JON HASSELL - Vernal Equinox
(Lovely Music, 1977)
Di Riccardo Storti
Lo scorso 26 giugno 2021
ci ha lasciato Jon Hassell, una delle
figure più rilevanti dell'avanguardia musicale tardo-novecentesca.
Molti di noi conoscono
Hassell per il sodalizio con Brian Eno, ma la sua presenza in dischi di diversi
artisti (Tears for Fears, Alice, David Sylvian, Talking Heads e Peter Gabriel)
ha sempre conferito smalto prezioso alle composizioni registrate.
Hassell è prima di tutto
un trombettista sui generis e, come tale, il suo stesso apprendistato fa fugare
qualsiasi stereotipo di genere (musicale): "tromba" uguale
"jazz"? Ma anche no.
Lui è un americano a
Colonia che si forma con Stockhausen e che poi comincia a frequentare il giro
dei minimalisti conterranei, arrivando a suonare con Terry Riley. Si appassiona
alla musica indiana e, insieme a La Monte Young e a Riley, si reca addirittura
in India per studiare direttamente il repertorio del cantore pakistano Pandit
Pran Nath.
Ecco, questo sarà lo stimolo che darà vita al suo primo album Vernal Equinox il cui fascino persiste ancora fulgido a oltre quarant'anni dalla sua pubblicazione. Perché è un lavoro pressoché unico? Ma perché, intanto, Hassell, volendo imitare con la tromba i moduli canori dello stile di Pran Nath (il Kirana), filtra il suono del suo strumento attraverso effetti elettronici mai sentiti fino all'epoca. In studio con lui, diversi percussionisti (tra cui Naná Vasconcelos) e tastieristi (questi ultimi impegnati per un ulteriore gioco di atmosfere): un crocevia tra il passato di una tradizione musicale locale e il presente (o futuro) dell'elettronica. In realtà l'ispirazione indiana è solo lo starter perché la vision di Hassell va ben oltre, si riferisce ad una "musica del mondo" transfrontaliera che corre di latitudine in latitudine, dall'Africa (Blues Nile e Viva Shona) all'America Latina (Caracas Night September 11, 1975); insomma, ci sono già tutte le anticipazioni di quell'estetica del Fourth World di cui lui sarà teorico e pratico soprattutto dagli anni Ottanta in poi.
Vernal Equinox è un viaggio ma non per tutti, perché richiede un reale desiderio di fuggire verso altri spartiti; è già "ambient" dall'opener Toucan Ocean, sorta di abbondante specchio acqueo sonoro da cui fare salpare il nostro veliero acustico: la tromba di Hassell non suona ma canta e ci spinge fuori dal porto in alto mare. Anche in Viva Shona la sensazione canora dello strumento non muta, cambia invece lo sfondo percussivo che, non solo ci allontana dallo spazio, ma anche dal tempo, un po' come se stessimo seduti in una radura africana, attoniti a fissare la prima alba dopo il Big Bang. Si prosegue con Hex, dove percussioni idiofone sembrano quasi imitare un basso (ma, in realtà, Hassell racconta di essere stato ispirato da un rito voodoo a cui assistette in Colombia). Blues Nile è tenuto in piedi da un potente bordone di sintetizzatore su cui la tromba ricerca - quasi nell'accezione musicologica del termine - un tema da proporre, tra incredibili effetti di duplicazione del suono (quante consonanze tra questo prezzo e Return from Workuta degli Area).
La title track, con i
suoi 21 minuti e passa, occupa tutta la seconda facciata: un labirinto di climi
cangianti, dinamiche calcolate ed improvvisazioni di lungo corso; continuo e
mai sotto traccia l'ipnotico dialogo con le percussioni, mentre la tromba snoda
motivi da Oriente a Occidente nel sottoscala del sud del mondo, fondendo lo
spirito del raga indiano con la ciclicità corale di certe invenzioni vocali
africane. E, attenzione, qui la "voce" è sempre e solo una: quella
della tromba di Hassell.
Caracas Night September 11, 1975 è la porta d'uscita, un ritorno al presente, complice la cellula melodica
di note ravvicinate, quasi danzanti che richiamano, vagamente, alla musica
latino-americana, ma, probabilmente, è solo una suggestione nostra che lo
sciamano Hassell si perita di annebbiare in un notturno estivo in cui il canto
dei grilli nasce dall'approccio imitativo delle percussioni.
Arrivati a questo punto,
è chiaro il motivo per cui Brian Eno rimase sconvolto da questo disco. Una parafrasi
di una sua citazione vale più di qualsiasi congedo: "Questo disco mi
affascinò. Era onirico, strano e ricco di spunti meditativi. Un disco figlio
della musica indiana, africana e sudamericana ma anche legato al repertorio del
minimalismo tonale."
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