UNIMOTHER 27 – “ACIDOXODICA”
Di Andrea Pintelli
Unimother 27, ossia psichedelia e
sperimentazione e musica fuori dall’ordinario (nel caso crediate possa
esisterne uno) dietro cui si nasconde la mente di Piero Ranalli, one-man-band (suoi chitarre, basso e sintetizzatori
nonché compositore unico) che, con l’aiuto di tale Mr. Fist alle percussioni, dona vita a questo progetto la cui
proposta è chiaramente non per tutti, ma solo per chi si vuole spingere oltre,
dove il salto nel buio di suoni non convenzionali si traduce in coraggio
nell’affrontare con decisione il classico limite del burrone. Ecco, dopo di
esso c’è, fra gli altri, anche questo disco, opera che lo stesso Ranalli spiega
così nelle line notes d’introduzione del libretto: “Questo lavoro trae ispirazione da un sogno… Cammino lungo una strada di
una città immaginaria e noto che in entrambe le direzioni lo scenario che mi
trovo davanti non cambia. In qualsiasi modo percorro il cammino, gli elementi
che mi si presentano di fronte sono sempre gli stessi. Un palindromo tridimensionale
dal quale è possibile uscire solo ritornando allo stato di veglia”.
Da qui il titolo dell’album e dei
brani, che letti in senso inverso mantengono immutato il loro significato
(qualora ce ne fosse).
A livello musicale l’intento è di
condurre l’ascoltatore verso una seconda
attenzione, così che abbia una più intensa e vivace esperienza di vita.
Avete paura? Chiudete gli occhi.
Non ne avete? Teneteli aperti. Ma comunque lasciatevi trasportare altrove dalle
onde sonore ed emozionali che fin dai primi istanti vi abbracciano come fossero
un’edera che cresce su di voi. Lasciandovi respirare. Come ossessi inizierete a
fluttuare negli spazi indefiniti che hanno in loro tutti i crismi del viaggio (trip,
meglio). Affrontate questo non-percorso liberi dagli schemi, aiutando proprio a
disintegrarli a favore di una libertà di movimento che si vuole comunicare.
Smettete di essere consci, tornate vergini, come se questi colori fossero i
primi mai visti. Non opponetevi a chi vi sta conducendo, siccome non è davvero
mai troppo; presto o tardi, poco o tanto, camminerete senza sentire appoggi, ma
solo venti di pochissime arie che ci aiutano a non cadere, ma soprattutto
fidatevi di voi stessi. L’intento è ricondurvi al centro di voi stessi, quel
mondo inesplorato dai più che tanto timore incute, siccome la conoscenza
profonda dell’io crea anche imbarazzo, a volte. Potete quindi andare lontano,
lontanissimo, dove l’ossigeno manca e i corpi sono leggeri come foglie, ma dove
non si soffoca, anzi, fin dove ci si libera dall’obbligo del respiro che smette
di essere necessità. La vita si spinge dove il battito del cuore resta ricordo
e rimembranza, e questa conquista della propria condizione profonda fa
impallidire anche quella di un satellite: allunare era nulla, in confronto. Ma
poi, si torna anche a toccare terra, la nostra amata e bestemmiata terra, dove
ci accoglie uno sciame di soffi d’anima, in questa infinita valle di sensazioni
che inizia e non finisce, dove ci si confonde fra gli altri, in un dedalo di
strade e schiume di burrasca e malesseri claustrofobici tra le masse che ci
prendono a martellate, facendoci poi ricredere che il nostro quotidiano sia
veramente l’Eden. Siamo qui e vogliamo scappare. Siamo altrove e vogliamo
tornarci. Delitto irrisolto. Ma sempre con la sensazione che il tempo che
scorre fra il primo luccicante shock e l’ultimo saluto agli amati sia sempre poco
e atroce. Vita come regalo breve, conquista d’ogni giorno del finto benessere,
corsa continua verso una meta che si fa orizzonte sempre più lontano, inganno
mascherato da sorriso. Questo siamo? Quindi via, via ancora, ancora evasione da
noi stessi, per cercare un attimo di tregua a questa condizione di prigionia
che crediamo libertà. Come sempre il contraltare della scelta è l’altro lato
della stessa medaglia; veniamo qui aiutati a preferire l’ignoto al lato
spensierato dell’esistenza, giocando a scrutare le sfumature dei grigi,
cercando di carpirne i significati di quest’arte tetra che si fa madre di
un’intera dimensione. Andiamo davvero al di là delle sensazioni, gli occhi si
fanno orecchie, le braccia diventano schiena, i piedi cuore, e così via,
pensando che non si tratta di deformazione della persona, ma gioia
nell’astratto. Picasso docet: esempio di viaggiatore nel tempo per il tempo e
contro il tempo, creatore di una nuova libertà senza vergognarsi del proprio
io, ma piuttosto elevandolo a genialità. Senso e sostanza, comandata dallo spirito.
Costantemente impavido. Come sempre così dovrebbe essere, per fuggire
definitivamente dalla vera condanna odierna, quegli attici delle città in rete,
dove anche un saluto o, peggio ancora, un’amicizia vale quanto un click. Il
nulla assoluto. La morte di ogni speranza. Per cui molto meglio tornare ad
andare, girovagando anche (e soprattutto) senza meta, in cerca di una
condizione che ci assicuri il pieno carico di emozioni, per cui valga la pena
dirsi vivi.
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