Intervista a Gianni Leone, di Marco
Fratta
Articolo originale al seguente link:
Ciao Gianni, benvenuto
nella mia rubrica settimanale “Liriche Prog”. Recentemente ho scritto un’esegesi
poetica dell’Introduzione del disco Ys del tuo Balletto di Bronzo, che io stesso ho definito “la massima
espressione del Prog sperimentale italiano, un album che, mentre molti gruppi
del periodo stavano cercando di imitare i maestri britannici, ha creato una
rivoluzione sonora degna di girare al contrario i vettori della didattica”
(leggi Liriche Prog #18). Le musiche sono tutte di tua composizione. All’epoca,
quando il Progressive si chiamava ancora “Pop Italiano”, vi siete accorti
immediatamente di aver sfoderato un capolavoro? In quale modo venivano trattate
certe espressioni di massima avanguardia dal pubblico e dalla critica?
Noi ci sentivamo, eravamo ed eravamo considerati dei
marziani. Quando tu sei un adolescente è eccitante sentirti diverso, poi ognuno
segue la sua natura. Io da bambino volevo fare cose stravaganti, volevo andare
contro le convenzioni, ce l’ho nel sangue. Mi piaceva molto il dark prima
ancora che uscisse il dark. Mi travestivo, facevo cose folli, uscivo vestito da
vampiro, ero un ragazzino un po’ esaltato. La mia camera era tempestata di
teschi e bambole impiccate… e stiamo parlando di un bambino, poco più che un
bambino. Quella che per me può essere la normalità, per altri può sembrare
qualcosa di scandaloso, ma io sono semplicemente me stesso. All’epoca facevo
quello che mi andava di fare, anche perchè ero il più giovane di tutti. Il
Balletto di Bronzo, in piena crisi di identità dopo l’uscita di Sirio 2222,
venne a cercarmi proprio perchè avevo delle idee musicali pazzesche, così
influenzai il gruppo con il mio modo di essere dark. Ripeto: per me era tutto
normale, però mi rendevo conto di essere considerato un marziano. Io possiedo
un diario che aggiornavo molto spesso negli anni ’70 e posso dirti che
rileggendo le cose che scrivevo dopo i concerti c’è un elemento ricorrente,
ovvero che la gente mi sembrava “paralizzata” di fronte alle nostre
performance. Il pubblico non era sempre estroverso come si crede. Quando
suonavamo al Carta Vetrata di Bollate, tempio Prog del periodo, c’era un
pubblico talmente in balia delle droghe che alla fine di ogni brano rimaneva in
trance… specialmente dopo pezzi come Terzo Incontro, dove ci sono volutamente
delle parti psichedeliche e ipnotiche che, durante i live, protraevo
all’infinito con un solo di hammond. Perfino Ivan Cattaneo, nel 1973, rimase
scioccato dalla nostra immagine e dalla nostra proposta. Non trascurare che all’epoca
eravamo completamente disinteressati all’opinione altrui: ci bastava essere
consapevoli di fare la cosa giusta poiché stavamo esprimendo noi stessi. Io in
particolare ero al corrente della mia diversità e me ne vantavo. Non mi ponevo
proprio il problema di cosa dicesse la critica, anche perché le riviste
specializzate erano pochissime, si aveva la sensazione che fosse ancora tutto
da fare.
Con il disco “Vero”,
uscito a metà degli anni ’70, ti sei affermato come solista con lo pseudonimo
LeoNero. Le composizioni sono nate durante i tuoi numerosi viaggi in
Inghilterra e negli Stati Uniti, viaggi in cui hai avuto modo di suonare con i
grandi talenti del periodo e di frequentare il leggendario Hotel Chelsea. A
distanza di diversi decenni, ricordi con più emotività il geniale esordio con
il Balletto oppure l’eclettico percorso come solista?
È difficile dare una risposta poiché con il Balletto di
Bronzo feci un solo album, poi quando uscì il 45 giri con da un lato La tua
casa comoda e dall’altro Donna Vittoria decisi di diventare solista perché
suonai tutti gli strumenti, ad eccezione della batteria (suonata dal carissimo
amico Gianchi Stringa, il miglior batterista della mia vita). In
quell’occasione, contestualmente allo scioglimento del gruppo, capii che avrei
potuto fare tutto da solo. Fu quando Gianchi partì per l’Olanda che iniziai
concretamente a pensare a Vero, il mio primo album come LeoNero. Personalmente
rimasi così male per la fine del Balletto di Bronzo che inizialmente avevo
categoricamente deciso di non suonare più con altri musicisti: scelta che ho
coerentemente portato avanti sino agli inizi degli anni novanta. Con il
Balletto mi sentivo membro di un gruppo, era bella quell’atmosfera dell’uno per
tutti, tutti per uno, eravamo dei pionieri uniti dallo stesso obiettivo. Alcuni
brani di Vero come La discesa nel cervello, Il Castello e Tastiere isteriche
sono prettamente Prog e avevo iniziato a comporli per il nuovo disco del
Balletto che, malauguratamente, non è mai uscito. Non ho mai più ritrovato
nella mia vita quel meraviglioso impatto di salire sul palco in quattro, con
quell’energia e quella carica comunicativa. Dopo lo scioglimento ho sempre
avuto la sensazione di esibirmi da solo, nonostante le mie innumerevoli
collaborazioni. Il periodo LeoNero, questo va detto, mi ha dato la felicità di
sentirmi un artista completo, poiché mi occupavo delle composizioni, degli
arrangiamenti e dell’esecuzione in solitudine. Inoltre da solista ho percepito
una vera e propria evoluzione che si è sviluppata nel tempo. Negli anni ho
maturato una vena cantautorale di cui sono molto orgoglioso (sia chiaro: non
sto parlando di canzonette d’amore) e, onestamente, oggi mi piace considerarmi
più cantante che tastierista. Il disco Monitor, ad esempio, ha anticipato di
gran lunga il ritorno al revival anni ’60 che, in seguito, sarebbe stato
approfondito da Ivan Cattaneo: altro progresso sonoro che ho costruito da solo.
Tuttavia, per darti una risposta rigorosa, posso dirti che voglio essere
apprezzato artisticamente per quello che sono oggi. Non amo guardare al
passato, non mi piace soffermarmi sull’elemento “tempo” e detesto la nostalgia.
Vivo nel presente e del futuro non me ne frega niente perché potrebbe anche non
esserci.
Dopo lo scioglimento
del Balletto di Bronzo, negli anni della tua carriera da solista, hai raggiunto
i tuoi vecchi compagni del gruppo che avevano aperto uno studio di
registrazione a Stoccolma (Humlan). Da lì ti sei spostato a Vienna, prima
ancora nel profondo occidente e, come ben sappiamo, in Giappone: il paese che
attualmente sta valorizzando il Prog Italico più di qualunque altro. Quali
sensazioni porti dentro dopo tutte le tue esibizioni all’estero, sicuramente
più acclamate di quelle avvenute nell’ingrato stivale?
Le mie sensazioni sono mutate negli anni. Mi spiego meglio.
Nel ’99 uscì un cd del Balletto intitolato Trys: un gioco di parole tra trio e
Ys, in quanto a suonare con me sul disco e in concerto c’erano un bassista e un
batterista. Fu il primo cd del Balletto dopo lo scioglimento e venne pubblicato
dalla Mellow Records di Mauro Moroni. Poche settimane dopo l’uscita mi
arrabbiai moltissimo con il produttore poiché, a mio avviso, lui non stava
facendo nulla per pubblicizzare il lavoro. Così Moroni mi mise in contatto con
Robert LaDuca, organizzatore del NearFest, che ci invitò a suonare negli Stati
Uniti e, di lì a poco, fui contattato da molti altri organizzatori che ci
fecero esibire in Messico, in Cile, in Brasile e in Giappone. Ovunque, in ogni
angolo del mondo, la gente era incredibilmente entusiasta di assistere ai
nostri concerti. Allora io pensai: “dove eravate tutti?!”. Vidi per la prima
volta un caloroso pubblico che non sapevo di avere. Venivano a prenderci negli
aeroporti con le auto di lusso e le guardie del corpo, mentre i fan cercavano
di farsi autografare il vinile di Ys. Rimasi davvero sorpreso. Io per decenni
avevo completamente odiato la musica a causa degli scontri con quei beceri
sfruttatori italiani, con i viscidi produttori. Sono stato perfino molestato da
vecchi porci che volevano mettermi le mani addosso con la scusa di promettere
la produzione di un nuovo album. Per cui le mie sensazioni, in ordine, furono
la sorpresa, la gioia enorme e infine l’incazzatura: non facevo altro che
chiedere a quel nuovo pubblico dove diavolo fosse mentre io, in Italia, mi
lasciavo rosicchiare dagli imbroglioni. Considera anche che fino al 1995 non ho
percepito nemmeno una lira di diritti, poiché Ys era depositato in SIAE a nome
di Nora Mazzocchi (zia dell’ex cantante Marco Cecioni, n.d.r.). Il perchè
attualmente il Prog Italico sia apprezzato di più all’estero che a casa nostra
è un grande enigma; spesso rispondo a questa domanda dicendo che dobbiamo
rassegnarci perché siamo italiani, noi non abbiamo il Rock nella nostra
cultura. Siamo riusciti a dare una nostra interpretazione del Rock, che è
tuttora apprezzata in giro per il mondo, ma non lo abbiamo inventato. Ad
esempio nel brano Secondo Incontro, del quale ho completamente improvvisato la
melodia vocale in studio di registrazione, si sente molto l’identità melodica
del sound italiano: elemento di cui gli ascoltatori stranieri vanno pazzi,
mentre per noi è consuetudine. Tra l’altro, per concludere questa risposta,
lascia che ti faccia una confidenza: mi fa sorridere che alcuni gruppi di scalzacani
del Prog italiano, che all’epoca copiavano noi, oggi vanno a suonare in
Giappone e si fanno paragonare ai gruppi di Serie A, assurdità che
probabilmente dipende dall’idealizzazione: altro agente che senza dubbio gonfia
il gradimento mondiale per il nostro Prog.
Più volte, parlando
del Balletto di Bronzo con i veri intenditori del Prog, ho sentito citare un
casale di Rimini in cui il gruppo ha abitato nei tempi d’oro. Si raccontano
diversi aneddoti sulla quotidianità e sulle vicende che accadevano in quel
luogo… alcune molto pittoresche. Come era, o come voleva essere, lo spirito di
assoluta condivisione creato durante un’esperienza così singolare?
L’idea nacque da un’esigenza: noi eravamo napoletani ma
suonavamo molto spesso al nord. Quindi decidemmo di andare a vivere tutti
insieme in un punto geograficamente strategico. Inizialmente avevamo adocchiato
un castello alle porte di Milano, poi il progetto sfumò e ci trasferimmo quindi
nel casale di Rimini. Ricordo perfettamente che in quel periodo le discoteche
dell’Emilia Romagna facevano suonare i gruppi Progressive: una cosa del tutto
assurda se si pensa ai tempi moderni. Noi, i marziani, suonavamo nelle località
balneari ed eravamo sostenuti dalle major che ci proponevano contratti di
cinque anni. Un altro universo, in pratica, se ancora non ho reso l’idea. In
quel casale creammo il nostro mondo, una cosa impossibile da realizzare vivendo
separati. Purtroppo, però, in quei due anni trascorsi insieme ci lasciammo
rapire dalla totale follia. Il guaio, il disastro, fu che gli altri componenti
del gruppo portarono le loro dolcissime fidanzatine a vivere con noi. Noi
facevamo follie di ogni tipo e le ragazze avevano da ridire, poiché vivevano in
mezzo a gente che si bucava, che vomitava… ripeto, la follia totale. Viavai,
ladri, gente accampata, qualsiasi cosa, un manicomio da film che a me stava
bene, perché all’epoca ero affascinato da ogni esperienza estrema. Per me era
una via per rompere con le consuetudini, dato che fino ad allora ero stato una
specie di principino proveniente da una buona famiglia. Per me vivere così era
una protesta contro il bigottismo e le convenzioni. Ricordo che quando venne a
trovarci il Banco quello che rimase scioccato più di tutti fu Francesco Di
Giacomo, soprattutto perchè il batterista Gianchi gli si presentò indossando
gli slippini di una delle sue amanti ed anche perché io, già ateo convinto,
ruppi in mille pezzi la statuetta di una Madonnina che mia madre mi aveva
spedito insieme a dei viveri… immagini di inequivocabile e ostentata pazzia.
Non mangiavamo, non dormivamo: la missione era quella di spingerci oltre ogni
limite. Presto, ovviamente, gli eccessi divennero troppi e con questo stile di
vita uccidemmo la nostra creatività. Fortunatamente io ero immune ai danni creati
dalle fidanzatine, perché ho sempre orgogliosamente preferito la solitudine.
Diciamo che quelle ragazze, pensando alla storia dei Beatles, furono le nostre
Yoko Ono. Infine, esasperati, abbandonammo il casale e, come già si è detto, ci
separammo per sempre.
Dire “Rock
Progressive” oggi, stando alle collettive interpretazioni di cui mi sono
accorto in questi anni, significa citare la branchia più intellettuale del
Rock, la “musica difficile”, la maniera autoreferenziale di suonare in un certo
modo che, come nel Jazz, sembra far innamorare soltanto chi la suona. Eppure il
Pop Italiano, ai tempi d’oro, raggiungeva le piazze. Mi vengono in mente alcuni
eventi come Parco Lambro, oppure il concerto degli Area di fronte a centinaia
di “matti” in libertà per celebrare il successo del Decreto Basaglia… insomma:
tutto ciò mi fa pensare a qualcosa che appartenesse più alla gente che ai
salotti accademici. Secondo te che cosa ha costretto il Prog a limitarsi ad una
nicchia così ristretta, per giunta tenuta in piedi da ascoltatori di continenti
lontani anziché da noi che abbiamo partorito questa musica? Dove è inciampato
il potenziale comunicativo del Prog nostrano?
Non so dirti perchè. Ai festival Pop, dove c’erano folle
oceaniche, i giovani venivano a sentire la nostra musica poiché noi eravamo
l’alternativa alle canzonette commerciali. Probabilmente la colpa è nostra se
siamo diventati una nicchia così ristretta. Nel 2010 scrissi un articolo
intitolato “1975: fuga dal Progressive” in cui spiegai perché presi le distanze
da un certo Prog ampolloso, noioso, barocco e autoreferenziale. Iniziai ad
essere infastidito da una certa ostentazione… ad esempio da chi indossava
orribili mantelli, da chi si presentava sul palco con quarantasette tastiere,
da chi si prendeva terribilmente sul serio. Lungaggini, assoli chilometrici,
ridondanze: tutto ciò iniziò davvero a stufarmi. Inoltre i tempi, prima o poi,
cambiano. A me piace ricordare che la fine del Progressive coincise con
l’avvento di un genere musicale che sul momento disprezzai moltissimo per poi,
qualche anno dopo, cambiare idea: la disco music (quella ben suonata). Dopo
tante esagerazioni barocche arrivò finalmente la cassa in quattro e la proposta
non era niente male poiché i pezzi erano suonati dai musicisti, non dai dj. Infatti
molti batteristi, durante quel passaggio, si dettero una regolata perchè
capirono che si poteva fare a meno di loro usando la drum machine: una
trasformazione storica. Improvvisamente le ritmiche dei “batteristi frullatori”
mi suonarono vecchie e inascoltabili. Così, come io fuggii dal Progressive,
probabilmente anche il pubblico fece lo stesso per la voglia di andare in
discoteca a ballare, a rintracciare la spensieratezza senza più percepire la
musica come un qualcosa di pesante. In breve: arrivò l’edonismo, e non nego di
esserci andato anche io nelle discoteche a divertirmi. Oggi il Prog è tenuto in
piedi da due categorie di ascoltatori: i nostalgici e quelli che non hanno
vissuto gli anni ’70 ma che hanno compiuto un percorso di ascolto a ritroso…
sicuramente sottoposti ad un enorme pericolo di idealizzazione, come ho già
detto prima. Oggi non c’è assolutamente spazio per proporre il Prog; solamente
un paio di etichette irriducibili resistono, come la Black Widow o la Mellow
Records, ma gli altri discografici riderebbero in faccia ad un musicista
desideroso di incidere un disco dall’ascolto così difficile: questa è
completamente un’altra epoca.
Chris Cutler,
fondatore degli Henry Cow e della corrente RIO, durante uno dei primi concerti
diffuse un volantino con su scritto: “l’indipendenza è un primo passo valido
solo se seguirà la rivoluzione”. L’obiettivo era quello di creare un punto di
riferimento musicale per chi volesse emanciparsi dal business del mercato
discografico. Quale fu, a tuo avviso, il tassello mancante per trasformare gli
anni ’70 in un contesto di cambiamento permanente? Perchè dopo tutti quegli
sforzi arrivò la decadenza degli anni ’80, al di là del desiderio di edonismo?
In un certo senso ti ho già risposto, ma potrei approfondire dicendoti
che il Prog, per l’appunto, diventò una caricatura di se stesso: dannosa
involuzione che impedì significativamente al pubblico di sostenere la forte
passione manifestata nei seventies. A questo proposito, sempre parlando di come
i gruppi Prog siano diventati pesanti e presuntuosi, posso confidarti che ci
sono due caratteristiche del Balletto di Bronzo di cui sono sempre stato
orgoglioso e che gli altri gruppi non hanno mai avuto: il glamour e
l’autoironia. Dico glamour perché l’occhio vuole la sua parte (non ho mai
accettato quei gruppi che salgono sul palco vestiti come se fossero al
supermercato, poiché anche quella, a suo modo, è una bieca e inutile
ostentazione). Che tu lo voglia o meno, che tu ne sia consapevole o meno,
quando sali sul palco sei un artista e quindi devi offrire qualcosa anche sul
piano visivo.
Gianni… abbi pazienza,
ma questa risposta mi ha un po’ sconvolto. Voglio dire: io sono sempre stato
orgoglioso degli artisti Prog proprio perché hanno preso le distanze dal
“circo” del Rock’n Roll e da quei finti musicisti che puntano tutto
sull’immagine poiché non hanno nulla da dire…
Ma dai… ci siamo forse dimenticati di tutti quei sontuosi
travestimenti nei concerti Progressive?
No, ma un conto è
travestirsi sapendo suonare bene, un altro conto è travestirsi e basta…
Certo Marco, ma uno deve anche saper prendere le cose con
ironia e distacco. Nel momento in cui una persona un po’ egocentrica sale sul
palco è normale che voglia trasmettere il suo stile. Se hai un certo gusto
estetico ti viene spontaneo trattare il corpo umano come un qualcosa da
valorizzare. Considerare il proprio corpo come un’opera d’arte è un impulso
naturale, un mezzo espressivo. Bisogna imparare a distinguere. Se io vedo un
artista che ha storia, autorevolezza, bravura ma che cura anche il suo lato
estetico in un modo stimolante e originale io sono più soddisfatto. Perchè
limitarsi al solo strumento? Chi ha pagato il biglietto per venirti a sentire
vuole sognare. Poi è vero, c’è gente che fa canzonette insulse e insipide e
che, volendo comunicare con un pubblico di ragazzini, non cura affatto i
contenuti ma solo il look: su questo hai pienamente ragione. Ma si tratta di
fenomeni commerciali studiati a tavolino. Tuttavia, parlando degli anni ’80, mi
trovo costretto a ripetere che mentre venivano fuori quei tipi con i capelli
ossigenati che facevano musica orribile, il Prog si ostinava a diventare sempre
più serioso: fu quello il vero fallimento. Il concetto dell’esagerazione si
manifestò da entrambe le parti, seppur in modi diversi. Poi gli ambienti
musicali sono tanti e variegati. Il jazzista, ad esempio, va sul palco con i
pantalonacci sdruciti e il golfino sfilato ma va benissimo così, perchè ti fa
sognare attraverso quello che fa. Nel Jazz non c’è una tradizione visiva, nel
Rock invece sì… e non possiamo fare finta di niente. All’inizio degli anni ’70
io indossavo solo ed esclusivamente abiti di scena, anche per andare a fare la
spesa. Era la mia identità artistica e umana, non c’era finzione, non c’era il
personaggio. Ero io, ero così. Oggi è diverso, amo indossare qualsiasi cosa,
durante la quotidianità uso vestiti normali e per nulla eccentrici. Applico
sempre il mio buon gusto nella scelta degli indumenti, nonostante sia diventato
più semplice… ma il punto è che non mi sognerei mai di salire sul palco
abbigliato in modo quotidiano. Quando mi esibisco mi diverte indossare i
vestiti che io stesso disegno, perché rappresentano il mio stile e rafforzano
il mio messaggio. Tu puoi essere anche il brutto anatroccolo… ma sul palcoscenico
diventerai l’oscuro oggetto del desiderio del tuo pubblico. Come può farti
sognare un artista sciatto? A tutto questo aggiungi che, anche nella
quotidianità, gli inestetismi mi intristiscono: detesto vedere della gente
brutta, la bruttezza è una cosa che mi angoscia, sono ossessionato dal bello.
Alberto Gaviglio,
chitarrista della Locanda delle Fate, in un’intervista mi ha confidato di aver
rifiutato “l’operazione nostalgia del fenomeno reunion” poiché avrebbe
preferito comporre cose nuove anziché continuare a proporre sempre il solito
disco amato dai fan storici. Tu, che a 43 anni dell’uscita di Ys continui ad
eseguirlo interamente in ogni angolo del mondo, come ti poni di fronte a questa
affermazione? La tua è nostalgia o rinnovato godimento?
Come ti ho detto all’inizio non sono affatto una persona
nostalgica. Ho ricominciato a girare il mondo suonando Ys perché mi andava di
farlo. Era una sfida: nella maggior parte dei casi con il passare del tempo si
cambia in peggio, nel senso che solitamente si perdono la grinta e
l’entusiasmo, per me invece è stato il contrario. Sono cresciuto musicalmente,
soprattutto come cantante: non ho più la vocina che si sente nel disco… e tra
l’altro all’epoca non ero nemmeno in grado di fare un vibrato. Adesso posso
godere nuovamente di quelle musiche senza la minima ombra di nostalgia. Sono
d’accordissimo con Gaviglio e chiaramente sono alle prese con un rinnovato
godimento. Quando oggi suono i brani del Balletto (riarrangiati ma non
stravolti) godo molto, ma adoro anche rendermi eclettico. Spesso mi esibisco
come Gianni Leone e faccio brani dalla discografia del gruppo, alcuni dei miei
pezzi da solista e perfino delle cover. Mi diverto parecchio quando faccio I’ll
never love this way again di Dionne Warwick: proprio io, nemico dell’amore e da
sempre single convinto, ho inserito nel repertorio una canzone così dolce e
melensa. Infatti prendo pubblicamente le distanze dal testo: semplicemente mi
piace suonarlo e cantarlo e il pubblico apprezza la mia interpretazione, anche
perchè la eseguo nella sua tonalità originale e tutti rimangono colpiti da
questo. È una cosa che ha affascinato molto anche alcuni colleghi: noi a volte
ci riuniamo al Casanova, il locale del fonico del Banco, dove c’è un bel palco
e spesso capita di suonare insieme. Comunque confermo che la mia attuale
dimensione artistica è, a tutti gli effetti, un rinnovato godimento: tante
emozioni forti e indipendenza dall’opinione altrui. Quando uscì Trys la critica
si complimentò proprio perchè non ero scivolato nel revival. Senza stravolgere
il repertorio del Balletto ero riuscito ad emanciparmi dalle sonorità vecchie.
Ma in democrazia trovano spazio anche le coglionate: un giornalista, o meglio
un gatto morto, scrisse che avevo tradito il Progressive… ma quasi tutti,
fortunatamente, apprezzarono il mio spirito di ricerca e di innovazione.
Durante la telefonata
che ha preceduto questa intervista mi hai parlato dell’emancipazione sessuale e
dell’originalità stilistica degli anni ’70. Mi hai detto che sessualmente si
era molto più liberi quaranta anni fa e che, ormai, le manifestazioni di
protesta hanno perso qualunque valore poiché presto “anche le suore Orsoline
sfoggeranno dei tatuaggi”. Sono pienamente d’accordo con te ma, avendo vissuto
solamente una delle due epoche, mi appello alla tua esperienza: quali sono, a
tuo avviso, le motivazioni che hanno portato la società a numerosi cambiamenti
in peggio?
Anche questa non è una risposta facile da dare. Erano anni di
grandi fermenti, di rivoluzione, di femminismo, c’era una forte volontà di
andare contro le convenzioni. Quindi si andava allegri e sgallettati alla
ricerca del sesso libero, anche perchè non c’era il pericolo dell’AIDS. Il
rischio più grande era quello di contrarre la gonorrea… facilmente curabile con
una terapia antibiotica. Le nostre amiche andavano sulle spiagge pubbliche a
seno nudo, mentre oggi sembra di stare nel medioevo. I costumi non si sono
evoluti come si crede, in verità tutto è regredito. Nel 2015 non si dovrebbe
parlare di Gay Pride e di emancipazione della donna. C’è una massa becera di
gente che vuole continuare a vivere nel medioevo. C’era più libertà e più
apertura all’epoca, c’era una positiva atmosfera di promiscuità. Tutto iniziò a
finire quando prese piede la violenta propaganda mediatica contro l’AIDS
(giustissima, poiché ognuno di noi aveva degli amici morti per colpa di questa
malattia), infatti negli anni ’80 eravamo tutti un po’ terrorizzati. Ricordo
che rimasi sconvolto quando nel 1985 Fernando Aiuti disse che ci sarebbero voluti
almeno cinque anni per avere un vaccino: ne sono trascorsi trenta e di vaccino
ancora non se ne parla, ma almeno esistono dei farmaci che permettono di
monitorare a vita l’immonda infezione, mentre all’epoca si moriva.
Personalmente diventai il paladino del preservativo, andavo a distribuire i
condom alle feste. Lo spettro di questa infezione influenzò negativamente la
mia vita perchè molto presto, già quando nel ’70 arrivò in Italia il
documentario di Woodstock, avevo scoperto che la massima libertà poteva essere
la mia unica strada. Devo constatare con tristezza e disappunto che questi anni
duemila non sono assolutamente come li immaginavo. Speravo in una società
libera e liberata, invece vedo ancora molto bigottismo. Inoltre l’invasione
islamica è molto pericolosa dopo gli sforzi che abbiamo fatto negli anni ’70,
perché quella è una cultura che rischia di riportarci all’età delle caverne.
L’integralismo è molto pericoloso, in tutti i sensi. Mai abbassare la guardia:
bisogna scendere in piazza per ragioni vere, non come fanno gli ipocriti del
Family Day, che poi hanno l’amante oppure vanno a trans e minorenni… roba da
sputargli in faccia. Ed è meglio prendere le distanze anche da quei prelati
pedofili che gettano fango sugli omosessuali, forse perchè coltivano il
desiderio recondito di andarci loro al Gay Pride, magari con le chiappe al
vento e le piume di marabù, a differenza di molti gay assolutamente sobri. È
orrendo sentirsi repressi e discriminati fin dalla nascita: l’evoluzione della
società è l’unica via verso un cambiamento in positivo. Per questa ragione
cerco sempre di portare la gente in piazza con me.
Ci sono parecchi tuoi
aforismi che mi hanno sensibilmente colpito. Questo in particolare: “Gli occhi
della gente mi strisciano addosso e giorno dopo giorno mi sciupano: come
pioggia e vento con lavoro paziente e inesorabile erodono il fusto delle
marmoree colonne di un tempio antico e cancellano per sempre i lineamenti alle
statue millenarie”. Potresti spiegare ai lettori di Liriche Prog quale fu di
preciso l’inquietudine che ti portò a maturare questa affermazione?
Scrissi questo aforisma qualche decennio fa, non è recente,
ma già all’epoca avevo questa visione. Ci sono parecchie persone inutili e
dannose che mi fanno sentire vampirizzato, individui che sono accanto a noi. Ci
rubano la fiducia e le energie… insomma: parassiti. Potresti trovarti in mezzo
a gente apparentemente tranquilla, invece chissà quante insidie si nascondono
dietro quei volti. Sguardi che invece di arricchirti passano della carta
abrasiva sul tuo viso, fagotti che ingombrano il tuo cammino. Viviamo in una
società strana, sovraffollata e abbiamo paura di chiunque, perchè il nostro
vicino di casa potrebbe essere un serial killer ricercato. Per cui ci
proteggiamo, mettiamo le grate alla finestra, le saracinesche di metallo,
diffidiamo di ciascun essere umano. Con il tempo il perseverare di quegli
sguardi inutili può modificare la tua stessa fisionomia. L’aforisma è forse un
po’ immodesto, ma descrive benissimo lo stato d’animo che volevo trasmettere.
Mi è sempre piaciuto dimostrare di non essere proprio la persona più umile del
mondo, oppure autocelebrarmi, ma solo chi mi conosce bene coglie l’ironia di
questo atteggiamento. Chi non mi conosce, in genere, ritiene che io sia un
pavone pieno di sé. Negli anni, dopo aver maturato un grande senso
dell’umorismo, ho capito di potermi permettere un po’ di egocentrismo, spesso
autoironico. Forse è proprio grazie a questa consapevolezza del mio modo di
essere se sono riuscito a non farmi modificare da tutti quegli sguardi che,
anziché darmi qualcosa, cercavano di erodermi.
Ti saluto con una
domanda irriverente, forse troppo… ma muoio dalla voglia di fartela. Immagina
di trovarti a cena con tutte le personalità musicali che hanno abbandonato il
Prog per dedicarsi alla musica commerciale: Alan Sorrenti, Giancarlo Golzi,
Franco Battiato, i Pooh, eccetera. Tu duro e puro, fino alla fine, loro invece
in balia del compromesso. Cosa diresti loro apertamente, lasciandoti guidare
senza paura dall’amore per quella Musica che denigra il Dio Denaro?
Questa è divertente. Dunque. Per quanto riguarda Alan
Sorrenti ricordo di essere stato presente al suo primo exploit canoro in
assoluto; eravamo in un localino di Napoli, Le Lanterne, in cui mi esibivo
spesso con i Città Frontale (nucleo originaro degli Osanna, nonché il mio primo
complesso). Salì sul palco questo ragazzino ed eseguì Mr. Moonshine dei Fat
Mattress. Di lì a poco, per un periodo, lui ebbe il mio stesso produttore, tale
Corrado Bacchelli. Una sera, in occasione del Festival delle Avanguardie e
delle Nuove Tendenze allo stadio dei Marmi di Roma, si esibirono le migliori
band Prog della scena (era il 1972) tra cui, chiaramente, il Balletto. Ad un
tratto uscì sul palco Alan Sorrenti, con i capelli lunghi e un foulard legato
al manico della chitarra: fu sommerso da fischi e pernacchie e tornò dietro le
quinte a piangere sulla spalla di Corrado. Aveva stonato come nessun cantante
nella storia. Bacchelli lo portò in California e sparì per un po’… poi dopo qualche
anno venne fuori con Figli delle stelle e fu ripudiato da tutti gli estimatori
del Prog. La cosa non mi sconvolse più di tanto… ma ciò che mi creò disappunto
fu vedere che, per raggiungere meglio il suo nuovo pubblico e per accrescere
l’eco commerciale, accettò di fare il finto gay sotto la guida del suo nuovo
direttore artistico Cesare Zucca, che era omosessuale. E la cosa gli riuscì
decisamente male, si vedeva chiaramente quanto fosse artefatta la sua immagine.
Attualmente so che è tornato in Italia e sta facendo dei concerti un po’ ibridi
alla ricerca delle sue radici Prog. Sua sorella, Jenny, verrà con me a Tokyo il
prossimo luglio: io e lei ci siamo ritrovati dopo esserci persi di vista per
molto tempo e i rapporti sono ottimi. Giancarlo Golzi invece non lo conosco,
però con i Matia Bazar ha fatto delle cose non disprezzabili, ad eccezione di
qualche successo decisamente inascoltabile… ma massimo rispetto da parte mia.
Franco Battiato fece da spalla al Balletto di Bronzo nel 1973 con i brani di
Pollution. In quel periodo ero così pieno di me che non mi curavo di ascoltare
gli altri, davo per scontato che la loro proposta fosse più banale della mia.
Ero molto fanatico. Ricordo comunque che non mi colpì particolarmente. C’è da
dire che esteticamente la sua era una figura interessante, era un personaggio…
ma con l’invecchiamento si è preso troppo sul serio. Sale sul palco credendosi
una specie di santone. Ogni singola sillaba deve essere accompagnata da un
gesto ieratico… è un po’ eccessivo, diciamo così. Tuttavia ho apprezzato molto
la protesta contro la musica commerciale che ha condotto negli anni ’80. Dei
Pooh, per concludere, ricordo quell’estate in cui arrivò la voce che il
batterista de Il Punto, tale Stefano D’Orazio, era passato da Il Punto (quartetto
Prog romano) ai Pooh… ed io rimasi scandalizzato. In quel caso anche io
esclamai “costui ha tradito il Prog!”. Poi conoscevo anche Red Canzian perché
prima suonava con i Capsicum Red, gruppo con cui abbiamo condiviso diversi
palchi nei primi seventies. In generale posso dirti che non ho mai criticato
più di tanto chi è passato dal Prog alla musica commerciale, poiché
probabilmente si è trattato di un’esigenza espressiva che ciascuno di quegli
artisti coltivava da tempo… quindi è giusto che sia andata così. Loro fanno ciò
che vogliono fare, mi auguro che non sia solamente una schiavitù dal denaro. Ho
sempre sostenuto che in natura la gazzella rimane gazzella e il leone rimane
leone: per questo io non sono mai diventato come loro, nonostante mai nessuno mi
abbia dato un cachet da un milione di dollari… che accetterei e meriterei. Non
sono mai stato una mignotta della musica che prima di parlare della biscroma
pensava ai soldi, detto questo non critico coloro che hanno scelto una strada
più redditizia. Se io mi mettessi al pianoforte e mi venisse fuori una melodia
alla Ramazzotti mi autocensurerei, perchè ho un’altra sensibilità espressiva.
Infatti, come dico sempre a Gianchi, io oggi sarei un pessimo produttore,
perché solitamente i dischi italiani che scalano le classifiche non mi
piacciono: non potrei mai curarli, né sponsorizzarli, né metterci la faccia.
Gianni, grazie di
cuore per questa lunga e interessante chiacchierata. Buona musica!
Grazie a te Marco! Colgo l’occasione per segnalare ai lettori
di Liriche Prog un blog dedicato a me che si chiama ProgWalls, creato e curato
dal caro amico Beppe Carelli. Buona musica anche a te!
Marco Fratta
allblues_kind@yahoo.it
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