quegli occhiali sembrava Roy Orbison che, anche lui, non se li levava ma perché i suoi erano occhiali da vista… mi sono messo alle sue spalle per cercare di sbirciare se quelle lenti fossero graduate.
Alla fine, Kay si gira verso di me e mi dice: “Peter, il film è in bianco e nero o a colori?”.
Non sapevo che fosse daltonico …
“E’ a colori, John …”
“Peter, fallo vedere ai russi in bianco e nero: li manderai fuori di testa …”
“Volete altro materiale?”, mi ha chiesto il manager degli Steppenwolf, entusiasta del film e del modo in cui le canzoni della sua band erano state inserite.
Devo dire che un po’ tutti gli artisti hanno avuto reazioni positive simili, rendendoci orgogliosi del lavoro svolto.
Jimi Hendrix, ad esempio, mi ha chiamato da Londra e mi ha detto: “Ti voglio ringraziare per aver scelto un mio brano per il tuo film”. Dopo la sua morte, Al Hendrix (il padre di Jimi) mi ha mandato una lettera per farmi sapere quanto a Jimi aveva fatto piacere essere parte del progetto “Easy Rider”.


Billy, il personaggio interpretato da Dennis Hopper, ricorda moltissimo (nel look) David Crosby: giacca a frange, capelli lunghi, baffoni… Crosby è stato una fonte di ispirazione importante?

David Crosby e Graham Nash sono miei grandi amici. Sono stati, entrambi, fonti di ispirazione importanti per la mia vita e non solo per “Easy Rider”: sono dei veri signori oltre ad essere artisti stratosferici.
Detto ciò, il look di Billy non ha niente a che fare con quello di Crosby. Sono stato io che ho suggerito a Hopper di farsi crescere i baffi. “Anche se sei castano chiaro, devi provare ad assomigliare il più possibile al Che Guevara”, gli dicevo.
La nostra idea, infatti, era quella di rappresentare due “rivoluzionari” e il Che, per noi, era la quintessenza della “rivoluzione”.
Inoltre, “Easy Rider” cercava di dimostrare che bisogna andare oltre le apparenze. Quella degli anni ‘60 era un’America estremamente bigotta: se avevi i capelli lunghi e i baffi o eri vestito in modo eccentrico venivi considerato un hippy, un sovversivo, un gay, un comunista … e rischiavi la vita. Come dimostra il finale del film.
Purtroppo, anche se in modi diversi, nel paese c’è ancora troppa intolleranza. E abbiamo ancora molto da fare per proseguire nell’evoluzione del nostro senso civico.

È vero che a Bob Dylan non era piaciuto il finale tragico del film?

Innanzitutto, Dylan non ci ha lasciato il permesso di usare la sua canzone “It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding)”: diceva che non gli piaceva la sua parte di armonica, che non andava bene quella cosa e quell’altra… insomma, non è stato per niente collaborativo…
Gli ho voluto parlare da amico perché, per me, quella canzone era molto importante. Gli ho spiegato che c’è una strofa, nel pezzo, che per me assume un significato particolare. È quella che recita:

Suicide remarks are torn/ From the fool's gold mouthpiece/ The hollow horn plays wasted words/ Proves to warn/ That he not busy being bornIs busy dying
“le recriminazioni di un suicida sono strazianti / dal bocchino dorato dello strumento a fiato dello stolto / escono parole senza senso / che dimostrano soltanto che lui sta avvisando tutti che / non è impegnato a nascere, ma è impegnato a morire”

“Forse non lo sai Bobby”, gli ho detto, “mia madre si è suicidata quando avevo 10 anni… si è tagliata la gola, da un orecchio all’altro… capisci perché ho bisogno di quel pezzo? Rende ancora più realistico il racconto del film…”. Addirittura, gli ho ricordato che Hopper (nella scena del cimitero di New Orleans) mi aveva costretto a parlare di mia madre …
Bobby è rimasto di stucco: non era preparato a sentirmi parlare in quel modo, a ricordare in modo così crudo un avvenimento tragico che aveva devastato la mia vita.
“Ok Fonda, mi hai convinto”, mi dice Dylan, “fammi però aggiungere una cosa: non mi piace il finale del film, me lo lasci completare?”
Cavolo, in quel momento ero io quello che non era pronto a una proposta del genere …
“Cos’hai in mente, Bobby?”
“C’è la strada che l’uomo costruisce”, dice lui, “e c’è quella che costruisce Dio. Ecco quel che succede …”.
Poi, prende un foglio di carta e inizia a scrivere l’inizio di The Ballad Of Easy Rider.
Dylan appunta una frase su quel foglio:
The river flows / It flows to the sea / Wherever that river flows that’s where I want to be/
“Il fiume scorre, scorre verso il mare, da qualunque parte quel fiume intende scorrere è là che vorrei essere”
Mi ha regalato una canzone magnifica, piena di poesia per il finale di un film che è stato un pugno in pieno petto.
Ho chiamato Roger McGuinn e lui ha aggiunto la frase:
All that wanted was to be free / And that’s what it turned out to be
“Tutto ciò che volevano era essere liberi / ed è proprio quello che sono riusciti ad avere”
Una notte, al bar, io e McGuinn abbiamo fatto quadrare il pezzo la cui musica accompagna i titoli di coda lasciando un commento sonoro romantico a un film che ha entusiasmato il pubblico, lo ha divertito, lo ha fatto sognare e poi lo ha colpito nelle parti basse con un finale tanto scioccante quanto inatteso: una musica poetica, quasi spirituale, che ancora oggi credo sia stato il modo migliore di chiudere quell’opera.


Easy Rider vede il debutto cinematografico di tua figlia Bridget, giusto?

Sì… (ride) e anche di mio figlio Justin… Sono i bimbi che fanno parte della “comune” nel New Mexico ispirata alle due più celebri dell’epoca, la New Buffalo Comune e la Hog Farm di Wavy Gravy. Quella delle “comuni” è stata un’esperienza importante: voleva dire mettere a disposizione degli altri il proprio lavoro, le proprie cose, persino i propri affetti. Chi faceva parte di una “comune” di quel tipo, isolata e immersa in uno stile di vita rurale, veniva dalla città: non aveva idea di cosa volesse dire far crescere piante e ortaggi, accudire gli animali, realizzare utensili e mobili, aggiustare tutto ciò che serviva per la vita di tutti i giorni. E questo ha, spesso, comportato disagi e problemi. Così come alcune concezioni errate di quel modo di vivere hanno portato al veloce disfacimento di quegli esperimenti sociali alcuni dei quali però (come le due “comuni” già citate così come i Merry Pranksters di Ken Keasy o i Diggers di Emmet Grogan e Peter Coyote a San Francisco) sono stati davvero rilevanti perché hanno dimostrato la possibilità di mettere in pratica uno schema di vita davvero alternativo, oserei dire rivoluzionario, che ribaltava il concetto di proprietà e lo schema di valori tipico della società capitalistica americana e occidentale.

Cos’è successo veramente in una villa al Benedict Canyon di Los Angeles, nel 1965, tra te e i Beatles?

(risata) È stato incredibile …
Eravamo tutti fatti di Lsd ma George Harrison e John Lennon stavano piuttosto male. Senza dire nulla agli altri, avevano ingerito altra droga prima del trip allucinogeno e questo è un errore che molti fanno e che è spesso alla base di “brutti viaggi”.
George, in particolare, aveva la sensazione che le cose intorno a lui gli stessero cadendo addosso … era terrorizzato.
David Crosby è venuto da me e mi ha chiesto di parlare con George.
“È convinto di morire”, mi dice.
Così, sono andato da Harrison e gli ho chiesto come si sentiva.
Gli ho anche spiegato che, da piccolo mentre giocavo con una pistola di mio padre accidentalmente è partito un colpo e io sono crollato a terra ferito.
“So cosa significa essere morto (I know what is like to be dead)”, gli ho detto, “Non preoccuparti. Il tuo cervello sta lottando per riportarti allo stato percettivo di prima. Devi stare calmo, devi avere pazienza e vedrai che le cose si sistemeranno”.
“Tranquillo George”, ho continuato, “tra poco starai meglio”.
Poi, gli ho ripetuto: “So di cosa sto parlando. So cosa significa essere morto (I know what is like to be dead)”.
Mentre ho pronunciato questa frase, John Lennon (che era seduto lì vicino e che ha sempre odiato le persone più intelligenti di lui) si è avvicinato e mi ha chiesto: “Cosa vuoi dire, fratello?”.
Quella frase (I know what is like to be dead) lo aveva colpito.
Quando ho ascoltato il pezzo dei Beatles “She Said, She Said” e ho ritrovato quella frase sono rimasto scioccato …
Prova a pensarci: io Peter Fonda, figlio di Henry e fratello di Jane, padre di uno dei film più importanti della storia, ho pure ispirato una canzone dei Beatles …
Cosa posso volere di più dalla vita?"