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I
pensieri e la musica di Booker T Jones
di
Giorgio Mora
Londra,
luglio 2016
Una giornata con Booker T, a Londra. Il
venerato maestro, tanto amato da John Lennon e dai Beatles e da una schiera di
musicisti tra cui si annoverano vari big del dopoguerra, arriva di prima
mattina nella sala di accoglienza dell’hotel. Racconta il presente, le
impressioni sulla musica che cambia e sulla sua storia, prima di cimentarsi sul
palco del Brooklyn Bowl in un applauditissimo concerto. Booker che parla e
Booker che suona, sono, in fondo, la stessa persona: delicata e attenta a non
svisare mai troppo, dal senso delle frasi e dalla timbrica del gospel e del soul.
Prima, allora, il Booker che parla. “Oggi? La musica è molto elettrica, i
computer hanno un ruolo fondamentale che ieri non avevano, si registra con
tempi minori e più facilità. In meglio o in peggio però, è sempre in base al
talento dell’artista. Quando iniziavo a suonare, eravamo tutti in una stanza e
registravamo in contemporanea. Ora puoi avere due musicisti in paesi diversi
che suonano nello stesso momento sul medesimo pezzo.” Booker T Jones,
leader e grande profeta del suono Stax, ha guidato per anni la premiata ditta
The MGs.
“Sono cresciuto con blues e gospel, mia madre suonava classica, io ho
studiato classica e lirica in college, all’Università dell’Indiana.” Booker il maestro riconosciuto. “No,
non mi considero tale, mi fa piacere la considerazione, ma il senso del mio
lavoro è esprimere la musica che ho in mente e portarla alla gente”. Booker
e i Beatles, e una leggenda per sempre chiarita. “Avevamo un rapporto intenso, ho molta ammirazione per il loro lavoro,
ma non è vero che intendessero registrare Revolver agli studi della Stax, sono
suggestioni che continuano a esistere, ma non è così.” Booker – potrebbe
essere altrimenti ?– e il sound della Stax. “Molte case discografiche hanno copiato quel suono, ma l’originale
rimane Stax, e sono fiero di averne fatto parte. Tanti musicisti sono stati
influenzati dalle vibrazioni provenienti da Memphis: Elvis, BB King, Al Green,
Otis Redding.”
Il maestro dell’hammond
parla ancora di origini: “I musicisti di
quell’area avevano un background comune, condiviso le medesime esperienze, la
schiavitù, il lavoro nei campi, ascoltato e suonato jazz sulle barche sul
fiume, sviluppato un sound, nei club, nei night. Io ho cominciato a suonare nei
club, quando avevo 11 anni, suonavo il sax al Manhattan club, il sax baritono
per un club per persone di colore, Jimbo club, in downtown Memphis, dove ho
cominciato a imparare il blues.” Booker e Otis. “Quando l’ho conosciuto faceva il facchino, preparava il caffè e le
colazioni, un lavoro duro. Un giorno chiese di cantare un pezzo e Al Jackson lo
invitò sul palco e tutto cambiò non appena cominciò “This arms of mine”,
quella fu anche la prima volta che ascoltai la sua voce. Divenne subito uno di
noi, o meglio noi ci avvicinammo a lui. Quanto iniziò a cantare capii che
sarebbe diventato un re. Eravamo molto amici, era un uomo tranquillo, non
parlava spesso, ma io lo capivo. Parlava molto di musica, il suo primo amore. E’
stata una grandissima perdita, per me, per l’etichetta, ma soprattutto per il
mondo intero.”
Booker & The
MGs: “Il mio più grande amico era Al
Jackson Jr. Otis è morto a 26 anni, Al ne aveva 39, erano grandi, sono morti
troppo giovani. Donald “Duke” Dunn è morto due anni fa. Era in Giappone, non si
è sentito bene, pensavano fosse colpa del jet lag, alla fine dello show è
tornato in camerino ed è morto.” Eccoci al suo rapporto con l’Europa,
Londra. “Mi piace molto suonare in Europa,
ho molti fan qui, da sempre. La mia carriera è iniziata quando sono atterrato a
Londra e ho cominciato a suonare nei grandi club, penso che il 60% del mio successo
sia da attribuire ai fan europei: inglesi soprattutto, ma anche italiani,
tedeschi, francesi. L’ultima volta che ho suonato in Italia è stato a Perugia
ma era molti anni fa. La band non si riunirà, anche se con Steve Crooper ci
vediamo e suoniamo spesso insieme. La perdita di Al e Donald non ci permette
più niente.” Booker e il futuro. “La
musica è cambiata e il nuovo disco sarà con mio figlio. I cambiamenti li sto
affrontando con lui, stiamo pensando a un nuovo album, con molta elettronica e
musica dance in svariate forme, uno dei pezzi si intitola Deep Hous, una
combinazione di soul, funk e elettrica.”
Poi viene subito
sera, e scocca l’ora del concerto. La sala è piena di gente, 400 persone, forse
di più. Con Booker ci sono Darian Gray alla batteria, Melvin Brannon Jr al
basso e il figlio Ted alla chitarra. E’ una band che parte in picchiata e poi
si ferma, rallenta e riparte, in un fuoco d’artificio tra passato e presente.
Booker suona i classici, “Green Onions” in testa e omaggia Prince con “Purple
Rain” e Otis con “Respect”. Poi si ricorda di “Summertime”, imbraccia la
chitarra per “Mannish boy”, ed “Hey Joe”, con un bel saluto a Jimi Hendrix, fa
faville con “Soul Limbo”, “Meltin pot” e “Hang ‘Em High”, fino a presentare
“Born under a bad sign” di Albert King e la deliziosa “Mr. Big stuff” di Jean
Knight, con la bravissima vocalist Denosh Bennett. Il finale è da pelle d’oca:
prima”Everything is everything” di Lauryn Hill e quindi “Time is tight”, ma
quando sembra tutto finito, ecco la musica risorgere con un classico di Otis
splendidamente suonato da Booker, suo antico fratello: “I’ve been loving you
too long”.
Il maestro ci aveva
avvisato alla mattina che il bello dei suoi concerti è che non ve ne è mai uno
uguale all’altro. Ma c’è anche parecchio di più: c’è il talento fantastico di
un uomo che fa parte da vivo della grande leggenda della musica moderna, c’è
uno stile inconfondibile e un hammond di vecchia lega sul quale sta seduto come
un principe. Un principe che suona e si diverte, e lascia alla memoria dei
presenti un ricordo indelebile, nel segno del soul, del blues e del gospel di
Memphis e dintorni.
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