La triade classica dell’hard rock con radici blues rimane
comunque quella rappresentata da Led Zeppelin, Black Sabbath e Deep Purple. Nel
1969, dopo un loro concerto, a questi ultimi si era presentato un giovane
commesso chiamato David Coverdale, che chiese a Jon Lord di essere preso in
considerazione come vocalist del gruppo. Gli fu gentilmente risposto che i
Purple stavano provando Ian Gillan, il nuovo cantante, ma che, nel caso non
avesse funzionato con quest’ultimo, si sarebbero ricordati di lui. Invece
Gillan andò alla grande, fin quando, per puro caso, Coverdale diventò davvero
la voce dei Deep Purple, quando Ian lasciò la band, nel 1973. Ad ogni modo,
durante quel primo incontro, la band britannica aveva già sfornato tre dischi
ed una hit (“Hush”, grande successo negli USA) con Rod Evans alla voce e Nick
Simper al basso. Gli altri non erano comunque soddisfatti del corso intrapreso,
e decisero di sostituire Rod e Nick con due componenti degli Episode Six: Ian
Gillan, appunto, e Roger Glover. Oltre a Lord alle tastiere i Purple avevano
Ian Paice alla batteria (unico componente originario oggi rimasto del gruppo
originario) ed il talentuoso Ritchie Blackmore alla chitarra. Quest’ultimo
comunicò a Simper che, come bassista, Glover non era in realtà più bravo di
lui, ma che la decisione era ormai presa. E infatti, qualche anno dopo, lo
stesso Blackmore pose come condizione proprio che Roger Glover venisse a sua
volta sostituito, altrimenti avrebbe abbandonato egli stesso i Deep Purple. Ancora
prima di Coverdale, arrivò così Glenn Hughes, già cantante e bassista dei
Trapeze: Ritchie e gli altri andarono a vederlo mentre si esibiva, e gli gli
proposero di unirsi alla band. A Roger Glover cadde il mondo addosso, nel
momento in cui venne a sapere della sua estromissione, proprio quando la band
raggiungeva il massimo della sua popolarità. Per inciso Blackmore, che non
aveva nulla di personale contro Roger, non ebbe il coraggio di comunicargli la
sua esclusione, e fu uno dei due manager dei Purple ad assumersi l’onere. Glenn
Hughes aveva anche una voce strepitosa, ricca di “soul” e in grado di
raggiungere acuti impressionanti: avrebbe dunque potuto anche essere lui la
nuova voce della band. Si preferì comunque un cantante che, come Gillan,
potesse avere una bella immagine e nessuno strumento appeso al collo: Ritchie
avrebbe voluto Paul Rodgers, ma questi, dopo lo scioglimento dei Free, si era
ormai impegnato con i Bad Company (in seguito l’unica band di successo della
label “Swan Song” degli Zeppelin), e dunque “ripiegò” su David Coverdale, che
aveva una vocalità in qualche modo simile. Alla fine, con questa nuova formazione
(denominata Mark III), finirono per alternarsi alla voce (o ad unirsi ai cori)
sia Glenn che David, dal vivo come sui dischi del periodo ’74-’75 (“Burn”,
“Stormbringer” e “Come Taste the Band”). Se l’essenza più “funky” è documentata
soprattutto sul live “Made in Europe”, quella della precedente line up con
Gillan e Glover (Mark II ) è invece immortalata sul leggendario “Made in
Japan”, uno dei dischi dal vivo più celebri della storia del rock.
Paradossalmente, i Deep Purple non si resero subito conto del potenziale
straordinario di questo album, e quasi se ne disinteressarono : concessero che
venisse pubblicato solo in Giappone, e solo a patto che fossero utilizzati i
loro fonici (Martin Birch in particolare). Inoltre, il disco non sarebbe dovuto
uscire, se a loro non fosse piaciuto. Solo qualcuno della band, infine, si
degnò di partecipare ai missaggi. Le registrazioni erano state effettuate
durante tre spettacoli, tra Tokyo e Osaka, nell’estate del 1972, e catturavano
i Deep Purple al massimo del loro splendore: non appena “Made in Japan” venne
importato negli USA, poi, il gruppo esplose davvero. Si trattava quasi di un’esecuzione
live del disco, “Machine Head”, ma con
una potenza ed una personalità quasi sfacciata che sembrava sbattere in faccia
al mondo un perentorio “I più grandi di tutti siamo noi!”. La versione dal vivo
di “Smoke on the Water” divenne ancor più celebre di quella in studio, e questo
brano passò alla storia come il brano rock più famoso di sempre: l’essenza
stessa del rock, conosciuto praticamente da tutti. Il testo racconta la storia
di quel che successe effettivamente ai Purple: la band si era recata a
Montreaux, in Svizzera, per registrare quello che sarebbe divenuto “Machine
Head” (1971) con uno studio mobile, all’interno del Casino di Montecarlo.
Andarono a vedere Frank Zappa and The Mothers in quello stesso luogo, che era
anche una sala da concerto.
Ad un certo punto,
però, a qualcuno del pubblico venne la bella idea di lanciare un bengala (o
qualcosa del genere) verso il soffitto, e l’intero locale andò a fuoco, con
conseguente interruzione del concerto ed il generale “si salvi chi può”: i Deep
Purple non avevano più a disposizione la location nella quale registrare il
nuovo disco. Dalla finestra dell’albergo, poco tempo dopo, Ian Gillan si
ritrovò ad osservare mestamente il fumo (“Smoke”) del Casino andato in cenere
alzarsi sopra (“on”) le acque del lago (Water). Il gruppo non si perse d’animo
e registrò comunque il nuovo materiale, utilizzando lo stesso albergo nel quale
era alloggiato: i cavi dello studio mobile posteggiato all’esterno percorrevano
i corridoi, e nelle varie camere dell’hotel si piazzarono Lord, Paice, Gillan,
Glover e Blackmore, portando alla fine la registrazione del lavoro. Se Il primo
album con Ian Gillan alla voce (il concerto per gruppo e orchestra, registrato
e filmato alla prestigiosa Royal Albert Hall di Londra nel settembre del 1969)
non aveva permesso a Ian Gillan di esprimersi in tutta la sua potenza vocale,
con i successivi “In Rock”, “Fireball” e “Machine Head”, appunto, i Deep Purple
definirono il nuovo concetto di hard rock, estremo, ma contrappuntato da
momenti di grande classe, venato di blues, contaminato da influenze di musica
classica e caratterizzato da grandiosi momenti di pura improvvisazione, con lo
spettacolare e continuo incrociarsi tra la chitarra elettrica di Ritchie
Blackmore e l’ organo Hammond di Jon Lord. Sfortunatamente la magica alchimia
si ruppe quando i rapporti personali tra Ritchie e Gillan si guastarono: già
alla fine del ’72 il vocalist inviò una lettera ai manager Edwards e Coletta,
nella quale manifestava la sua intenzione di lasciare i Deep Purple: concluse
comunque il tour in corso (un po’ come avrebbe fatto in seguito Peter Gabriel
coi Genesis), e infine annunciò al pubblico giapponese (di nuovo!) che quello
che si era appena concluso era il suo ultimo show con la band. Ma quest’ultima
non poteva sciogliersi proprio mentre, specie dopo il sopracitato successo di
“Made in Japan”, era in classifica con più dischi e più singoli
contemporaneamente, all’apice del successo: Jon Lord, d’altra parte, affermò
che Gillan e Blackmore non potevano più stare non solo nello stesso gruppo, ma
neanche nella stessa città (!). E così, messo alla porta Roger Glover, e con
Ian Gillan dimissionario, i Purple si “reinventarono” con David Coverdale e Ian
Pace, sfornando l’ottimo “Burn”: l’unica testimonianza filmata di un concerto
con questa nuova line-up rimane l’incredibile partecipazione della band al
gigantesco festival americano denominato “California Jam”, con il nuovo disco
uscito da poche settimane ed il pubblico che avrebbe preferito vedere sul palco
Ian Gillan al posto dell’allora sconosciuto David Coverdale. Ritchie Blackmore,
inoltre, era nervoso, perché non avrebbe voluto esibirsi prima del calar del
sole, e non sopportava le telecamere sul palco, quando queste si avvicinavano
troppo: alla fine di Space Truckin’ ne prese una a colpi di chitarra, causandole
danni considerevoli, mentre una carica d’esplosivo esagerata concludeva il loro
pirotecnico (e comunque bellissimo show) mandando a fuoco mezzo palco con un
rumore assordante, che stordì gli stessi musicisti, rischiando anche di
arrostirli sul posto. La band scappò via con lo sceriffo della Contea alle
calcagna, e fu in grado di ripagare i danni provocati solo coi proventi che
ricevette in seguito per la concessione dei diritti TV (!). “Made in Europe”
avrebbe documentato invece gli ultimissimi concerti (aprile ’75) di Blackmore
con i Deep Purple degli anni ’70, prima della sua decisione di lasciare per
formare i Raimbow con Ronnie James Dio, il cantante degli Elf, gruppo spalla di
quegli ultimi Deep Purple. Oggi sembra impossibile pensare che un musicista
possa decidere di abbandonare un gruppo di quella levatura per lanciarsi in un
possibile salto nel buio: ma Blackmore era (ed è) un’artista, e lo stile che la
“sua” band stava ormai abbracciando collimava sempre meno con i suoi gusti: non
amava il “funky”, e questa componente stava prendendo più spazio tra le pieghe
della musica dei Purple: caratteristica che si sarebbe accentuata ancor di più
con l’arrivo del nuovo chitarrista, Tommy Bolin (già con Billy Cobham), nel
quale Hughes e Coverdale trovarono un ottimo alleato per il nuovo corso del
gruppo. “Come Taste The Band”, pur eccelso nella sua miscela di hard rock, soul
e funky, ai vecchi fans non sembrò neanche un disco dei Deep Purple. Né le cose
vennero facilitate dal fatto che Bolin dovesse spesso sentire urlare qualcuno
del pubblico che voleva Ritchie Blackmore sul palco. Ancora meno fu d’aiuto il
fatto che Tommy Bolin fosse tossicodipendente, particolare del quale gli altri
del gruppo, pur buoni bevitori, non erano a conoscenza. Iniziò male, e finì peggio: il disco non sfondò, il tour in
Giappone (degli ultimi mesi del ’75) vide un Tommy Bolin spesso in cattive
condizioni, e, in un caso, addirittura a rischio della vita (e comunque non in
condizione di suonare). Nel febbraio del ’76, durante il tour americano, i
Purple riuscirono a tornare a livelli accettabili. Ma poco dopo, in Patria, i
loro ultimi concerti finirono tra i fischi, e a Liverpool David Coverdale
lasciò il palco in lacrime. I Deep Purple si sciolsero, e Tommy Bolin morì a
causa di un overdose alla fine di quello stesso 1976: ancora una volta, un
talento che si butta via (come Paul Kossoff dei Free, e tanti altri). Blackmore
vinse la sua scommessa coi Raimbow, e Coverdale resuscitò alla grande con gli
Whitesnake (fra i quali militarono, fra l’altro, anche alcuni dei vecchi amici
dei Purple, a cominciare da Jon Lord). Ma, nel 1984, i tempi erano maturi per
un ritorno del gruppo nella formazione Mark II (quella di “Made in Japan”), con
il sorprendente “Perfect Strangers”. Il sottoscritto ha avuto modo di vedere
questi Deep Purple a Cava dei Tirreni nel 1988, e altre due volte in anni più
recenti. A parte una “temporanea estromissione” di Ian Gillan nel 1990, è stato
poi Blackmore ad abbandonare di nuovo il gruppo, nel bel mezzo del tour del
1993, costringendo i suoi compagni ad ingaggiare provvisoriamente Joe Satriani,
e, dal 1996 ad oggi, Steve Morse. Jon Lord ha dovuto lasciare i Purple per
motivi di salute all’inizio degli anni 2000. E tutti noi, purtroppo, nel corso
del 2012. Don Airey (già con Raimbow, Ozzy Osbourne e Jethro Tull) ha preso il
suo posto. Dei “vecchi” sono rimasti Ian Gillan, Roger Glover e Ian Paice. Una
storia ancora senza fine, a quanto pare, con dischi nuovi, concerti in tutto il
mondo e la riproposizione dei vecchi, immortali “cavalli di battaglia”.
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