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venerdì 28 ottobre 2016

I pensieri e la musica di Booker T Jones, di Giorgio Mora



Articolo già rilasciato su MAT2020

I pensieri e la musica di Booker T Jones
di Giorgio Mora

Londra, luglio 2016

Una giornata con Booker T, a Londra. Il venerato maestro, tanto amato da John Lennon e dai Beatles e da una schiera di musicisti tra cui si annoverano vari big del dopoguerra, arriva di prima mattina nella sala di accoglienza dell’hotel. Racconta il presente, le impressioni sulla musica che cambia e sulla sua storia, prima di cimentarsi sul palco del Brooklyn Bowl in un applauditissimo concerto. Booker che parla e Booker che suona, sono, in fondo, la stessa persona: delicata e attenta a non svisare mai troppo, dal senso delle frasi e dalla timbrica del gospel e del soul.

Prima, allora, il Booker che parla. “Oggi? La musica è molto elettrica, i computer hanno un ruolo fondamentale che ieri non avevano, si registra con tempi minori e più facilità. In meglio o in peggio però, è sempre in base al talento dell’artista. Quando iniziavo a suonare, eravamo tutti in una stanza e registravamo in contemporanea. Ora puoi avere due musicisti in paesi diversi che suonano nello stesso momento sul medesimo pezzo.” Booker T Jones, leader e grande profeta del suono Stax, ha guidato per anni la premiata ditta The MGs.

Sono cresciuto con blues e gospel, mia madre suonava classica, io ho studiato classica e lirica in college, all’Università dell’Indiana.” Booker il maestro riconosciuto. “No, non mi considero tale, mi fa piacere la considerazione, ma il senso del mio lavoro è esprimere la musica che ho in mente e portarla alla gente”. Booker e i Beatles, e una leggenda per sempre chiarita. “Avevamo un rapporto intenso, ho molta ammirazione per il loro lavoro, ma non è vero che intendessero registrare Revolver agli studi della Stax, sono suggestioni che continuano a esistere, ma non è così.” Booker – potrebbe essere altrimenti ?– e il sound della Stax. “Molte case discografiche hanno copiato quel suono, ma l’originale rimane Stax, e sono fiero di averne fatto parte. Tanti musicisti sono stati influenzati dalle vibrazioni provenienti da Memphis: Elvis, BB King, Al Green, Otis Redding.”

Il maestro dell’hammond parla ancora di origini: “I musicisti di quell’area avevano un background comune, condiviso le medesime esperienze, la schiavitù, il lavoro nei campi, ascoltato e suonato jazz sulle barche sul fiume, sviluppato un sound, nei club, nei night. Io ho cominciato a suonare nei club, quando avevo 11 anni, suonavo il sax al Manhattan club, il sax baritono per un club per persone di colore, Jimbo club, in downtown Memphis, dove ho cominciato a imparare il blues.” Booker e Otis. “Quando l’ho conosciuto faceva il facchino, preparava il caffè e le colazioni, un lavoro duro. Un giorno chiese di cantare un pezzo e Al Jackson lo invitò sul palco e tutto cambiò non appena cominciò “This arms of mine”, quella fu anche la prima volta che ascoltai la sua voce. Divenne subito uno di noi, o meglio noi ci avvicinammo a lui. Quanto iniziò a cantare capii che sarebbe diventato un re. Eravamo molto amici, era un uomo tranquillo, non parlava spesso, ma io lo capivo. Parlava molto di musica, il suo primo amore. E’ stata una grandissima perdita, per me, per l’etichetta, ma soprattutto per il mondo intero.

Booker & The MGs: “Il mio più grande amico era Al Jackson Jr. Otis è morto a 26 anni, Al ne aveva 39, erano grandi, sono morti troppo giovani. Donald “Duke” Dunn è morto due anni fa. Era in Giappone, non si è sentito bene, pensavano fosse colpa del jet lag, alla fine dello show è tornato in camerino ed è morto.” Eccoci al suo rapporto con l’Europa, Londra. “Mi piace molto suonare in Europa, ho molti fan qui, da sempre. La mia carriera è iniziata quando sono atterrato a Londra e ho cominciato a suonare nei grandi club, penso che il 60% del mio successo sia da attribuire ai fan europei: inglesi soprattutto, ma anche italiani, tedeschi, francesi. L’ultima volta che ho suonato in Italia è stato a Perugia ma era molti anni fa. La band non si riunirà, anche se con Steve Crooper ci vediamo e suoniamo spesso insieme. La perdita di Al e Donald non ci permette più niente.” Booker e il futuro. “La musica è cambiata e il nuovo disco sarà con mio figlio. I cambiamenti li sto affrontando con lui, stiamo pensando a un nuovo album, con molta elettronica e musica dance in svariate forme, uno dei pezzi si intitola Deep Hous, una combinazione di soul, funk e elettrica.”

Poi viene subito sera, e scocca l’ora del concerto. La sala è piena di gente, 400 persone, forse di più. Con Booker ci sono Darian Gray alla batteria, Melvin Brannon Jr al basso e il figlio Ted alla chitarra. E’ una band che parte in picchiata e poi si ferma, rallenta e riparte, in un fuoco d’artificio tra passato e presente. Booker suona i classici, “Green Onions” in testa e omaggia Prince con “Purple Rain” e Otis con “Respect”. Poi si ricorda di “Summertime”, imbraccia la chitarra per “Mannish boy”, ed “Hey Joe”, con un bel saluto a Jimi Hendrix, fa faville con “Soul Limbo”, “Meltin pot” e “Hang ‘Em High”, fino a presentare “Born under a bad sign” di Albert King e la deliziosa “Mr. Big stuff” di Jean Knight, con la bravissima vocalist Denosh Bennett. Il finale è da pelle d’oca: prima”Everything is everything” di Lauryn Hill e quindi “Time is tight”, ma quando sembra tutto finito, ecco la musica risorgere con un classico di Otis splendidamente suonato da Booker, suo antico fratello: “I’ve been loving you too long”.

Il maestro ci aveva avvisato alla mattina che il bello dei suoi concerti è che non ve ne è mai uno uguale all’altro. Ma c’è anche parecchio di più: c’è il talento fantastico di un uomo che fa parte da vivo della grande leggenda della musica moderna, c’è uno stile inconfondibile e un hammond di vecchia lega sul quale sta seduto come un principe. Un principe che suona e si diverte, e lascia alla memoria dei presenti un ricordo indelebile, nel segno del soul, del blues e del gospel di Memphis e dintorni. 

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