Coucou
Sèlavy
Cara
o Che?
Etichetta:
Edelweiss
Anno:
2015
Credits:
Tutte le voci e gli strumenti a cura di Coucou Sèlavy
Tracklist:
Moresca di Sèlavy
It's now or never
Gloomy sunday
Amsterdam
Feed the birds
Jolene
Bada
bambino, bada vampiro
Lili
Marleen
Dona
All I have to do
Litosfera
(il cielo in una stanza)
Circle
game
Maremma
amara
Musica
proibita (qui sotto il vidi ieri a passeggiar)
Durata:
68'19”
Genere:
Teatro canzone d'avanguardia
Voto:
/
Articolo
scritto da: Claudio Milano
Scratch My Back,
sentenzia Peter Gabriel, mentre Dylan canta Sinatra, Robert Plant, in occasione
della cerimonia di consegna dei Kennedy Center
Honors, piange a telecamere accese, durante l'esecuzione di Starway
to Heaven delle Heart (beh, del resto, cosa aspettarsi da un gruppo di
siffatto nome, se non l'induzione al palpito?). I King Crimson abbandonano le
improvvisazioni dal vivo su Live at Orpheum, per mostrarsi copia carbone
di sé stessi e non solo, scindono la formazione in un Giano Bifronte (l'altra
faccia, identica, è quella del Crimson ProjeKCt) che permetta a Pat Mastelotto
e Tony Levin di far soldi con lo stesso repertorio, in due formazioni
“diverse”, in due tour contemporanei.
Geniali. Ma non solo, Trey Gunn (del ProjeKCt), non pago di questo, fonda il
Security Project (qui almeno la “k” se l'è risparmiata), chiamando a corte un
clone di Gabriel, tale da aver cambiato nome di battesimo, per dar “lode” al
repertorio dell'ex Genesis. Solo per parlare di qualche nome ben noto, perché
la carovana del Tale e Quale Show, è talmente viva e radicata nella
nostra cultura, oggi, da lasciare un solo pensiero: la cultura occidentale è
morta. Se serve questo per farci sentire vivi, che davvero tutto finisca in fretta, assai in fretta, perché è uno
spettacolo nauseabondo.
Coucou Sélavy, celebra questa morte e
lo fa a modo suo, con naturale e irriverente grazia. Il geniale ricercatore
vocale, drammaturgo, regista, attore, poeta romano, dopo aver dato alle stampe
nel 2011 Rien Ne Va Plus: Differita Giocar, ordito assieme a Ladamerouge,
pubblica nel 2014, Cara o Che?, considerato a tutti gli effetti,
dall'autore stesso, sua prima opera effettiva e compiuta.
Il precedente, che mi piace
ricordare, era album tra carillon dolenti, field recordings, marce sbilenche,
archi sintetici da operetta da camera, grondanti romanticismo decadente,
elettronica ora inacidita, ora da suono puro, pianoforti neoclassici quanto
minimali e voci affastellate, in molti fantasmi di sé, a definire un'estetica
tra Grand Guignol, gioco e psicodramma. Qualche estratto da quel racconto già
vivo e carico di suggestione visiva e capacità d'evocazione.
La dolcezza di No, rien à dire: https://www.youtube.com/watch?v=B3vxwFKIcsY ,
pur accompagnata da suoni di voce gutturali e troncata con una violenza da
cesoia, tale da far davvero male; l'elegia farsesca e in qualche modo
autobiografica, di un Sisifo che “aveva cominciato a vomitare versi”: https://www.youtube.com/watch?v=u3UiRe6Lkns,
dove la bellezza grande della melodia, che sa elevare davvero lo spirito,
laddove poco altro può, si sposa a suoni vocali onomatopeici. Son rare davvero,
le composizioni che riescono a sposare forma canzone a classicismo con simile
potenza; lo struggimento senza fine della melodia balcanica di Lament,
che trova quiete nel mezzo per poi
sbattere la porta in faccia a un mondo rinnegato: https://www.youtube.com/watch?v=qJDq-v9nwGE .
L'apice, ma questa è solo un opinione personale, spetta forse a If I, the Branches and the
Night https://www.youtube.com/watch?v=_XOne4ts6ZE,
ballata di una bellezza luminosissima, appoggiata ad un palpitare elettronico
dal sapore nordico e aperture sinfoniche da brivido. Una brezza davvero, che
diventa violenza inflitta quando il canto, diviene in italiano e rivela la
necessità del decadere del tutto. Un gioiello.
L'assiduità del rapporto col mondo
teatrale, conduce l'artista, alla necessità di trasfigurare ulteriormente la
realtà attorno, approfondendo in maniera esponenziale lo studio del suono
vocale in ogni possibile esternazione, fino a farne, a mio avviso, tra i
massimi interpreti di teatro voce al mondo. Lontano da manicheismi, ma con
un'urgenza espressiva che travolge con audacia non “raccontabile”, ogni materia
affrontata, Sèlavy dà vita all'idea di un disco di canzoni talmente rimodellate
da divenire materia propria e non riconducibile alla fonte d'origine. Una sorta
di rievocazione di morti che furono, attraverso il canto di fantasmi che han
troppe memorie, per non confondere contorni e generare nuova sostanza. A
un'Europa che si celebra imitando sé stessa, l'artista romano, sostituisce la
contemporaneità a partire da macerie e il risultato, oltre che geniale, è un
capolavoro.
Le voci, s'imbevono di tonnellate di
riverberi, caratteristica che diventerà d'ora in poi cifra stilistica.
C'è gioco e dramma, come nell'incipit
di Moresca di Sèlavy, che da campionamenti, esplode in ritmiche
incalzanti, voci da basso e contralto, che più che esser ricercate, emergono da
chissà quali vite precedenti, come in una Terapia “R”eincarnazionista. E' come
se fosse la musica a cercare Sélavy e non viceversa. Esilarante It's Now or
Never, con testo che diviene in italiano, a raccontare storie d'amore e di
sangue. Suoni aspirati, profondamente gutturali, raschiati sino
all'impossibile, caratterizzazioni che raccolgono l'immaginario dei cartoon
s'alternano senza sosta a recitativi, che provengono da un luogo imprecisato
nel tempo e nello spazio. Gloomy Sunday, fa davvero spavento, assai più
di qualsiasi esecuzione della Galàs. Non me ne voglia (o me ne voglia, a suo
piacimento) Sèlavy, ma Amsterdam, è quanto di più emozionante emerga tra
questi solchi, al punto da farne la versione più bella che mi sia stata data
d'ascoltare. Qui, l'intensità è debordante, sostenuta da growling
devastanti/devastati, alternati a frequenze da mezzosoprano davvero impalpabili
e dà potenza al testo, rendendo il porto quello che davvero era e rimane
nell'immaginario collettivo, transito, illegalità, gloria che apparirà con
facce ben più pulite nelle dimore borghesi. Dall'elegia di Feed the Birds
e la fisicità di Jolene, si arriva al delizioso, cabaret di Bada
bambino, bada vampiro con la voce che indossa giocosi panni da crooner.
Carezzevolmente laida Lili Marleen, che nello spirito davvero richiama
bordelli e sadismi dittatoriali. Dona, recupera la tradizione del madrigale
italiano e lo fa con un cantar lirico multiottava d'una eleganza che non ha
possibili referenze nel mondo pop-rock tutto, perché proprio alle più nobili
voci operistiche della prima metà del '900 fa riferimento e non a chi già le ha
imitate a modo suo. Qui c'è un farsele risuonare dentro e addosso. Ripeto, la
sensazione più frequente, nell'ascolto e quello che Sèlavy sia più spesso
“tramite” di quanto esterni, più che artefice, secondo un'idealità
tardo-romantica, che onestamente credevo fosse estinta e che qui invece, canta
con tutti i fantasmi delle storie personali e non, che abbiamo, più o meno
coscientemente, attraversato. All I have to do, crea un bridge
vocale, tribale, sospeso, da incubo, laddove nella canzone originale, c'era
solo un accordo maggiore e va a dissolvere la sezione strumentale in flanger
reiterati pari a drones. Un'intuizione di pregio. Il Cielo in una Stanza,
diviene Litosfera e trasforma, lo spazio che più comune ci è, in un “non
luogo” dove orchi e fate disseminano un baluginio terrifico e incantevole, come
nell'ottica del più sublime dei romanticismi senza retorica. Contemporaneità
avanguardista tra le più grandi che mi sia stato dato d'ascoltare. Circle
Game è un riatterrare, un riorganizzarsi, tra architetture delle diverse
parti del sé che vanno ad armonizzarsi, come in un mosaico composto e fremente.
Bassi spaventosi arcaizzano Maremma amara, quasi a portarla in chissà
quale luogo assai ad Est d'Europa. Il tuonare della voce da basso profondo, in Musica
Proibita (qui sotto il vidi a passeggiar), s'accompagna a campionamenti di
tuoni dal cielo, mentre il pianoforte, muove un ondeggiare di speranze anelate,
ma che già si percepiscono perdute. Il finale sorprende per l'irrompere di una
sezione elettronica a richiamare un ensemble di musica antica. Non è solo
musica questa, è teatro, visione, scorrere a profusione di frame
cinematografici, tale da togliere il fiato.
Una delirante ghost track di
quasi otto minuti, decompone, ricompone tutta la materia affrontata, come nei
giochi di nastri di Pierre Schaeffer, in un vortice che sembra non solo
chiudere un disco, ma una vita. Come guardare un tir che ti viene addosso senza
avere la possibilità di sterzare.
No, non si deve parlare di questa
musica, solo viverla.
Al disco, fanno seguito numerosi
video on line che vanno ulteriormente ad indagare questo percorso. Tra
questi link, brani del disco e non:
Black is the color: https://www.youtube.com/watch?v=u0u2BWa1STM
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