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mercoledì 16 aprile 2025

Dalle radici prog al cuore del disagio contemporaneo: "Burnout" di Laborious Breakdown-Commento di Alberto Sgarlato

 


Laborious Breakdown – “Burnout” (2025) 

di Alberto Sgarlato


Oggi, la nostra storia inizia partendo dai Mogador e proseguendo con i Trewa: sono due band, i Mogador più legati al rock progressivo classico, i Trewa più virati verso il folk-rock, ma ambedue contaminate da innegabili influenze metal, che hanno visto la luce nel Comasco durante il primo decennio degli anni 2000 e che hanno dato alle stampe quattro album ciascuna.

Chi segue con affetto e trasporto la scena progressiva italiana in tutte le sue declinazioni conosce bene questi due nomi. E di conseguenza conosce il polistrumentista Luca Briccola, che di entrambe ha fatto parte.

In questo 2025, Briccola annuncia il suo debutto solista. E quando diciamo solista lo intendiamo nel senso più letterale del termine, visto che in questo album l’artista comasco compone, produce e suona tutti gli strumenti, svelando competenze tecniche davvero di altissimo livello.

L’esperienza per fare ciò, maturata ormai in quasi due decenni di produzioni e di collaborazioni, non gli manca. Briccola sceglie però di non firmare l’album con il suo nome e cognome, bensì dietro una sorta di pseudonimo progettuale, Laborious Breakdown.

L’album consta di una sola traccia interamente strumentale, della durata di 42 minuti. Sappiamo che volendo si possono raccontare interi romanzi, senza per questo dover cantare neanche una singola parola. Pensiamo a un album come “Music inspired by the Snow Goose”, dei Camel, che metteva in scena in forma strumentale gli orrori della battaglia di Dunkirk rifacendosi all’omonima opera letteraria di Paul Gallico. O pensiamo ancora a “Tubular bells”, di Mike Oldfield, che per le sensazioni di ansia e di inquietudine che riusciva a generare attraverso alcune sue partiture, fu scelto persino come colonna sonora da William Friedkin per il suo film “L’esorcista”.

Un altro aspetto fondamentale della musica è quello di veicolare un messaggio forte all’interno dell’epoca in cui nasce: così se i Camel in qualche modo negli anni ‘70 erano succubi di un conflitto mondiale terminato da 30 anni ma che ancora, tramite la Guerra Fredda, sembrava dietro l’angolo, se i Goblin, musicando le paure dei film di Dario Argento, in realtà generavano una proiezione del senso di instabilità dell’Italia negli anni di piombo, allo stesso modo Luca “Laborious Breakdown” Briccola, attraverso la musica realizza un concept album dedicato a uno dei più grandi mali della nostra epoca. Il disco si intitola “Burnout”, e già il titolo riassume ogni cosa: con questa parola viene infatti descritta la sindrome da stress da lavoro; in questo III Millennio da una parte caratterizzato dalla velocità, dalla frenesia e da ritmi sempre più elevati, dall’altra segnato da un’economia incentrata sul cosiddetto turbocapitalismo e sul consumismo più sfrenato, solo in Italia e solo negli ultimi due anni circa l’80% dei lavoratori ha sofferto o sta soffrendo di questo disturbo nervoso.

L’album “Burnout” potrebbe anche essere inteso, in realtà, come quattro suite, della durata di circa una decina di minuti ciascuna, caratterizzate da quattro titoli che riassumono le quattro fasi della sindrome da burnout secondo la psicologia contemporanea. Ma “spezzettare” l’opera in questa maniera significherebbe mortificarla, sminuirla e non comprenderla nella sua interezza.

“Burnout” è concepito per essere un unico brano e come tale va ascoltato, metabolizzato e assorbito per coglierne profondamente l’essenza.

La fiamma dell’entusiasmo lavorativo che pian piano va a spegnersi, le illusioni e le aspettative che si diradano, la rabbia crescente, la sensazione di trovarsi davanti a vie di fuga che si affacciano sul nulla. Così Briccola descrive poeticamente ciò che in psicologia è stato diagnosticato e codificato.

E attraverso quei famosi 42 minuti di musica, tutto ciò si traduce in una intro affidata a sibili, vento, dissonanze e rumorismo che offrono la sensazione di crescita di questo disagio interiore; qui ben presto prende forma un arpeggio chitarristico che segnerà il tema portante della prima parte. Ma il brano accelera, tra riff chitarristici ipercompressi su cui si snodano virtuosismi di sintetizzatore; un Hammond di gusto hard-rock (si potrebbe pensare agli Uriah Heep o Kansas) “urla” alternandosi con le acrobazie del Moog, mentre le chitarre sembrano continuare a farsi via via più dure.

Non mancano, però, momenti in cui i soli chitarristici, pur giocati su una tecnica elevata, si fanno a tratti più melodici. E qui e là sembrano persino fare capolino dalle retrovie altri sintetizzatori dai suoni metallici, percussivi e tintinnanti (qui la lezione dei Goblin o del Mike Oldfield citati all’inizio, tra le righe sembra trasparire).

Ma l’animo umano è fatto di mille sfumature e lo scopo di questo disco è proprio quello di esplorarle tutte. Per cui, tra momenti di puro metal prog e altri dove si fa protagonista un organo “figlio” di “Brain Salad Surgery” degli ELP, non mancano inaspettate e ariose aperture pianistiche e di gusto cameristico (ascoltare la parentesi tra il 15° e il 17° minuto per credere, ma non è l’unica).

E spesso è proprio in questi momenti più soft che si insinuano anche ricami chitarristici dai toni suadenti.

Verso il 25° minuto rientriamo nel tema iniziale, virando da qui verso imprevedibili suggestioni di prog “pastorale” (la scuola di artisti come Steve Hackett o Anthony Phillips è qui piuttosto forte), ma in questo album i momenti di quiete sono quasi sempre preludio a evoluzioni più tese ed energiche. Il tutto verso una toccante chiosa pianistica che ci accompagnerà all’impennata finale.

Un album certamente non facile, che richiede numerosi ascolti e che impone concentrazione, ma che sa come arrivare dritto al cuore dell’ascoltatore.







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