Caravaggio
– album omonimo
di
Alberto Sgarlato
Colori, sì, caravaggeschi, con
largo uso di toni di rosso e di marrone, ma con pennellate più larghe,
rabbiose, confuse, tipicamente espressioniste; questi i parametri che ci
accolgono nella copertina dell’album omonimo dei milanesi Caravaggio.
E alla fine questo stile “espressionista” è quello che ritroviamo nel sound del quartetto (quartetto per modo di dire, vista l’estrema vastità di collaboratori che hanno contribuito al risultato finale). Solo molto remotamente, nella potenza del cantato, nei riff chitarristici, nei tempi dispari, potremmo infatti ravvisare un’origine legata al progressive metal. Poi, proprio come nell’espressionismo, le sovrapposizioni di colore, l’ampiezza delle pennellate, la ricchezza delle sfumature, vanno a costruire un quadro d’insieme che subito potrà apparire confuso all’ascoltatore superficiale e distratto ma che invece dà vita a un disegno chiaro, originale ed emotivamente impattante.
Così come avviene nell’opener “Beforemy eyes”, dove le chitarre spagnoleggianti, gli accordi jazz, i momenti più
rarefatti affidati alla fisarmonica e quelli più veloci dall’intenso tappeto
percussivo, danno vita a un singolare etno-jazz-metal-prog.
Ancora più spiazzante la
successiva “Not on me”, dove entra in scena anche l’elettronica, grazie
a un sapiente uso centellinato di un vocoder dal gusto molto anni ‘80.
“Joyful grave”, con il suo
inizio delicato, ci riporta all’ondata prog italiana degli anni ‘90 (quella
degli Arcansiel e dei Fancyfluid), ma anche in questo caso un largo dispiego di
fisarmoniche, mandolini e strumenti ad arco e a corda fa oscillare il tutto
verso coordinate più “world music”.
“Guernica” è uno dei brani
più rappresentativi del disco, sia per lunghezza (8 minuti), sia per il
saliscendi emozionale affidato a complessi ricami di chitarre acustiche ed
elettriche, basso fretless, rullanti militari, nacchere, sia per il titolo
stesso, che ben descrive il “sound pittorico” della band (sembra un paradosso
accostare queste due arti, vero?)
E in effetti il sound dei
Caravaggio è così: ogni canzone è un quadro, fotografa un’immagine ben precisa
che rimane impressa al nostro sguardo prima che al nostro udito, sembra di
vederle. Ma ogni canzone, al tempo stesso, sarebbe una perfetta colonna sonora.
Oppure è un film a sé stante, perché sono gli accordi e la complessità degli
arrangiamenti a costruire le immagini.
“Healing the leaders” è
forse il brano più legato al progressive-metal, con riff di chitarra che fanno
pensare ai Rush del periodo Counterparts, ma anche qui non mancano momenti più
delicati, affidati a un cantato intimista, al basso fretless e ad
armonizzazioni di gusto jazzistico; l’esplosione “corale” del ritornello è
davvero “cantabile” e cattura l’ascoltatore. In “Unlike dolphins” gli
effetti che filtrano la voce, il piano elettrico ovattato, gli arpeggi stoppati
della chitarra, offrono veramente una sensazione di “immerso”, di “subacqueo”
(e qui torniamo a quel concetto già espresso per il quale ogni loro canzone è
un film).
Un film che negli anni ‘60 si
sarebbe definito “peplum movie” è “Pompeii”, che in meno di due minuti e
mezzo di musica a base di bouzouki, rullanti marziali e coro ci fa
letteralmente sorvolare nei nostri sogni un anfiteatro.
L’andamento epico e solenne del
tipico metal-prog moderno lo ritroviamo in “Comfortable”, brano che
regala anche inaspettati momenti di recitato femminile in italiano (unica
parentesi dedicata alla nostra lingua).
Se poi volete mescolare ancora gli
ingredienti mettendoci qualcosa in più che non vi aspettate, arriva “Fix you”,
cover di uno dei più celebri brani dei Coldplay. L’arrangiamento destrutturato,
le languide chitarre slide, gli accenti spostati, ne farebbero ancora una volta
una perfetta colonna sonora: ma in questo caso la colonna sonora di un film in
cui la delicata malinconia della canzone originale cede il passo a una certa
malsana inquietudine.
E si conclude con “Life watching”, brano ancora una volta accattivante nella sua riuscita melodica, riuscito connubio tra il prog degli anni ‘70 (grazie a un sapiente e centellinato uso del flauto), quello degli ‘80 (il basso in evidenza, le chitarre avvolgenti) e di oggi (quel tocco metal che spesso contraddistingue la band).
I Caravaggio sono: Alessio Del
Ben (batteria), Fabio Troiani (chitarre), Vittorio Ballerio
(voce) e Marco Melloni (basso). A loro si uniscono in qualità di ospiti:
le cantanti Courtney Swain (dei Bent Knee, interessante progetto
jazz-prog da Boston) e Simona Aileen, il cantante Guido Block
(co-produttore, con Fabio, dell’album), i pianisti Antonio Zambrini
(famoso jazzista, qui in veste di flautista) e Massimo Mescia, i fisarmonicisti
Nadio Marenco, Mauro Poeda e Carmine Turilli (ben 3
strumentisti affidata alla fisarmonica, strumento effettivamente molto presente,
quasi un “marchio di fabbrica” di questo album), il percussionista Alex La
Bua, l’attrice Erika Carretta.
Non dimentichiamo Tracy Bell, inglese purosangue che ha revisionato la correttezza formale dei testi di Vittorio Ballerio e, infine, Gianfranco Ferlazzo, autore dello splendido quadro di copertina.
Per concludere, volendo proprio dare per forza delle etichette, i Caravaggio si riassumono come “progessive hard rock mediterraneo”. A noi personalmente piace di più descriverli come “EtnoRock pittorico espressionista”. Ma a che servono i nomi e i titoli? L’importante è ascoltarli! Lasciatevi rapire dal loro sound e precipiterete letteralmente in un film racchiuso dentro ogni traccia dell’album.
https://www.facebook.com/caravaggiotheband
https://www.instagram.com/caravaggiotheband/