Laborious Breakdown –
“Burnout” (2025)
di Alberto Sgarlato
Oggi, la nostra storia inizia partendo dai
Mogador e proseguendo con i Trewa: sono due band, i Mogador più legati al rock
progressivo classico, i Trewa più virati verso il folk-rock, ma ambedue
contaminate da innegabili influenze metal, che hanno visto la luce nel Comasco
durante il primo decennio degli anni 2000 e che hanno dato alle stampe quattro
album ciascuna.
Chi segue con affetto e trasporto la scena
progressiva italiana in tutte le sue declinazioni conosce bene questi due nomi.
E di conseguenza conosce il polistrumentista Luca
Briccola, che di entrambe ha fatto parte.
In questo 2025, Briccola annuncia il suo
debutto solista. E quando diciamo solista lo intendiamo nel senso più letterale
del termine, visto che in questo album l’artista comasco compone, produce e
suona tutti gli strumenti, svelando competenze tecniche davvero di altissimo
livello.
L’esperienza per fare ciò, maturata ormai in
quasi due decenni di produzioni e di collaborazioni, non gli manca. Briccola
sceglie però di non firmare l’album con il suo nome e cognome, bensì dietro una
sorta di pseudonimo progettuale, Laborious Breakdown.
L’album consta di una sola traccia
interamente strumentale, della durata di 42 minuti. Sappiamo che volendo si
possono raccontare interi romanzi, senza per questo dover cantare neanche una
singola parola. Pensiamo a un album come “Music inspired by the Snow Goose”,
dei Camel, che metteva in scena in forma strumentale gli orrori della battaglia
di Dunkirk rifacendosi all’omonima opera letteraria di Paul Gallico. O pensiamo
ancora a “Tubular bells”, di Mike Oldfield, che per le sensazioni di ansia e di
inquietudine che riusciva a generare attraverso alcune sue partiture, fu scelto
persino come colonna sonora da William Friedkin per il suo film “L’esorcista”.
Un altro aspetto fondamentale della musica è
quello di veicolare un messaggio forte all’interno dell’epoca in cui nasce:
così se i Camel in qualche modo negli anni ‘70 erano succubi di un conflitto
mondiale terminato da 30 anni ma che ancora, tramite la Guerra Fredda, sembrava
dietro l’angolo, se i Goblin, musicando le paure dei film di Dario Argento, in
realtà generavano una proiezione del senso di instabilità dell’Italia negli
anni di piombo, allo stesso modo Luca “Laborious Breakdown” Briccola, attraverso
la musica realizza un concept album dedicato a uno dei più grandi mali della
nostra epoca. Il disco si intitola “Burnout”,
e già il titolo riassume ogni cosa: con questa parola viene infatti descritta
la sindrome da stress da lavoro; in questo III Millennio da una parte
caratterizzato dalla velocità, dalla frenesia e da ritmi sempre più elevati,
dall’altra segnato da un’economia incentrata sul cosiddetto turbocapitalismo e
sul consumismo più sfrenato, solo in Italia e solo negli ultimi due anni circa
l’80% dei lavoratori ha sofferto o sta soffrendo di questo disturbo nervoso.
L’album “Burnout” potrebbe anche essere
inteso, in realtà, come quattro suite, della durata di circa una decina di
minuti ciascuna, caratterizzate da quattro titoli che riassumono le quattro
fasi della sindrome da burnout secondo la psicologia contemporanea. Ma
“spezzettare” l’opera in questa maniera significherebbe mortificarla, sminuirla
e non comprenderla nella sua interezza.
“Burnout” è concepito per essere un unico
brano e come tale va ascoltato, metabolizzato e assorbito per coglierne
profondamente l’essenza.
La fiamma dell’entusiasmo lavorativo che pian
piano va a spegnersi, le illusioni e le aspettative che si diradano, la rabbia
crescente, la sensazione di trovarsi davanti a vie di fuga che si affacciano
sul nulla. Così Briccola descrive poeticamente ciò che in psicologia è stato
diagnosticato e codificato.
E attraverso quei famosi 42 minuti di musica,
tutto ciò si traduce in una intro affidata a sibili, vento, dissonanze e
rumorismo che offrono la sensazione di crescita di questo disagio interiore;
qui ben presto prende forma un arpeggio chitarristico che segnerà il tema
portante della prima parte. Ma il brano accelera, tra riff chitarristici
ipercompressi su cui si snodano virtuosismi di sintetizzatore; un Hammond di
gusto hard-rock (si potrebbe pensare agli Uriah Heep o Kansas) “urla”
alternandosi con le acrobazie del Moog, mentre le chitarre sembrano continuare
a farsi via via più dure.
Non mancano, però, momenti in cui i soli
chitarristici, pur giocati su una tecnica elevata, si fanno a tratti più
melodici. E qui e là sembrano persino fare capolino dalle retrovie altri
sintetizzatori dai suoni metallici, percussivi e tintinnanti (qui la lezione
dei Goblin o del Mike Oldfield citati all’inizio, tra le righe sembra
trasparire).
Ma l’animo umano è fatto di mille sfumature e
lo scopo di questo disco è proprio quello di esplorarle tutte. Per cui, tra
momenti di puro metal prog e altri dove si fa protagonista un organo “figlio”
di “Brain Salad Surgery” degli ELP, non mancano inaspettate e ariose aperture
pianistiche e di gusto cameristico (ascoltare la parentesi tra il 15° e il 17°
minuto per credere, ma non è l’unica).
E spesso è proprio in questi momenti più soft
che si insinuano anche ricami chitarristici dai toni suadenti.
Verso il 25° minuto rientriamo nel tema
iniziale, virando da qui verso imprevedibili suggestioni di prog “pastorale”
(la scuola di artisti come Steve Hackett o Anthony Phillips è qui piuttosto
forte), ma in questo album i momenti di quiete sono quasi sempre preludio a
evoluzioni più tese ed energiche. Il tutto verso una toccante chiosa pianistica
che ci accompagnerà all’impennata finale.
Un album certamente non facile, che richiede numerosi ascolti e che impone concentrazione, ma che sa come arrivare dritto al cuore dell’ascoltatore.
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