Onioroshi – “Shrine”
(2025)
di Alberto Sgarlato
L’Italia è sempre stata un faro dal punto di
vista dell’avanguardia progressiva, con ottimo ritorno di immagine sul piano
internazionale.
Da oltre una trentina d’anni a questa parte,
cioè dal boom di rinascita del fenomeno che si è avuto nei primi ‘90, il rock
progressivo italiano viene principalmente associato alla corrente romantica e
sinfonica del genere. Ma non è affatto così. O meglio: non è solamente così.
Esattamente come già avveniva negli anni ‘70, anche in tutti i decenni a
seguire e fino ai giorni nostri in Italia hanno continuato a nascere band che
esploravano ogni tipo di contaminazione sonora, da quelle con il jazz e il jazz-rock,
al filone hard ‘n’ heavy, fino alla psichedelia.
Ed è proprio tra le divagazioni più
eclettiche del genere che vanno ad incunearsi i ravennati Onioroshi, giunti in questo 2025 alla loro seconda
prova di studio, intitolata “Shrine”.
Che il power-trio, formato da Manuel
Fabbri (basso e voce), Enrico Piraccini (batteria e voce) e Matteo
Sama (chitarra), non abbia alcuna intenzione di concedersi alle lusinghe
del facile ascolto e dell’immediatezza si capisce già dal fatto che i 54 minuti
di durata del secondo album sono suddivisi in sole tre tracce, rispettivamente
da 18, 15 e 20 minuti. La band alza così ulteriormente l’asticella della
sperimentazione rispetto all’esordio, datato 2019 e intitolato “Beyond these
mountains”, dove circa un’ora di musica era strutturata in quattro lunghe
composizioni.
Questo “Shrine” si apre con “Pyramid”:
l’inizio è lento, cupo, soffuso, affidato solo a una chitarra dal suono pulito
ma ampiamente riverberato. E quell’arpeggio, pian piano, sale, cresce, fino
all’entrata di tutti gli strumenti, attorno al primo minuto. Krautrock, Syd
Barrett e persino un pizzico di shoegaze vanno a braccetto in questa marcia nel
corso della quale tutta l’ossatura del brano prende forma con la maestosità di
un enorme Godzilla assopito che si risveglia.
Verso il quarto minuto il tutto si indurisce
e si “rabbuia” ulteriormente, verso toni dark-wave e noise. Da qui in poi è una
cavalcata verso gli inferi, tra fiammate di stoner e allucinazioni
psichedeliche.
“Laborintus” ha questo strano titolo
che sembra una crasi tra “Labour” (fatica) e “Labyrinth”. E, infatti, la
tortuosità delle trame sonore trasmette bene una sensazione di disorientamento
senza via di fuga. Qui entrano in ballo nuovi ingredienti nel sound, a cominciare
da un’apertura con un basso dal suono corposo e ben presente, fino a chitarre
meno “acide” rispetto alla traccia di apertura, con note più lunghe, dilatate,
ma non certo per questo più languide. E non manca, ancora nella miglior
tradizione noise e shoegaze, un largo uso dell’effettistica, tra flanger e
chorus che generano sibili dal sapore “aeronautico”. Il drumming è tribale,
giocato su suoni scuri ma qui e là inaspettatamente spezzato dalle
deflagrazioni di un parco di piatti vario e colorato.
In tutto questo la voce non è mai in primo
piano: è filtrata, è distorta, diventa il costante gemito di un malessere
interiore, di un’angoscia evidente seppur mai palesata in modo plateale.
Dobbiamo arrivare al nono minuto per trovarci
al cospetto di un crescendo giocato su tempi dispari e armonizzazioni corali
che, inaspettatamente, sposta tutto su spazi meno claustrofobici e più ariosi.
Il finale della traccia diventa una
grandissima prova di stoner-rock enorme come un macigno.
Ed è con un altro poderoso riff di
stoner-rock che si aprono i venti minuti della conclusiva “Egg”, traccia
nella quale la band offre letteralmente il meglio di tutta la propria cifra
stilistica, tra drumming cangiante e dalle coloriture sempre inaspettate, voci
effettate, lancinanti e sofferte, ma anche momenti di quiete imprevista,
situazioni sussurrate mediante l’uso di arpeggi delicati, come in tutta la
sezione tra il terzo e il quinto minuto, che fa da prodromo a un’altra
cavalcata cosmica. Dall’undicesimo minuto, dopo rarefazioni e dilatazioni, la
situazione si fa nuovamente “cattiva”, a base di riff e stacchi ben calibrati,
fino al possente finale.
Una band da tenere d’occhio, dotata di un vocabolario timbrico sempre originale e spiazzante.
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