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domenica 29 novembre 2020

ANATROFOBIA - "Canto Fermo", di Mario Eugenio Cominotti


                                                 ANATROFOBIA - Canto Fermo

di Mario Eugenio Cominotti

Articolo già uscito su MAT2020 di agosto 2020

Canto Fermoè il nuovo album di Anatrofobia, realizzato recentemente dopo tredici anni dal precedente Brevi momenti di presenza del 2007, grazie alla collaborazione con Wallace Records, ADN  Records, Lizard Records, Neonparalleli e Out Records, oltre che con il supporto della Amirani Records.

Anatrofobia, band cult underground dalla carriera trentennale con all'attivo sette album in studio e due live, può essere adeguatamente presentata con queste parole di qualche tempo fa di Nazim Comunale, da The New Noise:

“Troppo colti e cerebrali per il jazzcore, troppo punk per gli ambienti accademici, troppo silenziosi per gli amanti del free più fisico, troppo intelligenti per chi crede che basti un sassofono per poter dire che quello è jazz, capaci di muoversi con disinvoltura tra ombre di contemporanea e ruggini rock, in una terra di mezzo ignota e non ancora colonizzata dove convivono felicemente un approccio selvaggio eppure controllato e calibratissimo al suono e alle sue componenti dinamiche e timbriche, le ansie da hardcore da camera dei grandi Koch Schutz e Studer (forse il punto di riferimento più stabile per la band) con i profili della storia del jazz libero rivisti attraverso una lente sempre personale e coraggiosa.”

La line-up attuale degli Anatrofobia è formata dai due membri “storici” della band, il bassista e autore di tutti i brani originali Luca Cartolari (Fretted e Fretless 4-corde a 6 corde-chitarre basso, fiocco, E-Bow, Effetti, Programmazione Csound) e Andrea Biondello alla batteria, insieme ai due nuovi membri della band, Cristina Trotto Gatta, autrice di tutti i testi originali e già con Masche (Voice, Melodica) e il polistrumentista e anima”punk” Paolo Cantù (Chitarra elettrica, Clarinetto, Effetti, Loop, Elettronica), già con Makhno.

Ero davvero curioso di ascoltare questo lavoro, pubblicato almeno per ora “solamente” in vinile, supporto giustamente ancora ritenuto oggetto di culto per i collezionisti e non solo, ma disponibile anche in download sulla piattaforma digitale di Bandcamp, formula che ritengo decisamente valida nella tradizione quanto aggiornata ed efficace per la diffusione. In questo caso ho però faticato davvero a completare l'ascolto di tutti i brani di questo ultimo lavoro degli ANATROFOBIA, ma soltanto perché ho subito iniziato a riascoltare ripetutamente il titolo di apertura che mi ha immediatamente stregato con suoni bellissimi, ipnoticamente ricchi di armonici alternati a silenzi, introducendomi e accompagnandomi per mano in vasti spazi aperti, paesaggi sospesi tra un altrove e il nulla, mentre la voce  sussurrante di  Cristina, nella parte iniziale del brano e nel finale, fino alla totale solitudine prima del vuoto al termine della traccia, recitava le bellissime parole di una lirica di Mark Strand, poeta canadese che ci ha lasciato nel 2014, “Keeping Things Whole” (Tenendo le Cose Insieme), così traducibili:

In un campo io sono l'assenza di campo. Questo è sempre in ogni caso. Ovunque io sia, io sono ciò che è assente … Quando cammino divido l'aria e sempre l'aria si muove per riempire gli spazi dove era stato il mio corpo. Abbiamo tutti una ragione per muoverci … Io mi muovo per tenere le cose insieme.

Ricordo di avere letto di una band (non mi si chieda però quale) che per catturare l'attenzione di un pubblico distratto e alquanto rumoroso, anziché alzare i volumi ingaggiando una ennesima guerra dei decibel tra band e pubblico, più quest'ultimo rumoreggiava più abbassava i volumi dal palco, con un'efficacia talmente sorprendente da riuscire alla fine a trasformare il più chiassoso dei pub in una platea attenta e partecipe … La scelta di tenere bassissimo nel missaggio finale del primo brano il livello della voce di Cristina, già volutamente esile e quasi un sussurro ai limiti dell'udibile, alla fine, oltre che essere funzionalmente espressiva rispetto al contesto artistico, ottiene anche il risultato di invitare, se non costringere, a un attento e silenzioso ascolto, anche ripetuto, alzando progressivamente i volumi e poi riascoltando nuovamente il brano ricorrendo alle cuffie, per distinguere meglio le singole parole, ma intanto assaporando tutta la bellezza di ogni particolare, la qualità dei suoni, della musica e della voce di Cristina, per poi rileggere il testo cercandone una traduzione adeguata e cercare in rete per saperne di più di Mark, il poeta che ci ha lasciato questa lirica stupenda per la quale la musica di Anatrofobia è perfetta compagna di un viaggio che sta diventando anche nostro.

Le sensazioni che provo all'ascolto di Keeping Things Whole mi riconducono anche indietro, in un altro luogo sonoro senza tempo e nel quale amo tornare spesso, quello di “Rain Tree Crow” di David Sylvian, forse anche solamente per la bellezza e la grande apertura degli spazi sonori disegnati dalla chitarra, dal basso, dagli armonici e dai suoni elettronici finemente calibrati di Paolo e Luca, mentre la batteria di Andrea  scompone e ricompone ritmiche sottintese incrementando la grande quanto delicata ricchezza dei timbri e dei colori. Di efficace bellezza e semplicità il tema, poche note intensamente poetiche e descrittive enunciate dal basso che traccia con sicurezza la strada.

Il secondo brano, Canto fermo, dà titolo all'album ed è interamente strumentale, nella tradizione consolidata di questa Band, con Cristina che apre alla melodica (… cantus firmus? Melodia di base per lo sviluppo della polifonia successiva? … nel brano come nell'intero album?) per proseguire il percorso avviato con un cambio di prospettiva timbrico, arricchito dall'ingresso del clarinetto di Paolo sugli intrecci sonori e le tessiture free sempre più aperte e visionarie, l'uso dell'archetto con il basso mi riporta inoltre inevitabilmente a sonorità a me particolarmente care, come quelle dell'inizio strumentale di “Formentera Lady” dei King Crimson; ma la tavolozza dei colori diventa improvvisamente scurissima con il brano successivo, ancora strumentale, Nero di Seppia, sempre composto da Luca Cartolari ma in questo caso insieme al sassofonista Alessandro Cartolari. Il brano successivo, The Speeding Train,  Il treno in corsa, è costruito (o forse più propriamente è decostruito) su un testo della Band statunitense Alternative Rock anni '90 dei The Van Pelt; la voce - ora in evidenza ma quasi aggredita dai suoni che la accompagnano - di Cristina, ancora liricamente recitante, si incrocia e confronta con un paesaggio sonoro sempre più inquietante e in continuo mutamento, fino all'annientamento tanto perseguito della forma canzone, che nella seconda parte del brano diventa drammaticamente totale. Molto bello il netto contrasto con le aperture del brano seguente, Mille, che ci ristora riportandoci all'aperto incoraggiandoci ad assecondare il proseguimento del viaggio.

Improvviso e sfolgorante cambio di scena con Rubik, scintillante liturgia di suoni, ritmi e voci sulla prima delle surreali e affascinanti liriche a firma di Cristina, un caleidoscopio di immagini e sonorità che ruotano vorticosamente nel cubo di Rubik; un brano bellissimo, da scoprire e riscoprire, e il riascolto immediato – anche in cuffia - è per me un obbligo … “Bambole russe - orchestrare un'uscita … Non c'è niente da spiegare per le Regole del cubo di Rubik”.

Pura magia con Details, Dettagli, qui la voce di Cristina  pur continuando a recitare si fa canto, come in una inevitabile metamorfosi, già sulla figura ritmica iniziale della chitarra, assecondando i suoni meravigliosi che la circondano ... e l'armonia ora prevale sul conflitto … Dettagli … “L'aria è il fuoco il fuoco è l'acqua l'acqua è terra e la terra è nulla e le parole non sono niente e il silenzio non è niente e il tempo è un replay e le ombre sono djs”Dettagli

It Should've Happened a Long Time Ago, Avrebbe dovuto succedere molto tempo fa, breve quanto fulminante lirica di Cristina – intanto la metamorfosi è compiuta e il canto è ormai evidente – sulla musica del grande batterista jazz Paul Motian, al quale il drumming di Andrea rende un bellissimo omaggio; a questo punto è doverosa da parte mia una annotazione sui suoni e sulla qualità della registrazione e del missaggio -  Gran bel lavoro al Trai Studio di Inzago ! - tecnicamente davvero impeccabili e tali da rendere pienamente l'infinita varietà timbrica di ogni strumento, sempre ben definito e ripartito tra i diversi piani sonori, a partire dalla batteria, una vera piccola orchestra di strumenti percussivi, che anche in questo brano scorre inarrestabile trascinando in progressione tutto lo sviluppo del brano, che culmina nel finale con l'emergere dirompente del clarinetto di Paolo e del basso fretless di Luca.

Alice Wonders è ancora una volta un brano articolato nello sviluppo di due parti ben distinte – il campionamento alla base del loop ritmico che apre la seconda parte mi ha perfino ricordato immediatamente la mitica Get Back suonata su un tetto londinese … possibile? - costruite sul testo di Cristina, sempre più straniante e visionario … “Ma se smettessi di sognarti dove saresti ora? Ho detto di pensare al senso, il suono seguirà. Posso dare saggi consigli. Sai, il problema è che mi distraggo e so dove sono quando non mi sogni.”

Grande atmosfera e suoni “spaziali” per la prima delle due “cover” finali, il tradizionale Valzer de la Stacada di Breil, qui dilatato tra sfuocature e specchi deformanti, echi di una festa popolare di secoli prima tra le rovine di una città ormai perduta, tutto quanto osservato, forse ammirato, da un punto di vista completamente alieno, indispensabile anche per l'assimilazione indolore della “cover” finale, chiaramente riconoscibile quanto decostruita, plasmata e deformata, ma per condurci alla fine del viaggio con una grande e personalissima - quanto pienamente coerente con la strada fatta per arrivare fino a qui – interpretazione di Cristina, che trova il modo di salutarci dolcemente alla fine di questo viaggio fantastico insieme agli Anatrofobia, con una delle più belle e consolatorie ninnenanne della storia della musica: Golden Slumbers dei Fab4 : “Once there was a way, To get back homeward. Once there was a way, To get back home, Sleep, pretty darling Do not cry... And I will sing a lullaby”

Canto Fermo, questo ultimo gran lavoro degli Anatrofobia, è veramente un album a più livelli di lettura, ricco di emozioni anche inattese, tecnicamente perfetto e veramente bello da ascoltare e riascoltare senza fretta, assaporando e memorizzando ogni nota e suono, come si faceva un tempo con i vecchi e preziosi vinili, certi di scoprire ogni volta nuovi dettagli e sensazioni, grande musica di contaminazione tra i generi più creativi e oltre gli schemi, ma anche viaggio iniziatico e visionario attraverso ampi paesaggi ai confini di molti territori. Continuerò a seguire gli Anatrofobia in rete (consigliati il loro sito, la pagina su facebook e i video sul loro canale youtube) contando di riuscire presto a partecipare a un loro live per un'esperienza ancora più immersiva e appagante. Buon ascolto.

http://www.anatrofobia.it/

https://www.facebook.com/anatrofobia/

https://www.youtube.com/watch?v=6-zmbQseWXc




venerdì 27 novembre 2020

Compie gli anni Daryl Stuermer, "membro permanentemente part-time" dei Genesis

Compie gli anni oggi, 27 novembre, Daryl Stuermer, chitarrista bassista, noto come “musicista itinerante”, nei Genesis e con Phil Collins solo.

Ha un’importante discografia da solista, oltre agli artisti sopracitati ha collaborato anche con Jean-Luc Ponty, George Duke…

È pronto per l’annunciata prossima reunion dei Genesis!

Happy Birthday!

Wazza


October 1982 after the Six of the Best reunion concert: Steve Hackett, Peter Gabriel, Mgr. Tony Smith, Mike Rutherford, Phil Collins, Tony Banks, and Daryl Stuermer with the kids Tom Rutherford, Chris Smith, Kate Rutherford, and Ben Banks

From left to right - Luis Conti (percussion), Brad Cole (keyboards), Nathan East (bass), Phil Collins (the man himself), Daryl Stuermer (guitar), Gerald Albright (sax)


giovedì 26 novembre 2020

Adios Diego... intervista di Gianni Minà

Adios… a seguire un articolo di Gianni Minà, uno dei pochi che si può permettere di raccontare Diego Armando Maradona

Wazza

A DIEGO 

di Gianni Minà

Con Maradona il mio rapporto è stato sempre molto franco.

Io rispettavo il campione, il genio del pallone, ma anche l’uomo, sul quale sapevo di non avere alcun diritto, solo perché lui era un personaggio pubblico e io un giornalista.

Per questo credo lui abbia sempre rispettato anche i miei diritti e la mia esigenza, a volte, di proporgli domande scabrose.

So che la comunicazione moderna spesso crede di poter disporre di un campione, di un artista soltanto perché la sua fama lo obbligherebbe a dire sempre di sì alle presunte esigenze giornalistiche e commerciali dell’industria dei media.

Maradona, che ha spesso rifiutato questa logica ambigua, è stato tante volte criminalizzato.

Una sorte che non è toccata invece, per esempio, a Platini, che come Diego ha detto sempre no a questa arroganza del giornalismo moderno, ma ha avuto l’accortezza di non farlo brutalmente, muro contro muro, bensì annunciando, magari con un sorriso sarcastico, al cronista prepotente o pettegolo “dopo quello che hai scritto oggi, sei squalificato per sei mesi. Torna da me al compimento di questo tempo.”

Era sicuro, l’ironico francese, che non solo il suo interlocutore assalito dall’imbarazzo non avrebbe replicato, ma che la Juventus lo avrebbe protetto da qualunque successiva polemica.

A Maradona questa tutela a Napoli non è stata concessa, anzi, per tentare di non pagargli gli ultimi due anni di contratto, malgrado le tante vittorie che aveva regalato in pochi anni agli azzurri, nel 1991 gli fu preparata una bella trappola nelle operazioni antidoping successive a una partita con il Bari, in modo che fosse costretto ad andarsene dall’ Italia rapidamente.

Eppure, nessuno, né il presidente Ferlaino, né i suoi compagni (che per questo ancora adesso lo adorano) né i giornalisti, né il pubblico di Napoli, hanno mai avuto motivo di dubitare della lealtà di Diego.

Io, in questo breve ricordo, a conferma di questa affermazione, voglio segnalare un semplice episodio riguardante il nostro rapporto di reciproco rispetto.

Per i Mondiali del ’90, con l’aiuto del direttore di Rai Uno Carlo Fuscagni, mi ero ritagliato uno spazio la notte, dopo l’ultimo telegiornale, dove proponevo ritratti o testimonianze dell’evento in corso, al di fuori delle solite banalità tecniche o tattiche. Questa piccola trasmissione intitolata “Zona Cesarini”, aveva suscitato però il fastidio dei giovani cronisti d’assalto (diciamo così...) che occupavano, in quella stagione, senza smalto, tutto lo spazio possibile ad ogni ora del giorno e della notte. La circostanza non era sfuggita a Maradona ed era stata sufficiente per avere tutta la sua simpatia e collaborazione.

Così, nel pomeriggio prima della semifinale Argentina-Italia, allo stadio di Fuorigrotta di Napoli, davanti a un pubblico diviso fra l’amore per la nostra nazionale e la passione per lui, Diego, mi promise per telefono: “Comunque vada verrò al tuo microfono a darti il mio commento. E tengo a precisare, solo al tuo microfono.”

La partita andò come tutti sanno. Gol di Schillaci e pareggio di Caniggia per un’uscita un po’ avventata di Zenga.

Poi supplementari e calci di rigore con l’ultimo, quello fondamentale, messo a segno proprio da quello che i napoletani chiamavano ormai “Isso”, cioè Lui, il Dio del pallone.

L’atmosfera rifletteva un grande disagio. Maradona, per la seconda volta in quattro anni, aveva riportato un’Argentina peggiore di quella del Messico, alla finale di un Mondiale che la Germania, qualche giorno dopo, gli avrebbe sottratto per un rigore regalato dall’arbitro messicano Codesal, genero del vicepresidente della Fifa Guillermo Cañedo, sodale di Havelange, il presidente brasiliano del massimo ente calcistico, che non avrebbe sopportato due vittorie di seguito dell’Argentina, durante l’ultima parte della sua gestione.

C’erano tutte le possibilità, quindi, che Maradona disertasse l’appuntamento. E invece non avevo fatto a tempo a scendere negli spogliatoi, che dall’enorme porta che divideva gli stanzoni delle docce dalle salette delle tv, comparve, in tenuta da gioco, sporco di fango e erba, Diego, che chiedeva di me, dribblando perfino i colleghi argentini. C’era, è vero, nel suo sguardo, un’espressione un po’ ironica di sfida e di rivalsa verso un ambiente che in quel Mondiale, non gli aveva perdonato nulla, ma c’era anche il suo culto per la lealtà che, per esempio, lo aveva fatto espellere dal campo solo un paio di volte in quasi vent’anni di calcio.

Cominciammo l’intervista, la più ambita al mondo in quel momento, da qualunque network.

Era un programma registrato che doveva andare in onda mezz’ora dopo, perché più di trent’anni di Rai non mi avevano fatto “meritare” l’onore della diretta, concessa invece al cicaleggio più inutile.

Ma a metà del lavoro eravamo stati interrotti brutalmente non tanto da Galeazzi (al quale per l’incombente tg Diego concesse un paio di battute) ma da alcuni di quei cronisti d’assalto che già giudicavano la Rai cosa propria e che pur avendo una postazione vicina ai pullman delle squadre, volevano accaparrarsi anche quella dove io stavo intervistando Maradona. El Pibe de Oro fu tranciante: “Sono qui per parlare con Minà. Sono d’accordo con lui da ieri. Se avete bisogno di me prendete contatto con l’ufficio stampa della Nazionale argentina. Se ci sarà tempo vi accorderemo qualche minuto.” Aspettò in piedi, vicino a me, che terminasse l’intervista con un impavido dirigente del calcio italiano, disposto a parlare in quella serata di desolazione, poi si risedette, battemmo un nuovo ciak e terminammo il nostro dialogo interrotto. Quella testimonianza speciale, di circa venti minuti, fu richiesta anche dai colleghi argentini, e andò in onda (riannodate le due parti) dopo il telegiornale della notte.

Fu un’intervista unica e giornalisticamente irripetibile, solo per l’abitudine di Diego Maradona a mantenere le parole date.

Lo stesso aveva fatto per i Mondiali americani del ’94, quando aveva accettato per due volte di ritornare all’attività agonistica in nazionale prima per assicurare la partecipazione alla querida Argentina nel match di spareggio contro l’Australia e poi giocando tre partite all’inizio dei Mondiali stessi, prima che lo fermassero. Eppure, val la pena ricordarlo, nel momento in cui, con un'accusa ridicola era stato sospeso per doping dopo le prime due partite.

La Federazione del suo amato paese non aveva mandato nemmeno un avvocato a respingere legalmente l’imputazione che non stava in piedi: “Hanno preferito trafiggere con un coltello il cuore di un bambino” aveva commentato Fernando Signorini, il suo allenatore e consigliere, quando la mattina dopo ci eravamo incontrati.

L’intervista da un motel dove aveva soggiornato con i parenti l’avevo ottenuta io. I giapponesi l’avevano mandata in diretta e i francesi in differita, un po’ di ore dopo, non credendola possibile.

Così, insomma, questo modo di comportarsi da grande e da piccino lo ha portato a superare ogni avversità e pericoli - anche quelli che sembravano impossibili - della sua esistenza.

Dalla polvere di Villa Fiorito, nella provincia di Buenos Aires, dove è cominciata la sua avventura di più grande calciatore mai nato, alla militanza politica nei partiti progressisti latinoamericani per i quali ha dato molte volte la propria faccia.

Nessun calciatore è mai arrivato a tanto.

Diego, per una ironia del destino, se n’è andato da questo mondo lo stesso giorno di un altro gigante, Fidel Castro.

Alla fine, li rimpiangeremo, come succede a chi ha lasciato una traccia indelebile nel gioco del calcio e della vita.

E ora silenzio.

Il suo prezzo al mondo del pallone lo ha pagato da tempo.

 

martedì 24 novembre 2020

Stefano Orlando Puracchio: " “Un maestro particolare (Io e il signor Oz #2)", di Elisa Enrile

UN MAESTRO PARTICOLARE (Io e il signor Oz #2)

Stefano Orlando Puracchio

Demian Edizioni, 2020

Di Elisa Enrile

Stefano Orlando Puracchio ci aveva abituato ai suoi saggi musicali incentrati su di un genere particolare, quella musica progressiva che lo ha formato, e i cui approfondimenti ama condividere.

Ma il piacere di scrivere può prendere differenti direzioni e Puracchio prova la via della narrativa - probabilmente una voglia latente - e dopo un iniziale episodio prodotto lo scorso anno, ecco una nuova puntata, evoluzione della prima.

Le magiche avventure del regno di Oz e del suo Mago fanno parte dell’immaginario collettivo di tutti, grandi e piccini. Questa volta però Stefano Orlando Puracchio, ci fa avvicinare a una storia tanto conosciuta con una prospettiva diversa.

Ne “Un maestro particolare”, seguito di “Io e il signor Oz”, la tradizione si mescola infatti a un nuovo tipo di narrativa, in un prodotto ascrivibile tanto al genere fantasy quanto a quello western.

Nelle centosessantadue pagine si snodano le vicissitudini dei già incontrati Joe, Jana e Baxter, ancora una volta alle prese con il tanto amato quanto odiato Oz, che ancora una volta sembra avere in serbo grandi cose per i protagonisti, pur senza aver chiesto il loro permesso.

Insieme a un aiutante speciale, il circense-santone Szenneyes, i tre capiranno che il loro legame con il mondo dell’anziano mago è molto più forte di quello che pensano e che nonostante il regno di Oz sembri ormai un ricordo lontano, è difficile se non impossibile spezzare certi legami.

Tra dialoghi freschi e familiari e avventure in bilico tra due mondi, le pagine di questo libro offrono un piacevole diversivo dalla realtà quotidiana e materiale nuovo per continuare a fantasticare con rinnovata energia su una delle favole più amate di tutti i tempi.

Qualche nota sull’autore…

Classe 1980, giornalista e scrittore, Stefano Orlando Puracchio divide il suo tempo tra l’Abruzzo e l’Ungheria, dove lavora come freelance. Ha all'attivo quattro apprezzati saggi sul Rock Progressivo a partire dal 2014, l'anno scorso ha debuttato nella narrativa con Demian Edizioni. L'amore per la musica resta sempre al centro del suo lavoro, tanto da ipotizzare un parallelismo tra il rock progressivo – al quale ha dedicato tanta attenzione – e la scrittura. 

"Durante la presentazione di Io e il signor Oz, la gentile dama che mi ha intervistato ha avanzato un'ipotesi a cui non avevo pensato: ovvero che i miei racconti fossero in realtà come le tracce di un album, indipendenti ma legate da un filo conduttore, ossia il mood e i protagonisti del libro. Praticamente non avevo scritto una raccolta di racconti bensì un "concept album" di carta. La cosa mi ha sorpreso. Riflettendoci poi a mente fredda, in effetti, è probabile che l'essermi occupato per così tanti anni di Rock Progressivo mi abbia portato a utilizzare la stessa struttura che i musicisti Prog hanno usato (e usano) per i loro dischi. In Io e il signor Oz c'è una "suite" all'inizio (il racconto principale), una "mini suite" e tanti altri racconti a seguire di lunghezza via via sempre più contenuta. Se vogliamo prendere per buona quest'idea, allora, Un maestro particolare potrebbe essere definito non tanto un come un romanzo ma come un'unica grande suite. Fortunatamente (per i lettori) più simile a Thick as a brick dei Jethro Tull che a Tales of topographic oceans degli Yes".

Saggio, racconto, ora romanzo. Quale sarà il prossimo passo di Puracchio?

Dopo Io e il signor Oz e Un maestro particolare - Io e il signor Oz volume 2 l'obiettivo è quello di scrivere Io e il signor Oz volume 3. Con la speranza di pubblicarlo nel 2021. Così la trilogia sarà completa. E potrò valutare se cominciarne una nuova oppure scomodare il maestro Bini per una monografia.”

Il libro è disponibile sui principali siti di vendita online e, su ordinazione, dal vostro libraio di fiducia.

Demian Edizioni:

http://www.edizionidemian.it

Stefano Orlando Puracchio:

http://progressiverock.info

Synpress 44 di Donato Zoppo

www.synpress44.com

 

 


sabato 21 novembre 2020

Il giorno (21) di Francesco Di Giacomo

"Nella vita abbondano i maschi, ma scarseggiano gli uomini".

(Bette Davis) 

21 novembre

Ci sarai sempre. Buon viaggio Capitano

Wazza 

Quaranta pensieri numerati 


Pensiero numero 1. Non sono Mosè, ma sono sulla buona strada. 

2. La morte mi desta curiosità. 

3. La vita è la sospensione fra un respiro e l’altro. 

4. Gli alberi mi piacerebbe vederli in fila sull’autostrada. 

5. Quarant’anni pieni di quaranta ladroni, quaranta per anno. 

6. Paolo. 

7. Franco. 

8. Rudy. 

9. Amedeo. 

10. Mi piacerebbe passare fra una goccia e l’altra, quando piove, ma di profilo non mi viene mai bene. 

11. Le autostrade non vanno mai nel posto dove tu volevi andare. 

12. Padova. 

13. Bologna. 

14. Firenze. 

15. Palermo. 

16. Cercarsi la luce sul palco è come trovare un posto libero in metropolitana. 

17. La paura scatta quando Andrea Satta mi chiama e mi dice «tu sei il migliore amico mio».

 18. Lo stomaco e l’alito pesante ti possono venire anche vedendo un film come «Le cose belle» di Agostino Ferrente, nel senso che quando una cosa mi piace, m’ingozzo.

19. Spesso la musica m’infastidisce.

20 Sopra 16mila hertz mi vengono le bolle.

21. Eleanor rigby.

22. Domani è un altro giorno

23. Like a Rolling Stones.

24. Che gelida manina

25. Il continuo spostare il microfono sul palco è direttamente proporzionale alla mia confusione quotidiana. 

26. Spostare i problemi è una gran fatica, meglio lasciarli lì.

27. Il bollito. 

28. I fegatelli. 

29. La frittata di patate (senza uova).

30. Pasta e fagioli.

31. I preti farebbero meglio a fare dei figli. 

32. Il tramonto è un atto privato.

33. Spesso alle tavole della legge mancano le sedie. 

34. Dio ogni tanto farebbe bene a girarsi di spalle. 

35. La proposta non è vaga: chi vuole il Papa se lo paga.

36. L’amore sta sempre lì, con calma.

37. I bambini? Mi sarebbe piaciuto averne, molto, molto… 

38. «La luna somiglia soltanto alla luna, che facciamo qui fuori è tardi, rientriamo …». (Carmelo Bene). 

39. Suonare col Banco è un privilegio, ma ogni tanto i privilegi vanno dismessi. 

40. Se tu sapessi, Andrea

 

Francesco Di Giacomo

 

venerdì 20 novembre 2020

Il compleanno di Gary Green

Compie gli anni oggi, 20 novembre, Gary Green, dall'inizio alla fine chitarrista dei mitici Gentle Giant. Sempre eccezionale, ma superlativo su “Three Fiends” e “Acquaring in the Taste”, andateveli a risentire.

Dopo lo scioglimento del "gigante" ha collaborato con vari musicisti, tra i quali Eddie Jobson e Billy Sherwood.

Happy Birthday Gary!

Wazza


Gary Green of GENTLE GIANT in the studio during a session for the band's second album "Aquiring the Taste"

Gary Green - Kerry Minnear - Derek Shulman - Phil Shulman - Martin Smith - Ray Shulman



Gary Green of Gentle Giant and Steve Hackett of Genesis



giovedì 19 novembre 2020

Il mondo della musica è cambiato.

Il mondo della musica è cambiato.

È cambiato tanto che dal grande Joe Cocker, con la sua esibizione a Woodstock, siamo passati a Lady Gaga. È cambiato… prima guardavi verso il palco e ora guardi lo smartphone per farti un selfie con dietro la star. Prima era partecipazione ora è solo intrattenimento con te nella foto che sei più importante della rockstar. O meglio, è più importante dire nei social che stai lì... e magari non stai sentendo una mazza!

(Carlo Verdone)

Vojo tornà a vedè i concerti così!!!!!

In occasione del compleanno di Carletto Verdone (tra l’altro grande conoscitore di musica), mi è tornata questa sua frase che ho pubblicato. Ognuno è figlio della propria era, per carità, però e sacrosanto dire che oggi, chi va ad un concerto, diventa lui il protagonista. Si comincia con pubblicare la foto del biglietto, poi la locandina fuori il teatro, selfie con il primo personaggio famoso che incontri, mini filmati del concerto, e se disgraziatamente becchi l’artista e ti fai una foto, allora diventi il re della serata. E il concerto? La musica? Al massimo qualcuno ti scrive “IO c’ero”! E se c’eri allora di qualcosa, racconta agli altri quello che hai visto, sentito, provato”. A meno che non vai al concerto dei King Crimson, dove Fripp ti “sodomizza” se accendi il telefonino, allora tutti diventano controllori e moralisti, se beccano uno, daje giù ad apostrofarlo subito con un “brutta merdaccia” di Fantozziana memoria, ma pronti con il telefono in tasca, aspettando che il concerto finisca, per scatenarsi a fotografare di tutto, e scrivere sui social “IO c’ero”

Io un “cero” lo metterei… alla Madonna, affinché faccia rinsavire la gente. Con il covid ci stanno privando dei concerti proponendoceli in “streaming”, ci faremo l’abitudine come per il playback… o torneremo a vederli con gli occhi?

Wazza



Fripp fotografa e i “selfisti anonimi” muti !!!

Loro c’erano!

Suggerimenti dalla rete…

Mentre svariati festival cercano di arginare il fenomeno dei selfie stick, più per questioni di effettiva sicurezza per il pubblico che per i nervi degli artisti, ancora nessuno sembra riuscire a fermare una delle più grandi piaghe degli ultimi anni, il sovrautilizzo di telefonini da parte degli spettatori, per immortalare in foto, video e clip audio qualche istante della performance dei propri beniamini.

A pronunciarsi duramente contro il trend - aggiungendosi a una lunga lista di artisti fortemente infastiditi dalla cosa - è Sebastian Bach che, intervistato dal SiouxCityJournal, ha dichiarato: "Perché non provate a godervi il momento? Così facendo, vi distraete, distraete gli altri e distraete l'artista. Posate quel fottuto telefonino, cazzo. Tanto lo sapete, non riguarderete mai i video che avete registrato. Non serve a niente."


 

martedì 17 novembre 2020

Brian Glascok, fratello di John

1964-Rear - Malcolm Collins and Mick Taylor. Front - Alan Shacklock, John Glascock and Brian Glascock

Nel giorno della scomparsa di John Glascock - era il  17 novembre del 1979 - voglio ricordare (per chi non lo sapesse) che John ha un fratello batterista, Brian Glascok, di qualche anno più grande.

Hanno suonato insieme in due band: “The Juniors” 1964 (praticamente all’oratorio) - con Mick Taylor alla chitarra -, e con i “The Gods”, solo per un anno, con Taylor e Ken Hensley. Praticamente poi si sono “rincorsi” (usciva uno entrava l’altro) nei Toe Fat e nei Carmen. Brian Glascok è stato anche il batterista del gruppo “The Motels”, suonando anche per Dolly Parton, Iggy Pop, Joan Armatrading…

Ancora si diverte a suonare.

Di tutto un Pop…

Wazza


L-R Brian Glascock, Mick Taylor, Ken Hensley & John Glascock Photo by Michael Putland Getty Images 1965 (The Gods)

Cliff Bennett, John Glascock, Ken Hensley, and Lee Kerslake.


The Motels! left to right: Michael Goodroe (bass), Marty Jourard (sax, keyboards), Cindy Restad (Capitol), Tim McGovern (guitars), Martha Davis (vocals), Brian Glascock (drums), Mark Wheeler (Capitol), Band Mngr

Brian Glascock from Meat Raffle Road (and The Motels) sits in on Paul's drums to play Only The Lonely with Al Grande Band

 



Compie gli anni Alessandro Papotto


Compie gli anni oggi, 17 novembre, Alessandro Papotto, clarinettista, sassofonista, flautista, cantante, compositore… il Mel Collins "de noantri".

Banco del Mutuo Soccorso, Nodo Gordiano, Periferia del Mondo, Coreacore, alcune delle band che hanno "usufruito" della sua bravura.

Impegnato in molti progetti musicali, non ultima la collaborazione in varie colonne sonore di film.

Buon compleanno Pap8!

Wazza




Stazione Birra - 28 aprile 2012 - BMS