Forse non tutti sanno che nel 1971,
oltre al mega concerto per il Bangladesh organizzato da George Harrison (tenutosi
al Madison Square Garden di New York), il 18 settembre dello stesso anno, nello
stadio Ovale di Cricket a Kenninghton -Londra -, ci fu un altro evento più
“modesto”.
Sessantamila persone parteciparono al
“Goodbay Summer Festival”, concerto
per aiutare le vittime della carestia in Bangladesh, a cui parteciparono The
Who, Mott The Hoople, Lindisfarne, Quintessence, Atomic Rooster, Eugene
Wallace, America, Grease Band, Cochise & (comperes) Ricky Farr & Jeff
Dexter.
Sembra che Paul McCartney abbia
declinato l’invito, forse per non fare uno sgarbo all’amico George.
Il 18 settembre 1970 moriva Jimi
Hendrix, l’uomo che rivoluzionò il modo di suonare la chitarra. Un’icona
del nostro secolo (sotto riportato un aneddoto della sua data romana)
Per non dimenticare…
Wazza
Roma, 25 maggio 1968.
Jimi Hendrix ha appena jammato al
Titan, dopo aver cantato e fatto impallidire tutti al Brancaccio, in un
concerto aperto dal balletto di Franco Estill, con un giovanissimo Renato Zero.
Hendrix entra al Piper, va a sedersi
vicino a Patty Pravo e Alberto Marozzi. Dopo un po’, chiede di andare a fare un
giro per Roma.
I tre procedono verso la Fiat 500
bianca di Patty. Hendrix si mette dietro. Si accende un cannone così grande che
la macchina si riempie di fumo. Girano per Roma, senza una meta. Ad un certo
punto, polizia e posto di blocco. Stanno cercando Renato Vallanzasca. In alto
la paletta. Chiaro: una 500 bianca avvolta da una gigantesca nube di fumo...
Patty Pravo, la ragazza del Piper,
tira giù il finestrino, butta fuori la testa con il suo cappello di piume viola
e, con aria serafica e innocente, chiede: “Ragazzi, è successo qualcosa?”.
I poliziotti, per fortuna, la
riconoscono. È pur sempre Patty Pravo, la ragazza del Piper. Scambiano due
parole, poi li fanno passare, senza controllare.
In tutto quel tempo, Hendrix non
aveva mai smesso di fumare erba italiana. Seduto sul sedile posteriore di una
Fiat 500, con le sue lunghissime gambe che a momenti uscivano dal finestrino.
Settembre del 1969 i CREEDENCE
CLEARWATER REVIVAL raggiungono la vetta della classifica UK con il singolo
"Bad Moon Rising"
Nel settembre del 1969 i Creedence Clearwater Revival, dopo aver
partecipato all’Ed Sullivan Show e dopo aver scalato le classifiche con “Proud
Mary”, arrivano alla testa della classifica in UK con il singolo “Bad Moon Rising” confermando il loro momento
d’oro.
Di tutto un Pop…
Wazza
Bad Moon Rising
John Fogerty era entusiasta della sua
ES-175, con cui registrò Proud Mary, ma quando stavano per iniziare a
registrare il loro nuovo album, gli rubarono la chitarra. Invece di comprarne
un’altra, Fogerty decise che fosse arrivato il momento di acquistare una Les
Paul. Così andò al negozio più vicino e comprò una Custom nera. Il primo pezzo
che avrebbe registrato con quella chitarra sarebbe stato Bad Moon Rising,
un'altra delle tante canzoni irresistibili della sua carriera, numero uno nelle
classifiche britanniche e numero due negli Stati Uniti. Il suo lavoro sulla
chitarra ricorda le canzoni di Elvis ai tempi della Sun mentre il resto della
band lo segue con un groove perfetto.
THIS
DAY IN 1969 - Proud Mary climbs to number one on the Inter-Collegiate 50 Chart
Non è colpa mia se la tua realtà, mi costringe a fare guerra all'
umanità! (Demetrio Stratos)
Usciva il
15 settembre 1973 "Arbeit Macht Frei", primo album degli Area.
Il nome dell’album
è preso in prestito dalla scritta che campeggiava sui campi di concentramento
nazisti, "Il lavoro rende liberi".
Capolavoro
assoluto, fusione tra rock progressivo, jazz-rock, elettronica, avanguardia e
influenze medio-orientali (!!!).
Un disco
dal grande valore storico e culturale, visto l'anno in cui è uscito, musicisti
eccezionali, sopra tutti la straordinaria voce di Demetrio
Stratos. “Luglio, agosto settembre nero” diverrà
il "manifesto" del gruppo.
Oggi sono
tutti filo Area-Stratos, ma non erano di facile fruizione, difficili a
volte "capirli" dal vivo, e furono anche fischiati come ricorda lo
stesso Demetrio...
"Grazie veramente... grazie
perchè... vi spieghiamo anche perchè GRAZIE... perchè sono due giorni che ci
fischiano... a Roma, a Milano... abbiamo fatto Roma e Milano... e pensiamo che
questa città forse è quella... che musicalmente è più AVANTI... GRAZIE!" (Demetrio Stratos al pubblico di Vicenza dopo l'esecuzione del brano "Le labbra del tempo" (5.1.1973)
… di
tutto un Pop
Wazza
Il
movimentato ‘68 era passato da poco quando si stagliavano all’orizzonte
gli Anni di Piombo e nel pieno di quel periodo di incredibile fervore, non solo
politico, ma anche musicale e artistico, nel 1973 venne alla luce uno dei
più grandi capolavori che la musica italiana abbia prodotto: “Arbeit Macht
Frei”, album d’esordio
degli Area che, nati solo un anno prima con la formazione che li consacrerà, si
apprestavano a diventare uno dei gruppi più significativi del periodo.
In piena correnteprogressive,ma spaziando in più generi d’avanguardia,
gli Area proposero un sound personale ed elaborato, mai banale e ripetitivo,
rifuggendo il concetto di canzone come
siamo abituati a concepirla, essenzialmente mettendo nei propri brani la
musica come elemento centrale. Inoltre li distingueva la forte matrice
politico-sociale presente nei testi, il loro costante tentativo di creare una
rivoluzione che prendesse forma inizialmente in ambito culturale, inseguendo il
sogno di un mondo nuovo tanto presente nelle menti di quei ragazzi che
manifestavano giorno dopo giorno nelle piazze.
Prima
ancora di uscire sugli scaffali, il disco fece scalpore per via della copertina
su cui campeggiava unopera di Edoardo Sivelli rappresentante delle statuine
incatenate con una chiave in mano, immagine di forte allusione politica a cui
si aggiunse, oltre al titolo, la provocazione di collocare nel disco
una pistola di cartone.
Il
progetto si apre con “Luglio, agosto,
settembre (nero)”, brano tra i più celebri del gruppo, che si scaglia
contro la borghesia benpensante e falsa, figlia di un tempo intento a
distruggere le singolarità in favore di una totale omologazione. Un testo in
arabo schiude il brano, costituendo un incipit storico, a cui fa seguito la
voce inconfondibile di Demetrio Stratos che danza su un sound spaziante dalprogalle canzoni popolari gitane. Ad impreziosire il brano
già si aggiunge una sezione ispirata alfree-jazz, con il sax di Busnello a fare da padrone sui
continui cambi ritmici.
Il secondo brano, title track dell’album, lo apre un ispirato Giulio
Capiozzo, batterista del gruppo, con poliritmie ricercate sempre più vicine al
jazz che indicano la strada alla melodia principale, seguita nella seconda
strofa da un riff di basso e chitarra degno di nota. La voce di Stratos si
muove qui da potente a sinuosa raggiungendo livelli eccezionali su di un brano in
continua evoluzione arrestata solo dalla sua conclusione.
“Consapevolezza” è l’emblema
della fusione traprogressivee jazz-rock tanto ricercata dal gruppo, con un sound
molto vicino agli anni ‘60 a fare da sfondo in un testo che incita sempre più
chiaramente alla ribellione contro il sistema. Anche qui è chiara la fusione tra
Occidente ed Oriente, soprattutto nell’arpeggio
crescente su cui si incastrano le improvvisazioni di Fariselli.
Il Lato B
dell’album è affidato al capolavoro “Le labbra del Tempo”,una melodia vocale accompagnata dal sax tiene le fila del brano nella
prima parte, a cui si aggiunge una sezione ritmica che riesce a far convivere l’improvvisazione
di tutti gli strumenti in un continuo crescendo che, senza perdere coesione, ha
il suo apice nell’imperioso “IO HO” di Stratos, per poi viaggiare senza
più freni in una conclusione da brividi.
“250 Chilometri da Smirne”è senza dubbio il pezzo più tradizionale del progetto,
ma non per questo inferiore agli altri brani in esso contenuti. Un pezzo
interamente strumentale in cui, su una rete dal sound free-jazz, gli strumenti
si alternano in singoli soli.
Chiude l’album ”L’abbattimento dello Zeppelin”, brano di
pura sperimentazione in cui Stratos dà degna prova di sè, con un canto a tratti
nervoso e sincopato, su continue fughe strumentali.
Tracce: Lato A
Luglio, agosto, settembre (nero) 4:27
Arbeit Macht Frei 7:56
Consapevolezza 6:06
Lato B
Le labbra del tempo 6:00
240 chilometri da Smirne 5:10
L’abbattimento dello Zeppelin 6:4
Formazione: Demetrio Stratos - voce, organo Hammond, steel drum
Victor Edouard Busnello - sassofono, clarinetto basso
Giulio Capiozzo - batteria, percussioni
Yan Patrick Erard Djivas - basso elettrico, contrabbasso
Patrizio Fariselli - pianoforte, piano elettrico
Paolo Tofani - chitarra elettrica, EMS VCS3, flauto
Compie gli anni oggi, 15 settembre…
il “divino” Gianni Leone.
Happy
birthday con besos Leo!
Wazza
Intervista di Claudio Rogai
Ciao Gianni, stasera avremo il
piacere di veder il Balletto di Bronzo in azione. Tu sei l’unico membro della
formazione originale, vuoi dirci qualcosa in merito?
Ho riformato il Balletto di Bronzo
nel 1995, dopo che mi sono accorto che intorno al gruppo, e in particolare nei
confronti dell’album “YS”, si era formato un vero e proprio culto, soprattutto
in Giappone. Ho rintracciato gli altri musicisti ma nessuno di loro era
interessato, così ho proseguito da solo, audizionando bassisti e batteristi per
tutta Roma; non ero alla ricerca di nomi famosi o altisonanti, volevo solo
musicisti tecnicamente preparati e allo stesso tempo energici, per tenere il
mio passo ci vuole gente giovane! Abbiamo attraversato vari cambi di organico,
ma la formazione attuale ritengo sia la migliore dal 1995.
Dalla seconda metà degli anni ‘90 in
poi abbiamo assistito ad una crescente rivalutazione della scena
Rock-progressive, cosa ne pensi?
Personalmente non credo nelle
“operazioni nostalgia”, preferisco essere giudicato per quello che faccio
adesso, per come suonerò stasera e non quarant’anni fa… Se sei ancora in grado
di suonare bene devi dimostrarlo. Ho accettato la sfida di suonare ancora come
Balletto di Bronzo perché sapevo di poterla vincere, non per convenienze di moda
o di recupero. Un nostro concerto include anche tanta musica che non è
strettamente etichettabile come Prog-rock, genere dal quale ero già in fuga a
metà anni ‘70, brani nuovi mai registrati in studio ma che suoniamo sempre dal
vivo e che rendono l’idea di ciò che sono oggi. Naturalmente senzatradire l’intenzione originale,
non stravolgerei mai un brano scritto nel 1973, per rispetto del pubblico che
si aspetta “quella” versione.
Il pubblico stesso è diverso, ci sono
molti giovani che erano bambini o forse neanche nati durante il periodo d’oro
del Progressive…
Esatto, molti ragazzi vengono da me a
fine concerto per farsi autografare il CD e mi dicono “che fortuna avete
avuto a vivere gli anni ‘70!”. Non erano tutte rose e fiori ma sicuramente
c’è del vero, all’epoca c’eravamo noi marziani, capelli lunghi e vestiti
stravaganti, e la gente normale che ti guardava con sospetto. Il vantaggio era
che se incontravi qualcuno come te lo riconoscevi, sapevi che il suo modo di
porsi nei confronti della società era sincero, come il tuo, che portava avanti
certe idee di rivoluzione culturale, sessuale, eccetera. Oggi è tutto più
semplice, allo stesso tempo più banale.
Parliamo del tuo strumento, la
tastiera, quali sono stati i tuoi riferimenti in gioventù?
Keith Emerson e Brian Auger sono i
più grandi tastieristi della storia. Punto. Ma io non cercavo di imitarli,
all’epoca lo facevano tutti, volevo invece trovare una voce mia. E poi i miei
miti musicali erano Jimi Hendrix e Frank Zappa! Tutti avevano qualcosa in
comune che mi piace moltissimo, ovvero l’aggressività. Solo nell’arte,
s’intende!
Genesis
- 1969 (Top: Peter Gabriel. Middle-left to right: Tony Banks, Mike Rutherford. Bottom-left to right: Anthony
Phillips, Chris Stewart)
La leggenda narra che il 14
settembre 1969 i Genesis tennero il
loro primo concerto a pagamento in un cottage nel Surrey, di proprietà
dell'insegnante di Peter Gabriel, della Sunday School.
Ormai non erano più solo la band del
collage. A marzo dello stesso anno avevano firmato il contratto con la Decca, e
fatto uscire il loro primo album "From Genesis to Revelation".
Qualche anno dopo, diventarono uno
dei gruppi più innovativi della scena rock-progressive!
…
di tutto un Pop…
Wazza
Mike
Rutherford, Anthony Phillips, Tony Banks, Peter Gabriel & John Mayhew
I fratelli Giles
conobbero Robert Fripp attraverso la pubblicazione di un annuncio atto alla
ricerca di un organista /cantante (!!). Dopo essersi trasferiti a Londra, ottennero
un contratto discografico con la DERAM, sotto-etichetta della Decca… l’album vendette
600 copie.
La casa discografica
decise di investire su questi tre musicisti, aggiungendo Ian Mc Donald e la sua
fidanzata Judy Dyble, e il poeta Pete Sinfield. L'album ebbe all'epoca scarsissimo successo commerciale (stimato attorno alle 600 copie vendute), il che indusse poco dopo Pete Giles a lasciare la band; a rimpiazzarlo, Fripp, McDonald e Mike Giles chiamarono una vecchia conoscenza di Fripp, il bassista/cantante Greg Lakee, pochi mesi dopo, con l'ingresso in pianta stabile del poeta Pete Sinfield (già amico e collaboratore di McDonald) come paroliere e addetto a luci e suoni, nacquero i King Crimson.
Il 12 settembre segna una data speciale per i fan del
rock progressivo e per tutti gli amanti della batteria: è il giorno in cui
avrebbe compiuto gli anni Neil Peart,
il leggendario batterista e paroliere dei Rush he ci ha lasciato nel 2020.
Neil Peart è stato un vero e proprio architetto del ritmo. La
sua tecnica, una fusione di potenza, precisione e complessità, ha ridefinito il
ruolo della batteria nel rock. I suoi assoli, vere e proprie suite musicali,
erano capolavori di percussione, capaci di raccontare storie e di esplorare
sonorità che andavano ben oltre il semplice accompagnamento. La sua "drum
kit", un'enorme e complessa cattedrale di tamburi e piatti, era lo
specchio della sua mente creativa, sempre alla ricerca di nuove soluzioni
ritmiche.
Ma Peart non si limitava a suonare. Era la "mente"
dietro le parole dei Rush. Le sue liriche, spesso ispirate dalla letteratura,
dalla filosofia e dalla fantascienza, hanno dato al trio canadese una
profondità e un'identità uniche. Brani come "Tom Sawyer",
"Limelight" e l'epica "2112" sono permeati
dal suo stile narrativo, che affrontava temi universali come l'individualismo,
la libertà, la tecnologia e il rapporto tra l'uomo e la società.
Soprannominato "The Professor" per la sua
meticolosità e la sua vasta cultura, Neil Peart ha sempre spinto i confini del
possibile. Non era solo un musicista, ma un esploratore, un autore di libri di
viaggio e un pensatore. Dopo la tragica perdita della figlia e della moglie
alla fine degli anni '90, ha intrapreso un lungo viaggio in motocicletta
attraverso il Nord America, un'esperienza catartica che ha raccontato nel suo
libro "Ghost Rider: Travels on the Healing Road". Questo
percorso di dolore e guarigione ha mostrato il lato più umano e vulnerabile
dell'uomo dietro il mito.
L’Impero Delle Ombre, ormai a tutti gli effetti fra i
principali gruppi di doom metal a livello europeo (pur se il cantato è in
italiano), ha rilasciato il quarto album dal titoloOscurità. Pubblicato, ovviamente, dalla Black
Widow Records (gloria sempre), si pregia di andare ancor più in profondità
rispetto ai loro lavori precedenti, o meglio, verso l’abisso delle tenebre,
alla ricerca di sonorità sofferte, ispirate, energiche, tetre, incisive. Un
insieme di escursioni che i componenti del gruppo hanno effettuato nei meandri
dei luoghi più proibiti e oscuri, appunto, della psiche umana per proiettare sé
stessi nelle loro composizioni; a noi fruitori il compito di accettare la sfida
di rivivere le storie raccontate, sostituendo idealmente i ragazzi della band,
qui nella terra della finta luce.
Il Mio Ultimo Viaggio è posta come prima traccia, e titolo
più appropriato non potevano partorire. Ambientazione doom “in purezza”,
iconica, arcana: otto minuti di lento e inesorabile tragitto verso il riposo
eterno, verso il luogo in cui tutti finiremo. Straziante nelle atmosfere,
deprimente, ma atrocemente vera.
Si prosegue con Zulphus Et Mercurius, con clavicembalo e
flauto ad introdurne i contenuti. Un breve incipit che lascia spazio ad
atmosfere doom, ma contaminate da spunti hard rock e da un lirismo che lascia
il segno. Il tappeto sonoro tastieristico aiuta moltissimo il risultato finale
che il gruppo si è prefissato.
Lacrime nella Pioggia, annunciata da un temporale nefasto e
da un inusuale sax, ha andamento maggiormente sostenuto rispetto alle canzoni
precedenti, ha tiro ed è straniante quanto basta per solleticare la fantasia
dell’ascoltatore. Un ottimo esempio di qualità compositiva mai fine a sé
stessa. Sicuro e inquietante l’assolo di chitarra.
Dagon, ispirato dal racconto di H.P. Lovercraft, si avvale di
un coro iniziale per definirne il contesto, con al centro la narrazione che,
come scattante serpente si insinua nella nostra immaginazione, cercando di
approntarla a tanta inattesa e granitica resa sonora. Le tastiere disegnano i
profili dei protagonisti come fossero dei miraggi, lontani e impalpabili, ma in
realtà vicinissimi.
Macara è doom metal fin dalla prima nota e rende omaggio al
cinema horror italiano del secolo scorso, rendendo esplicito uno degli
argomenti d’ispirazione de L’Impero Delle Ombre. Possessioni e follia si
intersecano per regalare attimi di puro terrore, angoscia e inquietudine. Un
film in musica.
La Taverna del Diavolo, ossia quel posto tristemente
leggendario (realmente esistito) in cui si organizzavano atrocità e attività
deprecabili. Le sonorità del pezzo sono più fosche e minacciose che mai, atte a
rappresentare gli affreschi demoniaci apparsi all’interno dello sconvolgente
locale.
Il Gatto Nero, chiaro omaggio a E.A. Poe il cui titolo è
tratto da una sua narrazione, parte con marcata potenza e folle mistero,
dipanandosi in un devoto omaggio all’autore americano. Lodevole il lavoro delle
chitarre, che si incrociano, si attraversano, procedono insieme in un
apprezzabile scontro/incontro.
Circolo Spiritus Navona 2000 chiude il lavoro ed è un trionfo
esoterico di prim’ordine. Siamo ora in pieno italian dark sound, dove il doom
si mischia col prog, in cui gli accenti metal si stringono a quelli rock,
mentre le esposizioni di diversi cambi di tempo (davvero ben suonati) vanno di
pari passo con le tante investigazioni interiori.
Personalmente seguo questa band dalla loro prima uscita
discografica, omonima, risalente al 2004, cui fecero seguito “I Compagni di
Baal” del 2011 e “Racconti macabri, vol. III” del 2020, e ora questo
“Oscurità”, e in essi sono evidenti sia la crescita professionale della band,
che l’evoluzione sonora della loro proposta, fermo restando che ognuno brilla
di bagliori neri sempre differenti, portando volutamente ombre e raggi
deprimenti, e sono da considerare una (importante) storia a sé. Cemetery rock,
lo chiamano: io credo sia qualcosa (molto) di più. Abbracci diffusi.
Tracklist:
1)
Il Mio Ultimo Viaggio
2)
Zulphus Et Mercurius
3)
Lacrime nella Pioggia
4)
Dagon
5)
Macara
6)
La Taverna del Diavolo
7)
Il Gatto Nero
8)
Circolo Spiritus Navona 2000
Componenti:
GIOVANNI
“John Goldfinch” CARDELLINO: VOCE, CORI, INVOCAZIONI
ANDREA
CARDELLINO: CHITARRA RITMICA, SOLISTA E ACUSTICA
ROBERTO
“Rob” URSINO: CHITARRA RITMICA
VINCENZO
“Vinz” CERIOTTI: BASSO
DAVIDE
“Dave” CRISTOFOLI: TASTIERE
MICHELE
“DrumHead” ERCOLANO: BATTERIA e PERCUSSIONI
Ospiti:
Tommy
“Sadist” Talamanca: solo di chitarra centrale in “Macara”
Giacomo
Petrocchi: Sax tenore in “Lacrime nella pioggia”
Pietro
Ragozzi: violino in “Dagon”
Daniela
e Giorgia from Busto: cori femminili in “Dagon”
“Lovecraftian choruses of Dagon”:
John, Andrea, Rob, Vinz
Si concludeva L'11settembre 2011 il
Progressivamente Festival, "creatura" di Guido Bellachioma,
con lo straordinario concerto delle Orme + Banco del Mutuo Soccorso tenuto nella splendida location della
"Casa del Jazz" a Roma (ex villa della banda della Magliana).
Una serata da
"incorniciare", con una risposta di pubblico superiore alle attese,
tant’è che poco dopo l'inizio del concerto dovettero aprire le porte, per
motivi di ordine pubblico.
Allego la recensione di Damiano
Fiamin, che fotografa alla perfezione le emozioni di quell'indimenticabile
concerto
Wazza
Live report: Le Orme + Banco del
Mutuo Soccorso @ Casa del Jazz - Roma 11/09/2011
articolo a cura di Damiano Fiamin
Le premesse erano ottime, le
aspettative elevate: Le Orme e Banco del Mutuo Soccorso, due dei più grandi
nomi del progressive rock italiano avrebbero calcato per la prima volta un
palco capitolino in occasione della giornata conclusiva del "Progressivamente
Festival 2011". Nella bella cornice
della Casa del Jazz di Roma, una villa confiscata a uno dei boss della banda
della Magliana e divenuta una dei poli culturali della Capitale, per una
settimana si sono susseguiti seminari, workshop e concerti tenuti dai più
grandi nomi del progressive nostrano. Evidentemente, la manifestazione ha avuto
successo: la giornata di chiusura ha registrato il tutto esaurito; nonostante
gli sforzi degli organizzatori, la Questura non ha rilasciato il permesso per
aumentare la capienza e non sono pochi coloro che sono stati costretti ad
ascoltare il concerto fuori dai cancelli.
In perfetto orario, dopo i rituali
discorsi introduttivi da parte dei promotori, salgono sul palco Le Orme. La
formazione è quella che ha realizzato “La via della seta”, l’ultimo album del gruppo, uscito
proprio all’inizio di quest’anno. Lo storico batterista del
gruppo, Michi dei Rossi, è affiancato da
musicisti di tutto rispetto come Jimmy Spitaleri, già cantante dei Metamorfosi, Michele
Bon, alle tastiere, Fabio Trentini, basso e chitarra acustica, William Dotto
chitarra elettrica e acustica, e Federico Gava al pianoforte. Proprio come
accadde per l’album da studio, è bello notare come la coesistenza di
musicisti di generazione diversa riesca in qualche modo a dare una marcia in più al gruppo che si propone al suo
pubblico con vigore ed energia. Senza dilungarsi troppo in chiacchiere, Le Orme
infilano un pezzo dopo l’altro,
alternando brani tratti dalla loro ultima fatica a grandi classici, per la
gioia dei fan che gli siedono davanti. Dopo una settimana di concerti, l’amplificazione della Casa del Jazz è abbondantemente collaudata e non ci
sono sbavature degne di nota per quanto riguarda la strumentazione; nei momenti
di maggiore concitazione, Gava e il suo pianoforte finiscono leggermente al di
sotto degli altri musicisti ma non si arriva mai a una sopraffazione completa
di nessuno dei partecipanti. Michi dei Rossi realizza una performance
eccellente: nel suo regno di piatti e pelli, governa senza esitazioni,
scandisce il tempo e condisce le frasi musicali dei suoi colleghi con brio e
professionalità; quando emerge e si avvicina al pubblico, riesce ad
accattivarsene la simpatia grazie alla sua auto-ironia, manifestando un genuino
piacere per le reazioni del pubblico. Eccellente anche Spitaleri, vero e
proprio rocker d'annata,
invecchiato nel fisico ma indomito nello spirito e nella voce; nonostante gli
anni, riesce a mantenere un’ottima
estensione vocale e calca il palcoscenico con decisione. Meno evidenti per
presenza scenica ma comunque di gran livello le esibizioni di Dotto e Trentini:
i due chitarristi si profondono in assoli di qualità, arpeggi intricati e
accompagnamenti tecnicamente convincenti; saranno pure nuovi acquisti nella
formazione de Le Orme ma hanno certo un curriculum di tutto rispetto alle
spalle! Il giovane Gava, al pianoforte, è relegato un po’ in disparte su un
palcoscenico che, effettivamente, non permette grandi manovre da parte dei
musicisti; bravo, comunque, gran simbolo della nuova corrente intrapresa dalla
band, in grado di mescolare senza timore vecchio e moderno per ottenere nuove,
incredibili, alchimie sonore. Dopo un’ora abbondante di concerto, Le Orme si accingono al commiato, lasciando
la scena al Banco del Mutuo Soccorso.
Il pubblico ha certamente apprezzato
l'esibizione delle Orme ma è evidente che l'attesa maggiore è riservata al
gruppo di Nocenzi e di Giacomo; non appena i musicisti si affacciano sul palco,
scoppia un’ovazione rumorosa, un’acclamazione di gioia per un gruppo
che, oltre ad avere il vantaggio di giocare in casa, ha certamente segnato la
storia del progressive del nostro paese in maniera indelebile. Nonostante fosse
stato annunciato nella presentazione iniziale, è con un certo rammarico che viene registrata l’assenza di Rodolfo Maltese; il
chitarrista non sale sul palco insieme ai suoi colleghi per motivi di salute. È
un Banco in gran spolvero, nonostante tutto, quello che si presenta al pubblico
della Casa del Jazz: di Giacomo è in forma straordinaria, la sua voce ha ritrovato tutta l’energia che, nelle recenti
esibizioni, pareva essersi affievolita. Nocenzi, come d’abitudine, siede tra tastiera e
organo, dirigendo il gruppo con impeto quando si tratta di pigiare i tasti neri
e bianchi e pacatezza quando, invece, si abbandona a digressioni nostalgiche e
riflessioni poetiche; il tastierista, in effetti, prende la parola in più
occasioni per raccontare aneddoti e impressioni sul concerto, prendendo spunto
dai pezzi appena suonati per lasciarsi andare a considerazioni ad alto rischio
di retorica che, grazie alla sua abilità, riescono ad arrivare allo spettatore
senza appesantimenti di vacua utilità. Nel periodo di silenzio richiesto al
pubblico per commemorare l’anniversario
dell’attacco terroristico subito dagli
Stati Uniti dieci anni fa, non c’è alcuna considerazione facile, solo una
condanna, sentita e vera, verso qualunque estremismo, qualunque sia la sua
natura e la sua motivazione. Il Banco infiamma il pubblico di fan che, ormai,
cercano di avvicinarsi quanto più possibile al palco, sedendosi anche a terra
pur di stabilire un legame ancora più forte con la band. La scaletta proposta
non riserva molte sorprese: la quasi totalità dei brani proviene dai primi tre
capolavori del gruppo. Stranamente, non viene suonato uno dei brani che, da
sempre, hanno più successo dal vivo: Metamorfosi; l’assenza viene ampiamente compensata
dall’allungamento degli altri brani, tra i
virtuosismi vocali del cantante e gli assoli degli strumentisti, si ha l’impressione che il gruppo voglia
omaggiare la sede del concerto con una deriva jazz che, certamente, ha il
potere di esaltare gli astanti. Il basso di Ricci, come sempre, si inerpica in
geometrie sonore complesse che ben si accompagnano alla prestazione di Masi
alla batteria; la sezione ritmica, che in un gruppo come il Banco rischia di
passare in secondo piano, svolge il suo compito in maniera precisa e
convincente. Bravi anche Papotto, ai fiati, suoni di sottofondo e rumori vari e
Marcheggiani che, con la sua chitarra, si lascia infervorare dallo spirito del
rock & roll, producendosi in assoli lanciatissimi e muovendosi sul palco
più di tutti gli altri musicisti messi insieme. Graditissima sorpresa verso il
finale del concerto: durante la presentazione dei componenti del gruppo, sale
sul palco Rodolfo Maltese. Sebbene visibilmente provato, il chitarrista
accompagna i suoi compagni nell’esecuzione degli ultimi pezzi, prima che le
luci si spengano e il gruppo scompaia dietro le quinte.
Ma le sorprese non sono finite: a dar
corpo a una speranza che aleggiava nell’aria, il Banco torna sulla scena
accompagnato da Le Orme. I due gruppi al gran completo saturano il palco in una
jam session progressive in cui ben tredici musicisti si sono affiancati per la
gioia del pubblico, suonando insieme due dei brani più famosi delle discografie
dei due gruppi: Uno sguardo verso il cielo e Non mi rompete.
Divertenti e coinvolgenti fino alla
fine, entrambi i gruppi hanno riempito, anche fisicamente, la scena in un
omaggio agli astanti che non poteva esaurirsi in maniera migliore con il
sigillo della cavalcata di chiusura di Non mi rompete.
Il pubblico, ormai, valica qualunque
confine ipotetico e si assiepa fino a ridosso della struttura metallica su cui
stanno suonando i musicisti, riempiendo ogni spazio utile, quasi a voler
abbattere fisicamente il confine che li separa dai musicisti, confine che, a
livello spirituale, è già crollato da tempo.
Applausi in piedi da parte di tutti i
presenti, vicini e lontani dal palcoscenico, che incitano e gloriano entrambi i
gruppi che, sentitamente, ringraziano. Davvero un bel concerto, ottime
dimostrazioni di bravura da parte di entrambe le band che hanno saputo
dimostrare come sia possibile essere un gruppo di spessore senza per questo
perdere il rapporto con i fan. Auto-ironia e capacità di svecchiarsi hanno
permesso a questi artisti di passare i quarant’anni di attività e rimanere
ancora sulla cresta dell’onda; vista la loro prolificità per quanto riguarda i
concerti, consiglio a tutti di andare a vedere il prossimo.