Gianni
Lenoci – Enzo Lanzo: gli Architetti Bevitori d'Assenzio
di Claudio Milano
Ad animare la scorsa estate, non
solo di intrattenimenti o di salotti per pseudo-intellettuali a caccia di
avventure nella nuova meta del turismo sessuale, il Salento,“Dweto” è stata la
Rassegna musicale, consegnata dalla direzione artistica di Enzo Lanzo, ad un pubblico di
avventori del linguaggio della musica di confine, nella cornice del suggestivo
Jazz Club Quattro Venti, a Fragagnano (TA). Duetti, appunto, per quanto
l'assonanza del nome della rassegna, abbia giocato sul tema della primordialità
degli spiriti delle culture animiste africane, che come fantasmi, si affacciano
alle nostre coscienze, nelle cronache di naufragi. Incontri musicali, nati da
progettualità, che hanno avuto l'estro percussivo di Lanzo, presente in ciascun
momento performativo, come comune denominatore e che andrà a definire un album,
con le incisioni più significative, tratte dalle singole esibizioni, che han
visto alternarsi, in singoli eventi, Gaetano Partipilo, Roberto Ottaviano,
Mirko Signorile e per chiudere, Gianni Lenoci. Un articolo assai meditato questo,
per lasciar spazio anche ad ascolti protratti delle produzioni discografiche
dei due musicisti di cui, di seguito, si parlerà in sintesi. Ma anche un
articolo che ha consapevolezza di come la musica di cui racconterò, non senza
emozione, non abbia fretta. E’ già oltre.
E' della serata, del 14 Giugno 2015, che parlerò,
considerandola spunto per tratteggiare i profili dei due protagonisti,
compositori e performer, che da
almeno due decenni, contribuiscono a ridefinire un linguaggio musicale, che dal
jazz parte, ma che altrove giunge, interrogando alle radici il “parlar di nuova
musica e il farla concretamente”.
Lenoci, è titolare della cattedra jazz presso il Conservatorio di
Monopoli. Profondamente legato al valore dell’evoluzione della musica e non
alla tradizione, Gianni, è profondo studioso dei percorsi di Lacy, Morton
Feldman, di Cage (eccezionali in materia, le due produzioni incise per la Amirani di Gianni Mimmo, la seconda a
compendio della funambolica e sensibile Nuova
Vocalità di Stefano Luigi Mangia), della musica classica che viene prodotta
oggi, quando per oggi, s’intende, Settembre 2016. Nella sua musica, c’è
l’ascendenza più diretta del legame tra musica, poesia e vita come forma
d’arte, che da Skrjabin in poi, ha trovato percorsi, solo apparentemente
laterali alla percezione della forma, che si sarebbe sfaldata, più che nel
serialismo, o nella rigida quanto drammatica, numerologia dodecafonica, nel
puntillismo pittorico di Mark Tobey e che in musica, avrebbe raggiunto
deflagrazione in Coleman, Ayler, Coxhill. Non solo, è vicino alla scena più
progettuale del jazz nordeuropeo, che da Nate Wooley, Nels Cline, Kamasi Washington,
Elliott Sharp, il compianto Derek Bailey, passa per Mats Gustafsson, FIRE!
Orchestra, Colin Stetson e il sempiterno Brotzmann. E’ invece di quanto di più
distante possibile, dal pianismo jazz popolare d’ascendenza post-moderna
(Bollani, l’ultimo Signorile, Mehldau, Craine), quanto dal neo-tribalismo bartokiano di Virelles. Un intellettuale
del jazz dunque? Niente di più falso. La sua musica, fatta di nebulose, tasti
d’avorio appena accarezzati in cascate luminescenti, che trovano completa
autonomia rispetto al pianismo torrenziale di Cecil Taylor, corde nella cassa
pizzicate, come nel suonare un’arpa a pedali, s’accende di una passione senza
eguali, generando vortici percettivi che in un parallelo di pensiero
associativo, neanche Turner, nei suoi gorghi di pigmento, ha rivelato.
Di contro, Lanzo, batterista dalla tavolozza assai ampia di sfumature, ha
fatto della vitalità afroamericana più pura il suo racconto a fuoco. Dalla
tradizione e il metodo, il batterista pugliese, si è spostato alla geometria kandinskyana, nella felicissima e matura
scrittura per fiati di Boastful Speeches,
secondo album solista e autentico capolavoro di nuovo jazz, seguito,
all’eccezionale esordio Rondonella,
che dalla sanguigna tradizione popolare musicale e verbale dei racconti (“li
cunti”), dell’entroterra tarantino, approdava al free jazz e all’astrattismo
jazz, per ensemble composto da strumenti tradizionali e auto-costruiti. Nulla è
mancato al percorso di Lanzo, il rock, il ricordo dell’esperienza Rock in
Opposition (ben espresso nell’album Tonante.Piango,
che dal ricordo anarcoide dei ’70 trae linfa) e della scena canterburiana, la
fusion, il grande amore per Paul Motian, per la mediterraneità più pura
(lontana comunque da particolari interessi per la scuola sudamericana), come
per i maestri est europei, neanche una fortunatissima e lunga collaborazione
con Larry Franco, che dallo swing ha mosso i suoi passi. Il jazz di Lanzo è
energia, sorriso, gioco serio e mai serioso, ma, come nella scrittura e nel
metodo performativo di Lenoci, non deraglia mai nel fine a sé stesso, nel caos,
che tante produzioni di Setola di Maiale, Improvvisatore Involontario, El Gallo
Rojo, hanno dispensato nell’ultima decade. E’ sempre presente una
progettualità, ben espressa, tra l’altro, nel suo trattato La Poliritmia nel Jazz.
Lo scenario:
Più che un'osteria, come Quattro
Venti si autotitola, il luogo che accoglie l'evento, già memore della presenza del migliore panorama
jazz italiano, teatro e musiche altre, ha il sapore, gli odori, i modi, di un'antica
locanda. A contribuire, l'espressionismo pittorico su muri e tele, ad opera di
Chiara Chiloiro, autentica trasposizione in chiave cromatico-materica del
“sentire” free jazz e le visionarie
tavole ad inchiostro, dal sapore street-pop di Damiano Todaro. Stampe di
Escher, accoglienza, buon cibo, vino e birra, preparano al meglio.
Il concerto:
Dedicata alla recente scomparsa di
Ornette Coleman, la scaletta si apre con Black
and Blue di Fats Waller. Guida affidata a Lenoci. Chiara la capacità di
definire geometrie che spaziano dal linguaggio jazz più tradizionale ad una
dimensione assai eterea, dove il riferimento tonale diviene più vago. A
seguire, Deadline (Lacy), uno dei
momenti più alti dell’esibizione. Si esprime la volontà di creare una musica
profondamente “bella”. Via via, il linguaggio free prende il sopravvento e ci si avvicina ad un flusso che ha
familiarità con la musique concrete e
l’astrattismo informale di Pollock. Lenoci illustra territori che raggiungono
davvero il parossismo tecnico/armonico, ben sposati ad un Lanzo ispiratissimo,
nella gestione di dinamiche camaleontiche. Dissoluzioni formali astratte, si
ricompongono in un mosaico dalla leggibilità melodica immediata, che non
rinunciano neanche ad un uso percussivo di tasti e pelli, di più diretta chiave
afroamericana. C’è tanta poesia in questa interazione, epidermica, che eccita
per alterità. Non solo Coleman, ma Schoenberg, Messiaen, condotti alle
propaggini più subliminali, del “sentire e generare” suono. La sequenza Angel Eyes/Lonely Woman, apre ad una
forma atonale ampiamente esibita, con altrettanto furore percussivo, ma si
scioglie in breve in una astratta forma con cadenze blues, per mutare ancora in
un delicatissimo romanticismo dal forte impatto emozionale. Lanzo dispensa
energie con una ricchezza e varietà timbriche (e di accenti), davvero
apprezzabile. L’essenza, ora meditativa del pezzo, si spegne gradualmente in
soluzioni armoniche più parche di trascolorazioni, accendendosi, in ritmiche
che tornano a dare fuoco. Lenoci disegna ragnatele impervie di suono, pari a
schegge d’eruzione emotiva. “L’arte dell’elasticità dell’intervallo”, la si
potrebbe definire. Nell’alternanza di tempo e spazio sonico, il semitono
diviene sempre più vago e si percepisce pulviscolo. Nulla a che vedere con
microtonalità e Oriente. E’ nuova mitteleuropa. E’ grande il disegno interiore
appresso a questo flusso, che torna a definire una cosa, che è, certo, storia,
ma che si sta perdendo appresso a necessità di consenso e auto-referenzialità:
“jazz è auto-consapevolezza che diviene libertà”. Per carità, ogni genere ha
avuto i suoi eroi, con un carico appresso di manifestazione di “bravura”, ma
più il tempo passa, più le opere jazz che rimangono nella memoria collettiva,
sono i grandi affreschi, dove è un disegno comune a definire i tratti di una
bellezza che non cede passo al trascorrere dei decenni. Il percorso di note e
pulsioni, torna a raccogliersi reptineo, nel definire una poesia melodica
conclusiva, davvero struggente. Snake Out
(Waldrom), è invece essenza del ritmo che incontra le estremizzazioni più
improbabili del fraseggio su tastiera. Una medusa che si sfrangia, seminando
ovunque propaggini di sé. Lenoci ritesse metempsicosi, dando lezione di istant composing lontana da stasi
alcuna. Lanzo lo sostiene, disegnando contrappunti di una bellezza assai vicina
all’arte orientale (che qui, ora, fa capolino) di produrre alternanza tra
suono, tocco/colore e misuratissimi silenzi. Il furore che nasce dalle
accensioni percussive, è pari a quello di benzina lanciata su petali di fiori,
a disegnare sadicamente, contorni appresso alla luce del sole. La padronanza di
linguaggio del pianista pugliese è pari a quella di un ago di bilancia. Ida Lupino (Carla Bley), ritorna a dar
timone allo strumento di cui la Bley è stata ed è, gigante. Il romanticismo in
cui Lenoci affoga la poetica dell’artista statunitense, è pregno di vita,
umori, presenza, consapevolezza della precarietà dell’essere. Non è un caso,
che io abbia parlato in precedenza di mitteleuropa. Profondità sondabilissima a
fior di pelle e stilettate. Pensoso e crudo, quanto creato in questo brano, non
ha possibilità di essere raccolto in parole, E’ Il senso di tensione
ammutolisce lo sparuto pubblico, che non appare molto avvezzo a queste
dinamiche, segue con attenzione, ma pare non cogliere altro se non la
manifestazione più tecnica del percorso, come ad aspettare la classica
alternanza di soli, in dialoghi che qui, invece, sono giunti. Un racconto del
sé senza mestiere esibito, o cadute di tono, dunque. Vita che non accetta
intrattenimento. Lanzo, lascia che tutto scorra, per rientrare con maestria,
nella sezione conclusiva. Da vedere, oltre che da ascoltare, per cogliere
segreti nascosti tra smorfie, rughe, sorrisi, riflessi. In breve, l’arte di
Lenoci, indaga il piano con un fare che attraversa massimalismo e minimalismo
all’occorrenza, impiegando ciò che è utile al momento, un fare “contemporaneo”,
che nulla ha a che spartire con i retaggi post-modernisti, in voga più che mai,
nel citazionismo pianistico di blasonati danzatori dei tasti d’avorio fratelli
in musica della Transavanguardia. E’ come se John Zorn rimanesse comunque e
senza possibilità di deviazione, il faro a cui volgersi per dichiararsi “nuovi”
(per quanto tempo ancora, si continueranno a chiamare i The Necks, band
post-rock?), quando, oggettivamente, molto è cambiato nel giro di pochi anni,
tutti se ne sono accorti, ma si è nell’attesa di uno scatto di lancetta, da
secolarismo integralista, che più nobile rende percorsi come la classica contemporanea
e, qui in questione, il verbo jazzistico. Questa sera, per grazia ricevuta,
solo integrazione organica al moto emotivo. Ci si avvia alla conclusione del
viaggio e lo si fa con una tensione “altra”. Dare è importante su un palco, ma
lo è altrettanto ricevere e il risultato di una performance è comunque, figlio
del legame col pubblico. Palco è sempre arena e da quella di questa sera, se ne
vien fuori in modo memorabile, ma per chi ha accolto. Ora è tempo di qualche
concessione. Curiosamente, questo “accordo”, arriva con un pezzo di Coleman, Latin Genetics. Pianoforte pizzicato,
cassa percossa. Lanzo invece, tramuta con leggerezza, una batteria in un coro
di percussioni africane, imbevute di memorie europee. C’è una grazia
intellegibile, forse ricercata, ma godibile. L’intera esecuzione si articola su
un ostinato, che lentamente va a spegnersi, senza trovare un centro energetico
nel mezzo. Maestria, con qualche cenno di stanchezza, che incontra però, felice
accoglienza del pubblico. La richiesta del bis, vede una All the Things you are, dall’eccellente interplay, ma con un‘urgenza espressiva, anche in termini di
cronometro, di porre un ultimo accento, gradevole, al concerto più bello del
2015, a cui mi sia stata data l’opportunità di essere presente.
Claudio
Milano
Settembre
2016
Rassegna
“Dweto”
Quarto
incontro, 14 Giugno 2015
Enzo
Lanzo: batteria, percussioni
Gianni
Lenoci: pianoforte
Osteria
Jazz Club “Quattro Venti”, Fragagnano (TA): http://osteriaquattroventi.blogspot.it/
Setlist:
Black and Blue
Deadline
Angel Eyes/Lonely Woman
Snake Out
Ida Lupino
Latin Genetics
encore:
All the Things you are
Links:
Enzo
Lanzo:
Gianni
Lenoci:
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