ANATROFOBIA - Canto Fermo
di Mario Eugenio Cominotti
Articolo già uscito su MAT2020 di agosto 2020
“Canto Fermo” è il nuovo album di Anatrofobia, realizzato recentemente dopo tredici anni dal precedente Brevi
momenti di presenza del 2007, grazie alla collaborazione con Wallace Records, ADN
Records, Lizard Records, Neonparalleli e Out Records, oltre che
con il supporto della Amirani Records.
Anatrofobia, band
cult underground dalla carriera trentennale con all'attivo sette album in
studio e due live, può essere adeguatamente presentata con queste parole di
qualche tempo fa di Nazim Comunale, da The New Noise:
“Troppo colti e cerebrali per il jazzcore,
troppo punk per gli ambienti accademici, troppo silenziosi per gli amanti del
free più fisico, troppo intelligenti per chi crede che basti un sassofono per
poter dire che quello è jazz, capaci di muoversi con disinvoltura tra ombre di
contemporanea e ruggini rock, in una terra di mezzo ignota e non ancora
colonizzata dove convivono felicemente un approccio selvaggio eppure
controllato e calibratissimo al suono e alle sue componenti dinamiche e
timbriche, le ansie da hardcore da camera dei grandi Koch Schutz e Studer
(forse il punto di riferimento più stabile per la band) con i profili della
storia del jazz libero rivisti attraverso una lente sempre personale e
coraggiosa.”
La line-up
attuale degli Anatrofobia è formata
dai due membri “storici” della band, il bassista e autore di tutti i brani originali Luca Cartolari (Fretted e Fretless 4-corde a 6 corde-chitarre basso, fiocco,
E-Bow, Effetti, Programmazione Csound) e Andrea Biondello alla batteria, insieme ai due nuovi
membri della band, Cristina Trotto Gatta, autrice di tutti i testi
originali e già con Masche (Voice, Melodica) e il polistrumentista e
anima”punk” Paolo Cantù (Chitarra elettrica, Clarinetto, Effetti,
Loop, Elettronica), già con Makhno.
Ero davvero curioso
di ascoltare questo lavoro, pubblicato almeno per ora “solamente” in vinile,
supporto giustamente ancora ritenuto oggetto di culto per i collezionisti e non
solo, ma disponibile anche in download sulla piattaforma digitale di Bandcamp,
formula che ritengo decisamente valida nella tradizione quanto aggiornata ed
efficace per la diffusione. In questo caso ho però faticato davvero a
completare l'ascolto di tutti i brani di questo ultimo lavoro degli ANATROFOBIA,
ma soltanto perché ho subito iniziato a riascoltare ripetutamente il titolo di
apertura che mi ha immediatamente stregato con suoni bellissimi, ipnoticamente
ricchi di armonici alternati a silenzi, introducendomi e accompagnandomi per
mano in vasti spazi aperti, paesaggi sospesi tra un altrove e il nulla, mentre
la voce sussurrante di Cristina, nella parte iniziale del brano e
nel finale, fino alla totale solitudine prima del vuoto al termine della
traccia, recitava le bellissime parole di una lirica di Mark Strand, poeta
canadese che ci ha lasciato nel 2014, “Keeping Things Whole” (Tenendo le
Cose Insieme), così traducibili:
“In un campo io sono l'assenza di campo.
Questo è sempre in ogni caso. Ovunque io sia, io sono ciò che è assente …
Quando cammino divido l'aria e sempre l'aria si muove per riempire gli spazi
dove era stato il mio corpo. Abbiamo tutti una ragione per muoverci … Io mi
muovo per tenere le cose insieme.”
Ricordo di avere
letto di una band (non mi si chieda però quale) che per catturare l'attenzione
di un pubblico distratto e alquanto rumoroso, anziché alzare i volumi
ingaggiando una ennesima guerra dei decibel tra band e pubblico, più
quest'ultimo rumoreggiava più abbassava i volumi dal palco, con un'efficacia
talmente sorprendente da riuscire alla fine a trasformare il più chiassoso dei
pub in una platea attenta e partecipe … La scelta di tenere bassissimo nel
missaggio finale del primo brano il livello della voce di Cristina, già
volutamente esile e quasi un sussurro ai limiti dell'udibile, alla fine, oltre
che essere funzionalmente espressiva rispetto al contesto artistico, ottiene
anche il risultato di invitare, se non costringere, a un attento e silenzioso
ascolto, anche ripetuto, alzando progressivamente i volumi e poi riascoltando
nuovamente il brano ricorrendo alle cuffie, per distinguere meglio le singole
parole, ma intanto assaporando tutta la bellezza di ogni particolare, la
qualità dei suoni, della musica e della voce di Cristina, per poi rileggere il
testo cercandone una traduzione adeguata e cercare in rete per saperne di più
di Mark, il poeta che ci ha lasciato questa lirica stupenda per la quale la
musica di Anatrofobia è perfetta compagna di un viaggio che sta diventando
anche nostro.
Le sensazioni che
provo all'ascolto di Keeping Things Whole mi riconducono anche indietro,
in un altro luogo sonoro senza tempo e nel quale amo tornare spesso, quello di “Rain
Tree Crow” di David Sylvian, forse anche solamente per la bellezza e
la grande apertura degli spazi sonori disegnati dalla chitarra, dal basso,
dagli armonici e dai suoni elettronici finemente calibrati di Paolo e Luca,
mentre la batteria di Andrea scompone e
ricompone ritmiche sottintese incrementando la grande quanto delicata ricchezza
dei timbri e dei colori. Di efficace bellezza e semplicità il tema, poche note
intensamente poetiche e descrittive enunciate dal basso che traccia con
sicurezza la strada.
Il secondo brano,
Canto fermo, dà titolo all'album ed è interamente strumentale, nella
tradizione consolidata di questa Band, con Cristina che apre alla melodica (…
cantus firmus? Melodia di base per lo sviluppo della polifonia successiva? …
nel brano come nell'intero album?) per proseguire il percorso avviato con un
cambio di prospettiva timbrico, arricchito dall'ingresso del clarinetto di
Paolo sugli intrecci sonori e le tessiture free sempre più aperte e visionarie,
l'uso dell'archetto con il basso mi riporta inoltre inevitabilmente a sonorità
a me particolarmente care, come quelle dell'inizio strumentale di “Formentera
Lady” dei King Crimson; ma la tavolozza dei colori diventa improvvisamente
scurissima con il brano successivo, ancora strumentale, Nero di Seppia,
sempre composto da Luca Cartolari ma in questo caso insieme al sassofonista
Alessandro Cartolari. Il brano successivo, The Speeding Train, Il treno in corsa, è costruito (o forse più
propriamente è decostruito) su un testo della Band statunitense Alternative
Rock anni '90 dei The Van Pelt; la voce - ora in evidenza ma quasi
aggredita dai suoni che la accompagnano - di Cristina, ancora liricamente recitante,
si incrocia e confronta con un paesaggio sonoro sempre più inquietante e in
continuo mutamento, fino all'annientamento tanto perseguito della forma
canzone, che nella seconda parte del brano diventa drammaticamente totale.
Molto bello il netto contrasto con le aperture del brano seguente, Mille,
che ci ristora riportandoci all'aperto incoraggiandoci ad assecondare il
proseguimento del viaggio.
Improvviso e
sfolgorante cambio di scena con Rubik, scintillante liturgia di suoni,
ritmi e voci sulla prima delle surreali e affascinanti liriche a firma di
Cristina, un caleidoscopio di immagini e sonorità che ruotano vorticosamente
nel cubo di Rubik; un brano bellissimo, da scoprire e riscoprire, e il
riascolto immediato – anche in cuffia - è per me un obbligo … “Bambole russe
- orchestrare un'uscita … Non c'è niente da spiegare per le Regole del cubo di
Rubik”.
Pura magia con Details,
Dettagli, qui la voce di Cristina
pur continuando a recitare si fa canto, come in una inevitabile
metamorfosi, già sulla figura ritmica iniziale della chitarra, assecondando i
suoni meravigliosi che la circondano ... e l'armonia ora prevale sul conflitto
… Dettagli … “L'aria è il fuoco il fuoco è l'acqua l'acqua è terra e la
terra è nulla e le parole non sono niente e il silenzio non è niente e il tempo
è un replay e le ombre sono djs” … Dettagli …
It Should've
Happened a Long Time Ago, Avrebbe dovuto succedere molto tempo fa, breve quanto
fulminante lirica di Cristina – intanto la metamorfosi è compiuta e il canto è
ormai evidente – sulla musica del grande batterista jazz Paul Motian, al quale
il drumming di Andrea rende un bellissimo omaggio; a questo punto è doverosa da
parte mia una annotazione sui suoni e sulla qualità della registrazione e del
missaggio - Gran bel lavoro al Trai
Studio di Inzago ! - tecnicamente davvero impeccabili e tali da rendere
pienamente l'infinita varietà timbrica di ogni strumento, sempre ben definito e
ripartito tra i diversi piani sonori, a partire dalla batteria, una vera
piccola orchestra di strumenti percussivi, che anche in questo brano scorre
inarrestabile trascinando in progressione tutto lo sviluppo del brano, che
culmina nel finale con l'emergere dirompente del clarinetto di Paolo e del
basso fretless di Luca.
Alice Wonders è ancora una volta un brano articolato nello
sviluppo di due parti ben distinte – il campionamento alla base del loop
ritmico che apre la seconda parte mi ha perfino ricordato immediatamente la
mitica Get Back suonata su un tetto londinese … possibile? - costruite
sul testo di Cristina, sempre più straniante e visionario … “Ma se smettessi
di sognarti dove saresti ora? Ho detto di pensare al senso, il suono seguirà.
Posso dare saggi consigli. Sai, il problema è che mi distraggo e so dove sono
quando non mi sogni.”
Grande atmosfera
e suoni “spaziali” per la prima delle due “cover” finali, il
tradizionale Valzer de la Stacada di Breil, qui dilatato tra sfuocature
e specchi deformanti, echi di una festa popolare di secoli prima tra le rovine
di una città ormai perduta, tutto quanto osservato, forse ammirato, da un punto
di vista completamente alieno, indispensabile anche per l'assimilazione
indolore della “cover” finale, chiaramente riconoscibile quanto decostruita,
plasmata e deformata, ma per condurci alla fine del viaggio con una grande e
personalissima - quanto pienamente coerente con la strada fatta per arrivare
fino a qui – interpretazione di Cristina, che trova il modo di salutarci
dolcemente alla fine di questo viaggio fantastico insieme agli Anatrofobia, con
una delle più belle e consolatorie ninnenanne della storia della musica: Golden
Slumbers dei Fab4 : “Once there was a way, To get back homeward. Once there was a
way, To get back home, Sleep, pretty darling Do not cry... And I will sing a lullaby”
Canto Fermo, questo ultimo gran lavoro degli Anatrofobia, è veramente un album a più livelli di lettura, ricco di emozioni anche inattese, tecnicamente perfetto e veramente bello da ascoltare e riascoltare senza fretta, assaporando e memorizzando ogni nota e suono, come si faceva un tempo con i vecchi e preziosi vinili, certi di scoprire ogni volta nuovi dettagli e sensazioni, grande musica di contaminazione tra i generi più creativi e oltre gli schemi, ma anche viaggio iniziatico e visionario attraverso ampi paesaggi ai confini di molti territori. Continuerò a seguire gli Anatrofobia in rete (consigliati il loro sito, la pagina su facebook e i video sul loro canale youtube) contando di riuscire presto a partecipare a un loro live per un'esperienza ancora più immersiva e appagante. Buon ascolto.
https://www.facebook.com/anatrofobia/
https://www.youtube.com/watch?v=6-zmbQseWXc