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martedì 1 aprile 2025

Onioroshi – “Shrine” , di Alberto Sgarlato

 


Onioroshi – “Shrine” (2025) 

di Alberto Sgarlato

 

L’Italia è sempre stata un faro dal punto di vista dell’avanguardia progressiva, con ottimo ritorno di immagine sul piano internazionale.

Da oltre una trentina d’anni a questa parte, cioè dal boom di rinascita del fenomeno che si è avuto nei primi ‘90, il rock progressivo italiano viene principalmente associato alla corrente romantica e sinfonica del genere. Ma non è affatto così. O meglio: non è solamente così. Esattamente come già avveniva negli anni ‘70, anche in tutti i decenni a seguire e fino ai giorni nostri in Italia hanno continuato a nascere band che esploravano ogni tipo di contaminazione sonora, da quelle con il jazz e il jazz-rock, al filone hard ‘n’ heavy, fino alla psichedelia.

Ed è proprio tra le divagazioni più eclettiche del genere che vanno ad incunearsi i ravennati Onioroshi, giunti in questo 2025 alla loro seconda prova di studio, intitolata “Shrine”.

Che il power-trio, formato da Manuel Fabbri (basso e voce), Enrico Piraccini (batteria e voce) e Matteo Sama (chitarra), non abbia alcuna intenzione di concedersi alle lusinghe del facile ascolto e dell’immediatezza si capisce già dal fatto che i 54 minuti di durata del secondo album sono suddivisi in sole tre tracce, rispettivamente da 18, 15 e 20 minuti. La band alza così ulteriormente l’asticella della sperimentazione rispetto all’esordio, datato 2019 e intitolato “Beyond these mountains”, dove circa un’ora di musica era strutturata in quattro lunghe composizioni.

Questo “Shrine” si apre con “Pyramid”: l’inizio è lento, cupo, soffuso, affidato solo a una chitarra dal suono pulito ma ampiamente riverberato. E quell’arpeggio, pian piano, sale, cresce, fino all’entrata di tutti gli strumenti, attorno al primo minuto. Krautrock, Syd Barrett e persino un pizzico di shoegaze vanno a braccetto in questa marcia nel corso della quale tutta l’ossatura del brano prende forma con la maestosità di un enorme Godzilla assopito che si risveglia.

Verso il quarto minuto il tutto si indurisce e si “rabbuia” ulteriormente, verso toni dark-wave e noise. Da qui in poi è una cavalcata verso gli inferi, tra fiammate di stoner e allucinazioni psichedeliche.

Laborintus” ha questo strano titolo che sembra una crasi tra “Labour” (fatica) e “Labyrinth”. E, infatti, la tortuosità delle trame sonore trasmette bene una sensazione di disorientamento senza via di fuga. Qui entrano in ballo nuovi ingredienti nel sound, a cominciare da un’apertura con un basso dal suono corposo e ben presente, fino a chitarre meno “acide” rispetto alla traccia di apertura, con note più lunghe, dilatate, ma non certo per questo più languide. E non manca, ancora nella miglior tradizione noise e shoegaze, un largo uso dell’effettistica, tra flanger e chorus che generano sibili dal sapore “aeronautico”. Il drumming è tribale, giocato su suoni scuri ma qui e là inaspettatamente spezzato dalle deflagrazioni di un parco di piatti vario e colorato.

In tutto questo la voce non è mai in primo piano: è filtrata, è distorta, diventa il costante gemito di un malessere interiore, di un’angoscia evidente seppur mai palesata in modo plateale.

Dobbiamo arrivare al nono minuto per trovarci al cospetto di un crescendo giocato su tempi dispari e armonizzazioni corali che, inaspettatamente, sposta tutto su spazi meno claustrofobici e più ariosi.

Il finale della traccia diventa una grandissima prova di stoner-rock enorme come un macigno.

Ed è con un altro poderoso riff di stoner-rock che si aprono i venti minuti della conclusiva “Egg”, traccia nella quale la band offre letteralmente il meglio di tutta la propria cifra stilistica, tra drumming cangiante e dalle coloriture sempre inaspettate, voci effettate, lancinanti e sofferte, ma anche momenti di quiete imprevista, situazioni sussurrate mediante l’uso di arpeggi delicati, come in tutta la sezione tra il terzo e il quinto minuto, che fa da prodromo a un’altra cavalcata cosmica. Dall’undicesimo minuto, dopo rarefazioni e dilatazioni, la situazione si fa nuovamente “cattiva”, a base di riff e stacchi ben calibrati, fino al possente finale.

Una band da tenere d’occhio, dotata di un vocabolario timbrico sempre originale e spiazzante.






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