Jethro Tull – The Zealot Gene (2022)
Di Alberto Sgarlato
Era il 2012, parliamo quindi di una decina
d’anni fa, quando il burbero Ian Anderson annunciava la sua scissione da Martin
“Lancelot” Barre, mettendo così la parola fine alla più lunga tra le collaborazioni
di una band da sempre segnata da continui scismi interni e trasformando, di
fatto, il marchio Jethro Tull da una formazione in continua evoluzione a un suo
progetto solista più di quanto non fosse mai stato.
Dopo questa svolta Anderson pubblicava due
album, “Thick as a brick 2” nel 2012 e “Homo Erraticus” nel 2013. Ciò significa
che questo nuovo “The Zealot Gene” arriva come prima opera di materiale
totalmente inedito dopo otto anni dal suo predecessore; un evento celebrato su
Youtube con il lancio, all’inizio di gennaio, del video ufficiale della
title-track, un “corto” di animazione splendidamente realizzato.
Ma Anderson, ancor prima che un musicista, è
sempre stato un grande imprenditore di se stesso: nel 2012 sapeva che un nuovo
corso così drastico non avrebbe potuto comportare una altrettanto violenta
rottura col passato, per non perdere il suo seguito, e così scelse, nel
quarantennale di uno degli album più famosi della band, “Thick as a brick”, di
riprendere in mano la storia di Gerald Bostock, bambino definito dai suoi
insegnanti “ottuso come un mattone” (thick as a brick, appunto) e invece
rivelatosi precoce talento letterario. In “Thick as a brick 2” ritroviamo
Gerald adulto e l’album ce ne racconta le vicissitudini. Il successivo “Homo
Erraticus” il protagonista è ancora Bostock, nei suoi destini di viandante, in
continui salti temporali tra la sua quotidianità e il suo passato, emerso in
alcuni (presunti) ritrovamenti epistolari di famiglia.
Questo inquadramento sull’ultima produzione
tulliana è fondamentale per arrivare, oggi, a questo nuovo disco dal titolo
così bizzarro: “The Zealot Gene” (il gene zelota, e non staremo qui a redigere
un trattato su chi furono gli Zeloti in Giudea e su quanto fu bellicoso il loro
rapporto con gli Antichi Romani). Tutto questo, invece, per dire che finalmente
Anderson trova la forza di scrollarsi di dosso la figura del piccolo Bostock e
di abbandonarla ai propri destini. Infatti, in questa nuova opera, più che di
concept album è legittimo parlare di “fil rouge”: canzoni, infatti, che possono
benissimo sopravvivere ciascuna a sé stante ma tutte collegate tra loro dagli
spinosi e coraggiosi temi delle religioni, del fanatismo, del dogma.
E veniamo ora all’analisi delle musiche,
partendo dal presupposto che, da una band dalla carriera cinquantacinquennale,
costellata da capolavori (e, ammettiamolo, anche da qualche passo falso qui e
là), sarebbe oltremodo ingenuo aspettarsi un ennesimo monumento indimenticabile
da consegnare alla storia.
Tuttavia, gli ingredienti per fare innamorare
i “tulliani” della vecchia guardia ci sono tutti, a cominciare dalla voce di
Ian Anderson che, se dal vivo ormai da parecchie decadi fatica nel sostenere
uno show nella sua integrità, in studio è ancora in grado di stupire,
impressionare e commuovere. E poi ovviamente il flauto, ora “saltellante” in
“Mrs. Tibbets”, ora delicatissimo in “Mine is the mountain”, ora più
“arrabbiato” in “Shoshana sleeping” (forse uno dei brani più paragmaticamente
tulliani), l’armonica “bluesy” in “Jacob’s Tales” (una delle vette del disco),
gli eleganti ricami del mandolino (ancora in “Jacob’s Tales”), i costrutti
medievaleggianti e folsky fatti di intrecci di strumenti a corde, ad ancia e
fisarmonica in “Sad city sisters” (un’altra delle vette).
Per contro troviamo alcuni elementi che
“stridono” fortemente col mood dell’album: l’arrangiamento di “Barren Beth,
Wild Desert John”, con qualche riff chitarristico hard che suona un po’
“finto”, la batteria mixata spesso alta e “quadrata” (nella title-track, in “The
betrayal of Joshua Kynde”, nell’ultima “The fisherman of Ephesus”), le chitarre
ultracompresse nelle prime note ancora della title-track e, soprattutto, alcuni
imperdonabili eccessi tastieristici con archi sintetici che fanno tanto “balera
anni ‘80” (le già citate “Mrs. Tibbets” e “Shoshana” e, ancora una volta, la
title-track). Sicuramente, infatti, gli episodi più riusciti sono i “quadretti”
più acustici, come le già citate “Mine is the mountain”, “Jacob’s Tales” e le
quasi conclusive “Where did saturday go?” e “Three loves, three”. Viceversa,
alcuni esperimenti tra sbuffi di pads elettronici, chitarre distorte e batteria
presente, ci riportano a quello che fu il periodo forse più incerto e per certi
aspetti più controverso della band: a spanne potremmo farlo iniziare con “The
broadsword and the beast” (1982) e concluderlo con “Crest of a knave” (1987),
mentre già con il successivo “Rock island” si vedevano avvisaglie di un ritorno
al tipico tull-sound.
Ok, in quel range di anni tante formazioni
della Vecchia Scuola provarono a “prendere due piccioni con una fava”, da una
parte aggiungendo qualche chitarra in più per strizzare l’occhio al pop-finto
metal radiofonico d’Oltreoceano, dall’altra con qualche tastiera che invece
ammiccava all’elettronica d’Albione. Ci provò il supergruppo Asia, fatto di ex
componenti di King Crimson, Yes ed ELP, ci provarono gli stessi Yes,
temporaneamente orfani di Steve Howe confluito negli appena summenzionati Asia
ma, in quel momento, capitanati da Rabin e prodotti da Trevor Horn, ci provarono
i Three, formazione che ricompattava Emerson e Palmer assieme al
polistrumentista californiano Robert Berry.
Ma se in quel momento storico tutto ciò
poteva sembrare legittimo e spontaneo, oggi contaminarsi con un mondo e
soprattutto un mercato che non esiste più suona alquanto anacronistico. Per
questo, paradossalmente, suonano più freschi e attuali i brani di questo album
caratterizzati da arrangiamenti più “roots” che quelli inspiegabilmente legati
a un certo “rock patinato”, proprio assente dalle corde andersoniane.
Ultima nota di merito, che dà ulteriore valore a un album comunque promosso e ben riuscito nella sua integrità: la scelta di non dilungarsi troppo, pubblicando 12 brevi tracce per complessivi 48 minuti circa. Dagli anni ‘90, con l’avvento del CD, e poi col Nuovo Millennio, quando tutto è diventato “liquido”, per cui spaziotemporalmente virtualmente infinito, la tendenza degli artisti è stata purtroppo quella di “allungare il brodo”. Qui non avviene e la scelta è encomiabile. Questa formula fa felici gli estimatori del caro vecchio vinilaccio nero. Tuttavia, per i supercompletisti, esiste una “deluxe edition” con l’album vero e proprio (a tratti forse un po’ sovrarrangiato, come detto) e con i demo che ci svelano, a volte con una percussione a scandire il tempo, a volte solo con un semplice metronomo, come sono nati i brani dalla penna di Anderson, soltanto voce e chitarra, talvolta con due chitarre sovrincise, o con il flauto, o con due voci. E la resa finale ne guadagna tantissimo. Al punto che forse sarebbe dovuto uscire solo l’album “Deluxe”, senza la metà prodotta in studio. Certo, senza trucco e senza inganno si sente che sforzo bestiale fa Ian a cantare e, ogni tanto, si percepisce qualche minima flessione dell’intonazione. Ma ciò fa ancora più tenerezza e “scalda il cuore” ai fans.
Tracklist (cliccare sul titolo per ascoltare)
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