MEMORIE DI UN
EASY RIDER: UNA CONVERSAZIONE CON PETER FONDA
Un ricordo di
Captain America a pochi giorni dalla scomparsa: era il 2009 ed Ezio
Guaitamacchi intervistava Peter Fonda per gli allora quarant'anni di "Easy
Rider"
Dieci anni fa, per la nuova edizione
del mio libro Figli dei fiori, figli di Satana, ho avuto un lungo
incontro con Peter Fonda che mi aveva dato l'autorizzazione a usare quella
piacevole conversazione come postfazione di quel libro. Oggi, a pochi giorni
dalla scomparsa, ho riletto l'intervista e mi sono reso conto di quanto le sue
idee e i suoi pensieri siano sempre di attualità e, per certi versi, di
esempio.
Addio "Captain America",
take it easy.
* * *
"Sembra un ragazzino.
Capelli lunghi, basette, occhiali da
sole, jeans e maglietta, Peter Fonda, a 69 anni suonati, appare e si comporta
quasi fosse ancora l’ultimo rampollo di una delle dinastie reali di Hollywood:
un piccolo ribelle, stravagante, scapestrato ma molto simpatico, amico dei
Beatles e fan dei Byrds, che fumava marijuana in pubblico e non faceva mistero
di sperimentare nuovi stati di percezione sensoriale. Un personaggio
controverso che, però, per molti, è ancora una delle icone più seducenti della
controcultura degli anni ‘60.
Magro, tonico e sorridente, Fonda
sembra davvero in gran forma (“è tutta apparenza …”, commenta in modo
autoironico, “vedi qui? Ho due belle placche nelle ginocchia, triste ricordo
di un incidente in moto”). Già, la moto …
Quella Harley Davidson Electra Glide
sulla quale posa per la felicità di fotografi e operatori tv non può non farci
venire in mente Wyatt / Captain America, il personaggio che interpreta in “Easy
Rider”, il film che ha cambiato la storia del cinema. E che, sicuramente,
ha condizionato l’intera carriera artistica di Peter Fonda e, forse, la sua
stessa vita.
A 40 anni di distanza, cos’è stato per
te “Easy Rider”?
Confesso che, all’inizio, l’enorme
successo di Easy Rider è stato quasi imbarazzante, per certi versi addirittura
fastidioso. Non era solo il pubblico a identificarmi con Captain America.
Gli stessi registi o produttori mi
offrivano ruoli che erano, di fatto, tagliati su misura per quel personaggio.
Col tempo, ho capito e accettato che
quanto si percepiva era legato all’importanza che “Easy Rider” aveva avuto. Non
solo.
Finalmente, non ero più il “figlio di
Henry Fonda” o “il fratellino di Jane”: anche se, per tutti, ancora non ero
Peter Fonda ma … Captain America.
Nella realtà, Wyatt / Captain America
e Peter Fonda sono due identità separate. È vero che ho inventato io il personaggio,
che ho scritto la storia, che ho dato lo spunto per disegnare le moto e i
costumi e che c’è molto di me nel modo di fare e di pensare di Captain America,
però io sono una persona diversa che oggi, 40 anni dopo, è orgogliosa di aver
dato vita a un film che ha cambiato la storia del cinema e (forse) del modo di
vivere di più generazioni.
Pensa che, secondo l’American Film
Institute, la più prestigiosa delle istituzioni americane sul cinema, “Easy
Rider” è uno dei 100 film più importanti del 900. È al numero 88 di questa
specialissima classifica …
Nonostante l’incredibile successo del
film, non hai mai voluto farne un sequel … E, credo, te lo avranno chiesto in
molti …
Già, ecco il vero motivo per cui ho
voluto far morire i protagonisti alla fine della storia (ride …). Prova a
pensarci: come fai a ripetere un film del genere? Come fai a dargli un seguito?
Dopo un successo tale, la critica ti aspetta con i fucili spianati: qualsiasi
cosa tu faccia, viene paragonata all’originale e ne esce sempre sconfitta.
Semmai, oggi (40 anni dopo), avrebbe
senso riprendere lo spirito di “Easy Rider”, inventandosi altri personaggi per
verificare cosa significhi per loro attraversare l’America nel nuovo millennio.
Credo che sarebbe interessante e, forse, porterebbe allo stesso tipo di domande
e riflessioni fatte per il film originale: cosa sta succedendo oggi al nostro
paese? Cosa è diventata l’America? Solo perché oggi gli Stati Uniti hanno un
presidente afroamericano significa che il razzismo è finito? No … solo perché
la maggior parte degli americani è contraria alla guerra in Iraq significa che
verranno ritirate le truppe? No
…
Verso la fine del film, Captain
America pronuncia una battuta enigmatica … “we blew it”, dice, (abbiamo
sprecato un’occasione) … cosa significa esattamente quella frase?
Non te lo dirò mai… anche se posso
svelarti che quella battuta è la prima che ho scritto per il copione di “Easy
Rider”. Era il 1967 e mi trovavo a Toronto, in Canada, per promuovere un altro
film (“The Wild Angels”, di Roger Corman). Quando ho iniziato a scrivere lo
script di “Easy Rider”, ho deciso di cominciare dalla fine. Ho pensato: sarebbe
bellissimo raccontare il finale di una storia di due ragazzi che attraversano
in moto l’America, partono con grandi intenzioni ma si devono rassegnare a
quella che è la realtà dei fatti. E alla fine, decidono di ritirarsi. Ma quella
parola, ritirarsi o più in generale, “andare in pensione”, non appartiene al
mio vocabolario. Neanche a quello della mia vita privata.
È allora che Captain America si rende
conto di qualcosa di importante che riguarda il personaggio o, più in generale,
l’intero paese. Il commento è: “we blew it”, abbiamo buttato al vento
un’occasione… e può voler dire moltissime cose. Ad esempio, può significare che,
nonostante tutto ciò che rappresenta lo spirito di cambiamento contenuto in
“Easy Rider” (la ricerca di un’identità e di uno stile di vita diverso) il
paese è rimasto quello di un tempo o è persino peggiorato. La cosa è
inquietante se la stessa riflessione la facciamo osservando il mondo odierno.
Basta guardar fuori dalla finestra per rendersi conto del livello di
inquinamento delle nostre città, della crisi economica, lo stress della gente,
le guerre nel mondo, la prevaricazione della finanza, l’arroganza delle
multinazionali: cose assurde, che dovremmo combattere con tutte le nostre
forze. Non solo: dobbiamo, purtroppo, avere la consapevolezza che la società
americana ha provocato tragedie vere in tutto il mondo.
E di questo, noi americani, dovremmo
vergognarci.
Io, me ne vergogno …
Easy Rider è anche famoso per la sua
fantastica colonna sonora. È vero che durante le riprese del film avevi la tua
12 corde con te e che era tua intenzione usare le canzoni che avevi composto
come colonna sonora del film?
È vero che, quando posso, porto sempre
la mia chitarra con me ma, ad essere sincero, non ho mai pensato di usare la
mia musica e le mie canzoni come colonna sonora del film. Piuttosto, io e
Dennis Hopper abbiamo messo insieme le nostre rispettive collezioni di dischi e
cominciato a selezionare i brani. Devo dire che la scelta dei pezzi e
l’accoppiamento degli stessi con le diverse scene dei film è stato un lavoro
svolto prevalentemente da Hopper.
Ed è stato fatto da dio. Persino i
miei amici Crosby, Stills & Nash mi hanno detto che non avrebbero saputo
fare di meglio. Persino Robbie Robertson (il chitarrista di The Band, che
avevamo interpellato prima di tutti, prima ancora di aver scelto le canzoni e
che ci aveva letteralmente snobbato) dopo aver visto il film con la selezione
dei brani musicali è rimasto di sasso. “Voglio fare io tutta la colonna
sonora”, ci ha detto, entusiasta. Ma ormai era troppo tardi.
Ripensando anche al mio ruolo di
producer, ricordo le preoccupazioni, le difficoltà nell’ottenere i permessi, il
casino nel mettere tutti d’accordo: gruppi, artisti, manager, avvocati,
discografici.
Poi ho avuto un’idea: perché non fare
dei piccoli screeening, delle visioni private riservate ai musicisti di cui
avevamo scelto i pezzi per la soundtrack? Abbiamo cominciato con gli
Steppenwolf e The Band.
Sono venuti in questa minuscola stanza
di proiezione presso gli studi della Columbia. John Kay, il leader degli
Steppenwolf, stava seduto (serissimo) con questo paio di Wayfarer neri che non
si toglieva mai, nemmeno a film iniziato… con quegli occhiali sembrava Roy
Orbison che, anche lui, non se li levava ma perché i suoi erano occhiali da
vista… mi sono messo alle sue spalle per cercare di sbirciare se quelle lenti
fossero graduate.
Alla fine, Kay si gira verso di me e
mi dice: “Peter, il film è in bianco e nero o a colori?”.
Non sapevo che fosse daltonico …
“E’ a colori, John …”
“Peter, fallo vedere ai russi in
bianco e nero: li manderai fuori di testa …”
“Volete altro materiale?”, mi ha
chiesto il manager degli Steppenwolf, entusiasta del film e del modo in cui le
canzoni della sua band erano state inserite.
Devo dire che un po’ tutti gli artisti
hanno avuto reazioni positive simili, rendendoci orgogliosi del lavoro svolto.
Jimi Hendrix, ad esempio, mi ha
chiamato da Londra e mi ha detto: “Ti voglio ringraziare per aver scelto un mio
brano per il tuo film”. Dopo la sua morte, Al Hendrix (il padre di Jimi) mi ha
mandato una lettera per farmi sapere quanto a Jimi aveva fatto piacere essere
parte del progetto “Easy Rider”.
Billy, il personaggio interpretato da Dennis Hopper, ricorda moltissimo (nel look) David Crosby: giacca a frange, capelli lunghi, baffoni… Crosby è stato una fonte di ispirazione importante?
David Crosby e Graham Nash sono miei
grandi amici. Sono stati, entrambi, fonti di ispirazione importanti per la mia
vita e non solo per “Easy Rider”: sono dei veri signori oltre ad essere artisti
stratosferici.
Detto ciò, il look di Billy non ha
niente a che fare con quello di Crosby. Sono stato io che ho suggerito a Hopper
di farsi crescere i baffi. “Anche se sei castano chiaro, devi provare ad
assomigliare il più possibile al Che Guevara”, gli dicevo.
La nostra idea, infatti, era quella di
rappresentare due “rivoluzionari” e il Che, per noi, era la quintessenza della
“rivoluzione”.
Inoltre, “Easy Rider” cercava di
dimostrare che bisogna andare oltre le apparenze. Quella degli anni ‘60 era
un’America estremamente bigotta: se avevi i capelli lunghi e i baffi o eri
vestito in modo eccentrico venivi considerato un hippy, un sovversivo, un gay,
un comunista … e rischiavi la vita. Come dimostra il finale del film.
Purtroppo, anche se in modi diversi,
nel paese c’è ancora troppa intolleranza. E abbiamo ancora molto da fare per
proseguire nell’evoluzione del nostro senso civico.
È vero che a Bob Dylan non era
piaciuto il finale tragico del film?
Innanzitutto, Dylan non ci ha lasciato
il permesso di usare la sua canzone “It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding)”:
diceva che non gli piaceva la sua parte di armonica, che non andava bene quella
cosa e quell’altra… insomma, non è stato per niente collaborativo…
Gli ho voluto parlare da amico perché,
per me, quella canzone era molto importante. Gli ho spiegato che c’è una
strofa, nel pezzo, che per me assume un significato particolare. È quella che
recita:
Suicide remarks are torn
/ From the fool's gold mouthpiece
/ The hollow horn plays wasted words
/ Proves to warn
/ That he not busy being born
Is busy dying
“le recriminazioni di un suicida sono
strazianti / dal bocchino dorato dello strumento a fiato dello stolto / escono
parole senza senso / che dimostrano soltanto che lui sta avvisando tutti che /
non è impegnato a nascere, ma è impegnato a morire”
“Forse non lo sai Bobby”, gli ho detto,
“mia madre si è suicidata quando avevo 10 anni… si è tagliata la gola, da un orecchio
all’altro… capisci perché ho bisogno di quel pezzo? Rende ancora più realistico
il racconto del film…”. Addirittura, gli ho ricordato che Hopper (nella scena
del cimitero di New Orleans) mi aveva costretto a parlare di mia madre …
Bobby è rimasto di stucco: non era
preparato a sentirmi parlare in quel modo, a ricordare in modo così crudo un
avvenimento tragico che aveva devastato la mia vita.
“Ok Fonda, mi hai convinto”, mi dice
Dylan, “fammi però aggiungere una cosa: non mi piace il finale del film, me lo
lasci completare?”
Cavolo, in quel momento ero io quello
che non era pronto a una proposta del genere …
“Cos’hai in mente, Bobby?”
“C’è la strada che l’uomo costruisce”,
dice lui, “e c’è quella che costruisce Dio. Ecco quel che succede …”.
Poi, prende un foglio di carta e
inizia a scrivere l’inizio di The Ballad Of Easy Rider.
Dylan appunta una frase su quel
foglio:
The river flows / It flows to the sea
/ Wherever that river flows that’s where I want to be/
“Il fiume scorre, scorre verso il
mare, da qualunque parte quel fiume intende scorrere è là che vorrei essere”
Mi ha regalato una canzone magnifica,
piena di poesia per il finale di un film che è stato un pugno in pieno petto.
Ho chiamato Roger McGuinn e lui ha
aggiunto la frase:
All that wanted was to be free / And
that’s what it turned out to be
“Tutto ciò che volevano era essere
liberi / ed è proprio quello che sono riusciti ad avere”
Una notte, al bar, io e McGuinn
abbiamo fatto quadrare il pezzo la cui musica accompagna i titoli di coda
lasciando un commento sonoro romantico a un film che ha entusiasmato il
pubblico, lo ha divertito, lo ha fatto sognare e poi lo ha colpito nelle parti
basse con un finale tanto scioccante quanto inatteso: una musica poetica, quasi
spirituale, che ancora oggi credo sia stato il modo migliore di chiudere
quell’opera.
Easy Rider vede il debutto cinematografico di tua figlia Bridget, giusto?
Sì… (ride) e anche di mio figlio
Justin… Sono i bimbi che fanno parte della “comune” nel New Mexico ispirata
alle due più celebri dell’epoca, la New Buffalo Comune e la Hog Farm di Wavy
Gravy. Quella delle “comuni” è stata un’esperienza importante: voleva dire
mettere a disposizione degli altri il proprio lavoro, le proprie cose, persino
i propri affetti. Chi faceva parte di una “comune” di quel tipo, isolata e
immersa in uno stile di vita rurale, veniva dalla città: non aveva idea di cosa
volesse dire far crescere piante e ortaggi, accudire gli animali, realizzare
utensili e mobili, aggiustare tutto ciò che serviva per la vita di tutti i
giorni. E questo ha, spesso, comportato disagi e problemi. Così come alcune
concezioni errate di quel modo di vivere hanno portato al veloce disfacimento
di quegli esperimenti sociali alcuni dei quali però (come le due “comuni” già
citate così come i Merry Pranksters di Ken Keasy o i Diggers di Emmet Grogan e
Peter Coyote a San Francisco) sono stati davvero rilevanti perché hanno
dimostrato la possibilità di mettere in pratica uno schema di vita davvero
alternativo, oserei dire rivoluzionario, che ribaltava il concetto di proprietà
e lo schema di valori tipico della società capitalistica americana e
occidentale.
Cos’è successo veramente in una villa
al Benedict Canyon di Los Angeles, nel 1965, tra te e i Beatles?
(risata) È stato incredibile …
Eravamo tutti fatti di Lsd ma George
Harrison e John Lennon stavano piuttosto male. Senza dire nulla agli altri,
avevano ingerito altra droga prima del trip allucinogeno e questo è un errore
che molti fanno e che è spesso alla base di “brutti viaggi”.
George, in particolare, aveva la
sensazione che le cose intorno a lui gli stessero cadendo addosso … era
terrorizzato.
David Crosby è venuto da me e mi ha
chiesto di parlare con George.
“È convinto di morire”, mi dice.
Così, sono andato da Harrison e gli ho
chiesto come si sentiva.
Gli ho anche spiegato che, da piccolo
mentre giocavo con una pistola di mio padre accidentalmente è partito un colpo
e io sono crollato a terra ferito.
“So cosa significa essere morto (I
know what is like to be dead)”, gli ho detto, “Non preoccuparti. Il tuo
cervello sta lottando per riportarti allo stato percettivo di prima. Devi stare
calmo, devi avere pazienza e vedrai che le cose si sistemeranno”.
“Tranquillo George”, ho continuato,
“tra poco starai meglio”.
Poi, gli ho ripetuto: “So di cosa sto
parlando. So cosa significa essere morto (I know what is like to be dead)”.
Mentre ho pronunciato questa frase,
John Lennon (che era seduto lì vicino e che ha sempre odiato le persone più
intelligenti di lui) si è avvicinato e mi ha chiesto: “Cosa vuoi dire,
fratello?”.
Quella frase (I know what is like to
be dead) lo aveva colpito.
Quando ho ascoltato il pezzo dei
Beatles “She Said, She Said” e ho ritrovato quella frase sono rimasto scioccato
…
Prova a pensarci: io Peter Fonda,
figlio di Henry e fratello di Jane, padre di uno dei film più importanti della
storia, ho pure ispirato una canzone dei Beatles …
Cosa posso volere di più dalla
vita?"
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