In occasione dell’uscita del libro “Racconti e Schegge di Acqua Fragile - L’intensa vita di Gino Campanini”, Leandro Cioffi ha intervistato uno degli autori, Athos Enrile.
Il Prog Italiano è un inesauribile tesoro in cui, quando ci si tuffa, si rimane sempre arricchiti. L’uscita di “Racconti e Schegge di Acqua Fragile – L’intensa vita di Gino Campanini”, Ed. Arcana, apre degli scenari che vanno anche al di là della pura narrazione su una delle band più significative del pop, che vive oggi una seconda giovinezza. L’occasione è propizia per parlarne con Athos Enrile, autore del libro insieme ad Andrea Pintelli e Angelo De Negri.
Athos, spesso un libro nasce da un momento preciso: è stato così anche stavolta?
Sicuramente sì, e sarò lieto di raccontare la genesi di questo nuovo progetto, a mio giudizio curiosa, anche se mi pare doverosa una premessa. Facendo riferimento alla mia esperienza, non solo quella che riguarda le mie pubblicazioni, scrivere libri in questo ambito - musicale e affine - ha il solo obiettivo della condivisione di argomenti a cui si tiene particolarmente. Non ci saranno mai riconoscimenti economici e spesso neppure gratificazioni/soddisfazioni che superano gli aspetti materiali, ma scatta sempre un attimo, a volte cercato e altre no, in cui si decide di partire, quasi sempre senza conoscere o immaginare il possibile approdo.
In questo caso l’iter è stato davvero inusuale, con
un punto di accensione, la nascita di un’idea dopo molto tempo e una
conclusione, distanziata ancora di anni.
Di fatto questo libro è nato nove anni fa,
esattamente il 30 maggio del 2013, occasione in cui, proprio a Parma - gli Acqua
Fragile e parte della storia vedono proprio quella città come sottofondo - andava in
scena il VOX 40, concerto celebrativo dei 40 anni di attività di Bernardo
Lanzetti.
Io e Angelo De Negri eravamo presenti in quanto MAT2020 - il web magazine, a quei tempi appena nato - aveva dedicato all’evento un numero speciale e in aggiunta io avevo il compito di condurre la serata e riempire i vuoti che si generano sul palco quando ci sono cambi di set. A metà concerto proposi un’intervista ai componenti della band che non conoscevo personalmente, per cui mi ritrovai a chiacchierare con il bassista Franz Dondi, il batterista Pieremilio Canavera - entrambi ancora oggi presenti nel gruppo - il tastierista Maurizio Mori e… il chitarrista Gino Campanini, arrivato appositamente dalla Thailandia, luogo in cui da anni vive. Per capire il momento consiglio di dare una rapida occhiata all’intervista…
Appare palese come ci sia una persona che si disinteressa
completamente di quanto accade, che si sofferma sul pianoforte, che gira svagato
e forse infastidito, insomma, a disagio in quella situazione. Il suo nome è Gino
Campanini.
Passano ben quattro anni e nel 2017 Gino mi
contatta su facebook, scrivendomi il seguente messaggio: “Ho rivisto su youtube
casualmente l'intervista fatta all'Acqua Fragile nel 2013 a Parma in occasione
dei 40 anni di carriera di Bernardo Lanzetti. Io ero quello un po' a disagio,
che non ha mai parlato, primo perché sono negato ad esprimermi in pubblico,
secondo perché stavo covando la malattia che mi affligge e che, già allora, mi
induceva ad essere rigido e lento”.
A questo aggiungeva tutta la sua storia,
che aveva come apice una serie di concerti italiani che aprivano ai Rolling
Stones, in epoca pre-Acqua Fragile.
Pubblicai il suo racconto sul mio blog e tutto questo lo spinse a trovare coraggio e a propormi parte della sua biografia che aveva iniziato a scrivere. Capii subito l’importanza di quella storia, oltre l’elemento musicale, ma intuii anche che Gino, senza dirmelo esplicitamente, avrebbe voluto farne un libro.
Il materiale in quel momento era poco e quindi
lo spinsi a proseguire, ma onestamente avevo dei dubbi che il tutto avrebbe
potuto trovare finalità cartacea, perché è complicato interessare un editore su
un argomento così specifico e personale. Non gli ho mai promesso nulla, se non
un numero speciale digitale di MAT2020 a lui dedicato. Ma lui ha proseguito la
storia, sino ad arrivare ad un punto fermo, disegnando uno spazio temporale di
70 anni.
La magia l’ha compiuta Andrea Pintelli, anch’esso
collaboratore di MAT2020, uno che giocava in casa essendo anche lui di Parma. Tenace
come nessun altro, ha contatto, tirato le fila, fatto da trait d’union tra noi
autori, la band e l’editore e alla fine abbiamo trovato la quadratura del progetto.
Ma non poteva finire lì, occorreva realizzare un contesto appetibile per il
pubblico, e allora abbiamo puntato sulle “schegge di Acqua Fragile”, ma
sottolineo che non è un libro che indaga a fondo sulle vicende del gruppo, non
era quello l’intento, però ogni elemento trova il suo spazio, sino ad arrivare
al profumo di un nuovo album che uscirà forse in primavera.
Sintetizzando, sono passati nove anni dall’accensione della fiamma alla pubblicazione del libro!
Difficile trovare biografie in cui un intero gruppo si racconti nello stesso volume: come siete riusciti a quadrare il cerchio tu e i due coautori?
Evidenzio ancora come la vita dei membri
della band, così come le varie vicissitudini che hanno da sempre
contraddistinto le relazioni gruppali, sia rimasta in superficie, quasi un’appendice
alla storia di Campanini. Abbiamo scartato molto materiale perché la cosa
difficile era trovare l’equilibrio tra sfondo e focus, senza allargaci troppo
nelle analisi singole ma proponendo l’indispensabile per la comprensione.
Ci sono stati anche momenti difficili, in cui
fermarsi - è il mio pensiero - sembrava la cosa migliore da fare, ma l’ottimismo
di Pintelli ci ha spinto verso la conclusione.
C’è una cosa che cambierei se tornassi indietro, un aspetto che abbiamo forse sottovalutato ma non per volontà precisa, semplicemente non è stato compreso, e mi spiego: nel corso della presentazione del libro a Parma, il 3 dicembre scorso, Bernardo Lanzetti è intervenuto telefonicamente, essendo in quel momento in Sicilia. A domanda specifica relativa al suo gradimento del risultato finale una sua critica faceva riferimento al fatto che non è emersa la bravura di Gino come musicista e aggiungeva: “Iniziammo facendo cover complicate, quelle dei gruppi prog dell’epoca. Io per imparare un pezzo ci mettevo una settimana, lui … 2 ore!”. Ecco, questa abilità musicale di Gino nel book non emerge, ed è un peccato.
Una parola sulla suddivisione dei compiti: mentre io ho curato la storia di Gino e mi sono occupato della “zona Lanzetti”, Andrea Pintelli ha raccolto/creato l’altra documentazione - fotografie comprese, scelta non facile - tenendo le fila di tutto, anche la parte manageriale, non dimenticando che il suo piglio giornalistico è insuperabile. Angelo De Negri è da sempre la mente, il curatore dell’impianto, il grafico, l’equilibratore, la parte creativa e, così come faceva per MAT2020 - da lui ideato - ci ha permesso di realizzare un contenitore di qualità.
Il racconto di Gino Campanini fa la parte del leone e ipnotizza dalle prime battute: cosa hai provato nel trovarti tra le mani una fotografia così nitida di una vita e di un'epoca?
Come tu dici la biografia di Gino è il fulcro del libro, e delle oltre 300 pagine circa 180 sono dedicate a lui. Io l’ho vissuta a puntate, mano a mano che arrivava, e mi è capitato di aspettare con impazienza un nuovo invio per saperne di più, come quando hai tra le mani un giallo avvincente e non aspetti l’ora di vedere cosa accadrà nel capitolo successivo. Non una sola vita, ma tante vite messe assieme, partendo da un contesto che dall’esterno conoscevo, sino a situazioni impossibili da disegnare, se non da chi le ha vissute.
Gino ha una decina di anni più di me, ma
quegli anni ’70 di cui parla ampiamente li ho vissuti, seppur da adolescente, e
sono stato spettatore esterno di situazioni potenzialmente pericolose da cui mi
sono tenuto alla larga, privilegiando solo la musica e qualche aspetto esteriore,
come la bizzarria nel vestirsi e i capelli lunghi - che all’epoca avevo! L’anticonformismo,
la vita in comunione, la libertà sessuale, erano “insegnamenti” che arrivavano
da oltreoceano e che attecchirono facilmente, ma anche per essere liberi ci
vuole coraggio, e Gino di coraggio ne aveva, oltre ad un contesto di vita che non
aveva scelto lui ma si era trovato a gestire, tra follia giovanile e ambiente
propizio.
Nella revisione che ho fatto della storia - riguardata
e corretta mille volte - ho cercato di lasciare anche il gergo locale sperando
che anche lo stile riportasse all’anima di Gino Campanini che, non bisogna
dimenticarlo, è il vero autore della sua bio.
Per tornare alla tua domanda, devo dire che mi sono rivisto “bambino”, in coda davanti a un botteghino in attesa dell’acquisto di un biglietto per il concerto del momento, spiando il mondo proibito che mi circondava, attratto dalla diversità ma impaurito, tanto da mantenere la giusta distanza senza superare un limite che, purtroppo, molti miei conoscenti hanno superato.
Spesso si associa la creazione del prog a studenti borghesi: ma qui non si parla di nessun college, c’è vita reale cruda e avvincente come un grande romanzo, con la musica che lega tutto. Sei d’accordo?
Hai ragione, nel leggere le biografie dei
grandi gruppi prog inglesi si cade sempre sul livello culturale, sul tipo di
scolarizzazione - quasi sempre medio alta -, sulla capacità di creare musica
non solo grazie al talento personale ma anche per effetto di un’educazione
precisa. Mi sono sempre chiesto come sia stato possibile che il meglio della
musica progressiva - molto impegnativa dal punto di vista creativo - sia nato
in contemporanea, ma capace di esprimere caratteri completamente diversi, una
distinzione netta che si era, e si è, in grado di riconoscere dopo poche note.
In linea generale in Italia eravamo più
semplici, magari talentuosi, e se ci soffermiamo su A.F. troviamo nel solo
Lanzetti l’elemento di distacco, quello affascinato da tutti gli aspetti
artistici, studente adolescente negli USA, capace di esprimersi perfettamente
in lingua inglese e quindi appetibile per una PFM proiettata verso livelli
internazionali.
Gino era appunto un essere semplice, non certo
baciato dalla fortuna, ma talentuoso, un magnifico autodidatta che trovò nella
musica una via di uscita e una grande soddisfazione, ma sopraffatto dalla sua
voglia di vita e libertà, tanto che a un certo punto la sua amata musica
diventa solo effetto atmosfera, perché ci sono altre priorità da perseguire,
come la sopravvivenza, la sete di avventura, il sesso, la droga.
La sua vita è stata dura, e forse non aveva scelta, ma quella musica che ho evidenziato come “via d’uscita”, non era probabilmente abbastanza per fornirgli piena soddisfazione.
Leggendo mi sono imbattuto in circostanze così speciali che mi viene da chiederti: era un'epoca in cui davvero poteva accadere l'impossibile?
Siamo figli del momento che viviamo, del contesto
sociale, degli stimoli che ci arrivano dall’esterno. Una cosa che non ho mai
visto cambiare nel tempo è la necessità dei giovani di riconoscersi un gruppo
di riferimento, a scuola, nello sport, nel quotidiano.
Io sono molto critico relativamente a quanto
vedo oggi con i miei occhi, e avendo due figli giovani che ho sempre seguito,
posso parlare dell’argomento con cognizione di causa, senza essere
sociologo/filosofo/antropologo. Ma se ritorno con la mente a quei giorni - e quindi
alla tua domanda - devo dire che il passaggio dalla “normalità” di comportamento
degli anni Sessanta al nuovo modus giovanile che prendeva vita sulla scia della
“rivoluzione” del ’68, fu scioccante, soprattutto per genitori che, in tempi di
scarsa comunicazione, vedevano trasformazioni casalinghe di cui non capivano
nulla, ovviamente incapaci di gestirle, incuranti poi di pericoli che non avevano
idea esistessero. Non riesco a guardare serenamente a quel periodo se non facendo
riferimento alla Mia Musica, quella che non ho mai abbandonato, tanto da
cercare di diffonderla in tempi improbabili, ma se parliamo di stile di vita tendo
ad essere molto critico.
Sì, poteva accadere l’impossibile, nel senso che ogni nuova situazione appariva ingigantita dal fatto che era completamente differente dalla precedente e la trasformazione era rapidissima. Accade anche oggi, ovviamente, ma pare che ormai ci si sia abituati a tutto, e niente possa essere etichettato come “impossibile” o sorprendente!
C'è qualcosa nella vita di questa formazione o dei suoi componenti in cui tu in qualche modo ti rivedi?
Sono legato solidamente agli Acqua Fragile, e
ti spiego il motivo.
Io sono di Savona, e i primi e importanti
concerti adolescenziali a cui partecipai ebbero luogo a Genova, 45 chilometri
da casa, soprattutto al mitico Teatro Alcione che da tempo è stato sostituito da altre
opere edili. Parlo di Van der Graaf Generator, Banco, PFM e anche Gentle Giant.
Era l’ottobre del 1973, avevo 17 anni, i Gentle Giant erano appunto di scena, e io partecipai al concerto pomeridiano. Il gruppo “spalla” - termine usato all’epoca - erano gli A.F., nati da poco ma già noti ai seguaci del genere. Questa memoria così lontana mi ha legato per sempre alla band. Ricordo che quando conobbi Lanzetti, mi pare nel 2009, parlammo di quel giorno che lui ricordava benissimo per un siparietto simpatico che lo vide protagonista in contrapposizione ad un ragazzo tra il pubblico, fatto raccontato da Dondi nell’intervista video di cui sopra. Avendo poi collaborato con Bernardo - accade tutt’ora - seguire la storia, il presente e immaginare il futuro di A.F. è cosa naturale.
Tu sei sempre molto sensibile alla trasmissione delle conoscenze alle giovani generazioni: che insegnamento potrebbero ricavare dalla lettura?
La condivisione è da sempre il mio obiettivo,
la speranza che si possano affrontare argomenti antichi con curiosità e senza
preconcetti esiste sempre, ma se guardo ai fatti il mio ottimismo scema
facilmente. Almeno quando si parla di musica. Chi mi circonda - e parlo di
famiglia - si impegna nel cercare di farmi capire che non si possono imporre
gusti e scelte, che tutto cambia e ogni rappresentazione è figlia del tempo in
cui si vive ma, pur essendone consapevole, credo che il termine “vecchia”, se
si fa riferimento alla musica, serva solo eventualmente ad inquadrarne la
nascita ma non sia indicatore di qualità a prescindere, per cui provo in tutti
i modi a fare sharing, quotidianamente, con impegno.
Nel caso del libro di Campanini, direi che
siamo di fronte ad una possibile fruizione trasversale, un po' come leggere un
libro di storia, con fatti oggettivi che non si possono confutare, ma su cui si
può riflettere, essendo indicatori di un’era che non esiste più.
Mi pare possa essere una lettura didattica, a
patto che la si affronti in modo corretto e scevri da preconcetti, pronti a
modificare l’idea di ortodossia comportamentale.
Musica, certamente, ma tanta vita raccontata dall’interno, un percorso che, onestamente non avrei voluto vivere; ma non siamo padroni assoluti del nostro destino, indirizzato, almeno inizialmente, da fattori che non abbiamo la possibilità di scegliere e gestire.
C’è un valore aggiunto che nobilita l’acquisto di questo libro…
Alla presentazione ufficiale del 3 dicembre
Campanini non era presente, per ovvi problemi logistici, ma ha partecipato la
figlia Jennifer, testimone naturale in prima persona di parte di quell’esistenza.
A lei abbiamo chiesto una prefazione, che qualcuno ha giudicato l’episodio più
toccante del book, quello che in due pagine esprime la vera essenza di tutto il
lavoro. Ecco, io prenderei la sua visione e la condividerei in tutti quei contesti
in cui si cerca di indagare sul rapporto generazionale, in particolare sulla
relazione genitore/figli. I passaggi di vita raccontati da Jenny sono in
bilico tra l’esilerante e il drammatico, come quella volta in cui si accorse
della sua “diversità” quando si presentò ad una festa scolastica vestita da Boy
George, ignara della sua supposta “stranezza”, provocando sconcerto tra i
presenti. Non c’è rammarico nelle sue parole, ma la consapevolezza che tutto quanto
le è stato tolto da una conduzione di vita poco comune sia stato compensato
da alcuni valori indelebili che i suoi genitori sono stati in grado di
trasferirle, in primis il concetto di libertà.
Ecco, al di là del suo talento nello scrivere Jennifer è un esempio di come la vita possa condizionarti, ma il giudizio esterno alla fine ha poco valore; la tendenza riporta spesso al bispensiero di Orwel, al ricondurre tutto a quel modello che si rifà ad una supposta ortodossia, ma una mente libera è capace di giudicare e mettere in discussione l’indottrinamento, modificando il proprio comportamento di conseguenza. Questo per me è il valore aggiunto, arrivato solo all’ultimo e casualmente, ancora grazie ad Andrea Pintelli.
“È da
sempre l’arte, creazione per eccellenza, la strada per non distruggere”,
dice Jennifer Campanini, figlia di Gino, nella sua toccante introduzione.
E ai giorni
nostri il gruppo, riformatosi, crea la sua arte. Sarà anche Fragile, ma è
un’Acqua che non si ferma. Grazie Athos.
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