Qohelet – “Il Cantico dei Cantici” (2025)
di Alberto Sgarlato
A chi segue con passione e fedeltà le pagine
di MAT2020, il nome di Gianni Venturi non
risulta affatto nuovo. Nel mondo della musica di qualità ha ottenuto popolarità
come cantante degli Altare Thotemico, elegantissimo progetto tra rock
progressivo e jazz-rock. Oltre questo, ha fatto molto altro: nei suoi dischi
solisti spinge all’estremo la sperimentazione vocale, fondendola con testi di
denuncia sociale e con una lucida analisi del mondo attuale; la Banda Venturi è
un collettivo tra cantautorato, folk e riscoperta delle radici; Moloch è un
progetto in duo con Lucien Moreau, tra industrial, rumorismo, elettronica e
musica concreta.
Ed ecco che finalmente arriviamo al secondo
capitolo del progetto Qohelet. Esso nasce
a quattro mani con un altro nome di tutto rispetto nella scena musicale
italiana: Alessandro Seravalle,
polistrumentista noto nella scena prog italiana come fondatore, negli anni ‘80,
dei Garden Wall. Insieme al fratello Gian Pietro, realizzatore anche
dell’Officina F.lli Seravalle.
Il titolo del nuovo album dei Qohelet è già,
di per sé, qualcosa di monumentale: “Il Cantico
dei Cantici”. Qui Venturi esprime liberamente le sorprendenti
potenzialità interpretative che lo hanno reso noto, mentre Alessandro Seravalle
si districa con sapienza tra chitarre di vario tipo caratterizzate da varie
accordature e intonazioni, pianoforte, piano elettrico, sintetizzatori,
apparecchiature elettroniche di ogni sorta e un nutrito parco di percussioni
intonate e non.
A dare manforte ai due titolari del progetto
appaiono anche, in qualità di ospiti, Emiliano Vernizzi al sax e gli
“interventi ritmici” di Gian Pietro Seravalle (dell’Officina). Entrambi
questi due comprimari giocano però un ruolo decisamente di rilievo nelle
dinamiche sonore dell’album.
Interessante notare, inoltre, che nelle note
di copertina Gianni Venturi è accreditato al cosiddetto “autotune creativo”. A
riprova, ancora una volta, che non è la tecnologia di per sé a rappresentare
una minaccia, ma è l’uso che se ne fa che può essere intelligente e innovativo
(come in questo caso) o, come per la maggior parte delle produzioni mainstream
di oggi, semplicemente pessimo.
Otto tracce di durata oscillante tra i 6 e
gli 8 minuti di media, ci guidano attraverso il fluire magmatico del libero
pensiero generato dal duo Seravalle/Venturi: si parte con “Prologo”
e, se Venturi declama “il tuo amore inebria più del vino / il tuo nome è un
unguento penetrato”, la stessa cosa si potrebbe dire di questo sound, fatto
di suoni gravi e oscuri, di loop ipnotici, di sax lancinanti, che penetrano
davvero sotto i tessuti cutanei dell’ascoltatore. Perché questa non è musica
“epidermica”, superficiale: bisogna essere predisposti non solo ad ascoltarla,
ma ad assumerla, a compenetrarvi.
In questa introduzione sono già tracciate le
vie che troveremo nei cinque brani portanti dell’opera, non titolati ma
numerati da “Primo Poema” a “Quinto Poema”, seguiti
da un “Epilogo” e una “Appendice Finale”.
I testi, ipnotici tanto quanto questa musica
cupa e rarefatta, sono alquanto criptici; Eros e Thanatos, Amore Universale
(per la donna, per la carne, per la natura intorno a noi) e angoscia,
contrapposizioni continue tra il Bene e il Male, riferimenti letterari e
citazioni (i due titolari del progetto non hanno mai nascosto il loro amore per
Guido Ceronetti) si inseguono in quella situazione che lo stesso Venturi
definisce più affine a un’opera teatrale che a un album.
Leggermente meno cupe si fanno le
ambientazioni del Secondo e del Terzo Poema, complici anche i piccoli tocchi di
pianoforte e di un sax giocato su timbriche più acute, a far da supporto
all’intensità drammatica di Venturi, energica sia nei testi, sia nell’interpretazione.
Nel “Quinto Poema” un sapiente uso dei
riverberi, soprattutto applicati al sax, accentua ancora di più quel senso di
vuoto e di smarrimento apparentemente perfetto per replicare i contenuti
pessimisti del reale Qohelet del V Secolo a. C., testo contenuto nella Bibbia
(secondo alcune fonti attribuito al Re Salomone).
I loop ritmici della “Appendice Finale”
sembrano rappresentare, in un salto temporale, l’Uomo oggi incastrato nelle
gabbie della modernità.
Come dicono gli stessi autori: “Da non ascoltare in sala da pranzo, ma nel silenzio e nel buio”.
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