Alex Carpani –
Microcosm (2022)
Di Alberto Sgarlato
Sono già diventati più di trenta gli anni di
carriera nei quali Alex Carpani si è
fatto apprezzar,e soprattutto tra gli estimatori del progressive rock, ma ha
anche esplorato tutt’altri territori, dal nu-jazz, passando per la ricerca e
sperimentazione elettronica, fino alle colonne sonore.
Non staremo quindi qui a ripercorrere una storia ultratrentennale iniziata nei migliori collegi svizzeri e proseguita nella sua città d’adozione, Bologna, dove ha dato vita a progetti ricchi di collaborazioni di prestigio.
Oggi, infatti, è il momento di parlare di “Microcosm”, suo nuovo album, in uscita il 29
aprile 2022.
A proposito di collaborazioni di prestigio
(come appena detto), in questo disco Carpani si riserva tutte le parti tastieristiche
e la quasi totalità (attenzione: quasi) delle parti vocali, accerchiandosi di
validissimi strumentisti. Troviamo infatti una band dal suono coeso, compatto,
rodato, formata da Davide Rinaldi alla chitarra, Andrea Torresani
al basso e Bruno Farinelli alla batteria.
Giusto per snocciolare qualche nome: Rinaldi
ha suonato in varie metal bands e tributi, come i Dark Lunacy, gli Anesthesia
(tributo ai Metallica) e gli Iconist; Torresani è stato bassista per Vasco
Rossi, Battiato, Celentano e tantissimi altri; Farinelli è stato batterista per
Morandi, Mingardi, Dalla, Elisa e altri nomi. Questi tre componenti formano la
band “fissa” del disco, per così dire. Poi ci sono gli ospiti: e partiamo
subito con David Jackson, presente in ben sette tracce dell’album. Lo
storico ex sassofonista dei Van Der Graaf Generator ormai si può considerare
quasi “italiano d’adozione” per quanto ama il Bel Paese e per quanto amore
mette nelle sue molteplici collaborazioni con artisti italiani. Sempre in tema
di fiatisti, in due tracce è presente Theo Travis, dagli anni ‘90 a oggi
assurto ai giganti del prog grazie alle sue collaborazioni con Robert Fripp,
Steven Wilson, le ultime filiazioni di Gong e Soft Machine e svariate band
della scena scandinava (come Karmakanic, Tangent e Anekdoten). Proseguiamo con
un altro nome caro agli amanti del progressivo classico: il violinista David
Cross, consegnato alla storia dalla seconda incarnazione dei King Crimson a
metà anni ‘70. Anche il chitarrista genovese Emiliano Fantuzzi
(collaboratore, tra gli altri, di Nek, Biagio Antonacci e autore di colonne
sonore) presta le sue sei corde al progetto di Alex Carpani.
Ma attenzione: avevamo detto all’inizio che
Carpani in questo disco si riservava quasi tutte, ma non tutte, le parti
vocali. E partiamo così nella nostra full immersion da “Kiss and Fly”,
affidata a Jon Davison, il cantante che ormai da diversi anni ha
sostituito il quasi omonimo Jon Anderson negli Yes ma che prima ancora fu a
lungo nei Glass Hammer. Dalle coordinate ci si aspetterebbe un brano
“Yes-style” e invece siamo di fronte a un power-rock energico e chitarristico
che nei momenti più veloci sfiora i confini dell’AOR ma che prontamente spiazza
con inaspettate divagazioni pianistiche e fiatistiche di scuola jazzistica
collocate con gusto e sapienza, senza strafare. Ed ecco che tra esse fa
capolino anche un Mellotron a dare un tocco sinfonico al tutto.
Ecco, appunto, a proposito di simphonic prog:
nel disco non mancano momenti goduriosamente progressivi, come “God bless
Amerika” dove, all’esuberanza delle parti di tastiere, si contrappone un
cantato misurato e un po’ “dark”. Giochiamo di fantasia: se Keith Emerson fosse
ancora vivo e avesse collaborato con l’ex Japan David Sylvian, che cosa ne
sarebbe nato? Forse un brano come questo, perché no?
Tuttavia, nonostante gli “appagamenti
progressivi”, l’album raggiunge le sue vette di massima riuscita proprio quando
il tastierista e compositore italo-svizzero si stacca dagli stilemi ormai
diventati cliché del genere e sposa tutt’altre formule. Quelle più “ferocemente
rock”, come nella già citata “Kiss and fly”, o nella perfetta “Mountain
of salt”, monumento di neopsichedelia ad alto tasso chitarristico, bella
dritta e scandita in 4/4, con un Hammond che “ringhia al punto giusto” e momenti
piano/sax a riportare la quiete (potrebbe essere uscita dalla penna di Julian
Cope!), o “Footprints in the heart”, dove basso e batteria mixati alti e
suonati vigorosamente “squadrati” richiamano alla mente la sezione ritmica Tony
Levin/Jerry Marotta di Peter Gabriel.
Stessa geometricità e “spigolosità”
gabrielliana (e anche un po’ crimsoniana del periodo anni ‘90) che ritroviamo
nella bella “What once was”.
Oppure, viceversa, troviamo gli altri picchi
di sublime ispirazione creativa nelle ballads: che siano affidate a poche note
di pianoforte, come “We can’t go home tonight” o da un arpeggio
chitarristico, come “The Outer World” o la title-track.
Certamente degne di menzione anche “When
the tears fall down”, impreziosita dal violino elettrico di David Cross, e
lo strumentale “Prime numbers”. Quest’ultima parte con una intro
pianistica che è un ulteriore omaggio a Emerson, ma man mano che entra il
flauto, poi il basso mixato alto, poi il sax e infine una lisergica chitarra
figlia di Steve Hillage ci si ritrova in volo in una “cavalcata cosmica” figlia
di Gong, Hawkwind e Ozric Tentacles.
Spiazza e lascia perplessi, invece, la
presenza della cover di “Starless” dei King Crimson come opener del
disco. Da una parte è ammirevole il coraggio di “svecchiare” il pezzo,
privandolo di tutte le sezioni strumentali, riportandolo a una sua essenzialità
di soli quattro minuti ed arrangiandolo in chiave elettronica, con il
chitarrista Emiliano Fantuzzi (unico brano in cui è presente) a eseguire lo storico
tema e Carpani a suonare tutti gli altri strumenti, con loop elettronici di
basso e batteria a rappresentarne l’ossatura ritmica. Ma è legittimo chiedersi:
perché? E questo “perché?” è talmente vasto da andare oltre il progetto di
Carpani e raggiungere tutte quelle band (italiane o straniere) che di volta in
volta cedono alla tentazione di inserire nei loro album le covers di “Firth of
fifth”, di “Comfortably Numb”, di “Epitaph” o altro. Stiamo parlando di brani
che ormai hanno detto e dato tutto ciò che potevano dire o dare al mondo.
Perché non rispolverare, invece, di tanti grandi artisti il brano ingiustamente
dimenticato, trascurato, sottovalutato? O magari coverizzare “perle” sepolte di
band semisconosciute? Continuare a dar lustro a brani già di per sé
sovraesposti ha poco senso.
Chiusa questa parentesi, un’ultima ma importante nota: con questo “Microcosm” si arricchisce il catalogo di Independent Artist Records, etichetta fondata dallo stesso Alex Carpani nel 2020. La distribuzione è affidata a Pick Up Records per l’Italia e Distrokid per gli USA.
Per concludere: se siete degli integralisti
del rock progressivo più epico e romantico, se cercate i ricami del Minimoog, i
crescendo del Mellotron e lo stile percussivo sul piano e sull’Hammond tipici
di Emerson, sappiate che troverete tutto questo ma anche tanto altro e
soprattutto qualcosa di molto diverso. Troverete le atmosfere sofisticate di
David Sylvian e quelle di Peter Gabriel, l’acid rock anni ‘70 degli Hawkwind,
quello anni ‘80 di Julian Cope e quello anni ‘90 degli Ozric, qualche tocco di
new wave, un pizzico di dark e persino, in quella “Starless ristrutturata”,
anche due gocce di trip-hop… Siete pronti per tutto questo?
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