Ma che musica maestro!
Intervista al filosofo
del pop Claudio Sottocornola sulla storia dei Festival italiani – dal Cantagiro
al Festivalbar – pensando a Sanremo 2016
Il 66° Festival di Sanremo incombe e invade i palinsesti,
entra nelle nostre case con i suoi big e le sue nuove proposte, con i grandi
ospiti (leggi Elton John e i Pooh, Ramazzotti, Elisa e la Pausini), con il suo
gossip e l’appeal di Madalina Ghenea, Virginia Raffaele e Gabriel Garko, Carlo
Conti a condurre i giochi. Al di là della sua progressiva trasformazione in un
grande contenitore televisivo, il Festival costituisce una delle poche vetrine
della musica leggera italiana rimaste, e ci è sembrato quindi interessante
avvicinare un esperto della canzone come il “filosofo del pop” Claudio Sottocornola,
che ha da poco pubblicato “Varietà” (Marna, 2016) una corposa antologia di
interviste ai divi storici della pop music italiana, da Mia Martini a Anna Oxa,
da Ivano Fossati a Paolo Conte, da Rita Pavone a Gianni Morandi, da Marco
Masini a Gianna Nannini, da Bruno Lauzi a Ornella Vanoni. Sua caratteristica è
di associare allo studio della cultura popular contemporanea (oltre alla
canzone, tv, cinema, media e spettacolo in genere), una dimensione espressiva
che lo ha portato a studiare e reinterpretare egli stesso la canzone pop, rock
e d’autore sia attraverso opere multimediali (cd, dvd, pendrive) sia attraverso
le sue ormai celeberrime e affollate lezioni concerto a tema, dagli anni ’60 ai
teenager, dall’immagine della donna ai cantautori, un mix di immagini, brani
musicali, riflessione filosofica e storica, performance dei suoi studenti fra
danza e recitazione. “Cantare mi ha aiutato a pensare in modo diverso – ci
confida – perché nell’emissione di una nota è possibile esprimere sentimenti
contrastanti, e quindi fare sintesi della complessità che ci avvolge”. A lui
abbiamo chiesto di guidarci in una rapida ma rigorosa indagine nella storia dei
Festival italiani, dal Cantagiro al Festivalbar, da “Un Disco per l’estate” a
“Canzonissima”, dal Festival di Napoli a
Castrocaro, sempre con un occhio a Sanremo 2016.
Qual è il ruolo della
canzone nella nostra società?
In un’epoca di crisi come quella che stiamo vivendo, in cui
si fatica a condividere un orizzonte comune di obiettivi e valori da
perseguire, la canzone, come espressione lirica e individuale, consente di
esprimere un punto di vista ermeneutico, cioè una interpretazione che, pur
radicandosi nella soggettività, diviene cassa di risonanza del mondo che sta
intorno, senza pretese di esaustività ma con un atteggiamento empatico e
inclusivo. E non è un caso che oggi si cerchi proprio nella musica quel che un
tempo si chiedeva al pensiero o alla letteratura: una visione di sintesi che ci
consenta di orientarci in una realtà sempre più frammentata e dispersa.
Che cosa pensa del
Festival di Sanremo?
Se parliamo di questa edizione, Carlo Conti è un abile
maestro di cerimonie e un buon conoscitore del pop. Miscelare Patty Pravo con
Arisa, Morgan e i Bluvertigo con i Dear Jack, Ruggeri con Elio e le Storie
Tese, Noemi con Rocco Hunt vuol dire avere il polso della situazione, almeno
per quel che riguarda il rapporto fra musica leggera e media. Diverse sono invece le considerazioni sulla capacità che il
Festival ha di riflettere una sensibilità condivisa e una identità comune:
questo era possibile negli anni ’60 e nei primi ’70, quando Sanremo sfornò divi
e canzoni da Festival sulla scia di grandi speranze e proiezioni collettive,
che facevano commuovere davanti al rimmel di Bobby Solo e alla sua “Una lacrima
sul viso”, alla ingenuità di un Paul Anka che cantava un vero inno
all’emigrante come “Ogni volta”, ma anche alla melodia un po’ zuccherosa e
comunque trascinante di “Il cuore è un zingaro” della coppia Nada-Di Bari. Tra
gli anni ’80 e ’90, con i passaggi di Vasco e Ramazzotti, della Oxa e della
Mannoia, di Mia Martini, Alice e
Loredana Bertè, c’è sì una rinascita della manifestazione, ma in un contesto
storico mutato, sino agli attuali scenari dove a prevalere sulla canzone è il format televisivo, e quindi i grandi
interessi degli sponsor.
Il connubio canzone
d’autore e gare canore non è mai stato vincente…
E’ vero, e lo testimonia drammaticamente il suicidio di Luigi
Tenco al Festival di Sanremo del 1967, seguito alla eliminazione dalla finale
del pezzo che cantava in coppia con Dalida, “Ciao amore ciao”. La “Rassegna
della canzone d’autore”, nata nel 1972 a Sanremo su iniziativa di Amilcare
Rambaldi, divenuta poi “Premio Tenco”, attribuisce ogni anno riconoscimenti a
quanti hanno contribuito alla crescita e diffusione della canzone d’autore nel
mondo, ed ha premiato personaggi del calibro di Sergio Endrigo, Leo Ferré,
Vinicius de Moraes, Jacques Brel, Dario Fo, Leonard Cohen. Ma è un dato che,
come manifestazione canora, non è mai riuscito a competere con i grandi
festival del popular, a mio parere anche perché un certo narcisismo
cantautorale impedisce di dar corso, sportivamente, a una vera gara canora, di
stampo nazionalpopolare. Ma forse è giusto così, e la cosiddetta “canzone
d’autore” (anche se io penso che ogni canzone ha un autore…), esige un ascolto
più olistico e globale (ad esempio l’album) di quello riservato ad una singola
canzone da festival.
Se dovesse votare la gara canora più bella dal punto di vista
della storia sociale e del costume italiano, quale sceglierebbe?
Senza ombra di dubbio il Cantagiro del periodo ’62-‘74, forse
perché non l’ho vissuta sulla mia pelle, ma solo nel ricordo che mi hanno
trasmesso filmati in bianco e nero delle teche Rai, in cui ritrovo però
qualcosa della mia infanzia anni ‘’60: le strade e le piazze assolate care a
Paolo Conte, l’atmosfera popolare e corale amata da Pasolini, i divi di
un’Italia in pieno volo (economico, sociale e culturale), come Little Tony, Morandi
e la Pavone, che volevano scrollarsi di dosso un clima statico e ingessato,
rivendicando il diritto ad essere protagonisti della propria vita. I divi pop
che giravano l’Italia in carovana sulle loro auto scoperte, circondati da una
folla ingenua e plaudente mi ricordano un Paese che non c’è più, perché non
sogna più. E in cui oggi la musica, al massimo, si ascolta agli auricolari, in
totale solitudine.
Potremmo pensare a quella grande manifestazione popolare che
è stato il Festivalbar come a un tentativo di rinverdire i fasti “on the road”
del Cantagiro o dei Festival di Sanremo
anni ’60?
Forse, ma le logiche sono diverse, decisamente orientate alla
promozione di un mercato discografico che, a partire dai meccanismi di
premiazione della gara, che si basa inizialmente sulla quantificazione degli
ascolti nei juke-box sparsi per la penisola, in realtà ratifica le capacità di
promozione delle grandi major. Il passaggio della gestione, negli anni ’80,
dalla Rai alle reti Fininvest, conferma la tendenza a rafforzare il connubio
fra discografia e business mediatico, tanto che diviene consueto l’uso
generalizzato del playback e la trasmissione in differita della gara, anche con
strisce quotidiane. Irreversibilmente, negli anni 2000 continua il declino sino
alla chiusura della manifestazione. Probabilmente, il merito maggiore del
Festivalbar è di avere lanciato conduttori come Fiorello e Alessia Marcuzzi,
Amadeus e Gerry Scotti, perché musicalmente il suo ruolo è stato quello di mera
ratifica dell’esistente in termini di produzione discografica standard.
Quale gara canora le
suscita maggiori ricordi e nostalgia?
Forse “Un Disco per l’estate”, nel periodo aureo, che va dal
1964 al 1975, quando le case discografiche inviavano alla Rai un numero di
canzoni proporzionale al loro mercato, che venivano trasmesse
per due mesi in apposite e quotidiane vetrine radiofoniche. Le canzoni più
votate dal pubblico attraverso l’invio di cartoline raggiungevano poi la finale in tre serate dal
Casinò di Saint Vincent, trasmessa dalla Rai. Lì trionfarono pezzi storici come
“Sei diventata nera” dei Marcellos Ferial, “Luglio” di Riccardo del Turco,
“Lady Barbara” di Renato dei Profeti. Mi ricordo, bambino e adolescente,
ascoltare la radio e tifare per i miei artisti preferiti, in un clima di attesa
che durava un’intera estate. La manifestazione, anche se è proseguita sino al
2003, ha poi perso gran parte del suo smalto.
Oltre al Festival di
Sanremo, quali sono state a suo parere le manifestazioni canore più
nazionalpopolari in Italia?
Senza dubbio “Canzonissima” che, abbinata alla Lotteria di
Capodanno, in seguito ribattezzata Lotteria Italia, e trasmessa il sabato sera
su Rai 1 dal 1956 al 1975, pur con denominazioni variabili, fu il primo esempio
di contenitore televisivo e al tempo stesso l’ultimo grande spettacolo di
varietà offerto dalla televisione in bianco e nero, in cui si alternavano a
sketch e balletti, numeri di comici e soubrette, ma soprattutto tante belle
canzoni, alcune note e altre nuove, che andavano a costituire una gara canora
fino all’ultimo sangue, con tanto di cartoline voto che arrivavano a milioni.
Fu lì che giocarono il proprio ruolo di soubrette e presentatori a tutto tondo
personaggi come la Carrà, Mina, Loretta Goggi, Franca Rame e Dario Fo, Corrado,
Pippo Baudo e Mike Bongiorno. E si ricordano ancora gli epici scontri canori
fra Villa, Morandi, Ranieri e Reitano… La sua chiusura lasciò tutti orfani,
tanto che la Rai la sostituì con uno show di varietà a tutto campo come
“Fantastico”, mentre il neonato Canale 5 ne cavò una specie di nuova versione
con “Premiatissima”, in onda dal 1982 al 1986, gara canora di straordinario
successo. Il Festival di Napoli, la cui età aurea va dal 1952 al 1971, con
riprese successive, nel 1981 e dal 1998 al 2004, valorizza invece canzone e
idioma regionali, ma di tale portata da avere addirittura una dimensione
internazionale, proprio come la grande canzone francese. Sulla scia del
successo dei café chantant parigini, che
avevano generato fra ‘800 e ‘900 una canzone di grande impatto melodico
e teatrale, Napoli vide presto un eccezionale connubio fra grande musica e ispirazione poetica dei vari Di Giacomo,
Bovio, E. A. Mario, Ernesto Murolo, Ferdinando Russo. E negli anni che videro
nascere Sanremo, la città del Vesuvio tentò di darsi un Festival degno della
propria tradizione, che tuttavia stentò sempre a decollare, anche se vide
passare il fior fiore degli artisti vernacolari, da Aurelio Fierro a Mirna
Doris, unitamente a glorie nazionali come Domenico Modugno e Ornella Vanoni.
Se i talent show di oggi costituiscono il più grande serbatoio
della canzone pop contemporanea, quali sono stati i precursori di queste
manifestazioni?
Per esempio il Concorso per Voci Nuove o Festival di
Castrocaro, che negli anni ’60 e ’70 lanciò personaggi del calibro di Gigliola
Cinquetti, Caterina Caselli, Carmen Villani, Luciana Turina, Iva Zanicchi,
Annarita Spinaci, Paolo Mengoli. Anche se la sua stella si è appannata, nei
decenni successivi sono comunque sfilati dalla manifestazione spiccando il volo
personaggi come Fiorella Mannoia, Alice, Luca Barbarossa, Zucchero Fornaciari.
Ma non dimentichiamo il Festival degli Sconosciuti di Ariccia, ideato dal
cantante e talent scout Teddy Reno nel lontano 1961, famoso per aver lanciato
nell’olimpo della musica leggera italiana Rita Pavone, poi moglie dell’organizzatore
e promotrice lei stessa della manifestazione, dalla quale passarono personaggi
come Dino e i Rokes, Claudio Baglioni e Marcella Bella, Mal e Ivan Cattaneo, Dario Gay e Titti
Bianchi.
La sua canzone da
Festival preferita?
Una canzoncina pop e quasi demenziale portata al Festival di
Sanremo nel 1966 dal gruppo musicale malgascio Les Surfs in coppia con Wilma
Goich, “In un fiore”, il cui ritornello suona come un mantra ipnotico: “Non sai
che in un fiore/ c’è un mondo pieno d’amore,/ non sai che nei miei occhi c’è/
amore per te…”. Ma altrettanto bella fu la loro versione, l’anno successivo, di
“Quando dico che ti amo”, in coppia con Annarita Spinaci, che si piazzò al
secondo posto, o la extrasanremese “If I had a hammer” di Trini Lopez, di cui
realizzarono una splendida cover. In realtà, ai miei occhi il fascino di questo
anomalo gruppo yé-yé era costituito dall’essere una grande famiglia di sei
fratellini molto giovani e con una sperduta aria di migranti ante litteram.
Speranze per il futuro?
Quella, irrealizzabile, di vedere un Festival di Sanremo così
popular da essere aperto a tutti, con
invio di canzoni di qualsiasi autore, con selezione di cantanti famosi o
sconosciuti, in una sorta di kermesse che dovrebbe coinvolgere selezioni lunghe
tutto un anno, e culminare in tre serate televisive solo musicali, all’insegna
di una ritrovata coralità del fare musica, di cui il nostro Paese avrebbe
davvero bisogno, anche come metafora di una rinascita sociale e culturale. Magari
con l’accoppiamento a big della grande canzone internazionale, che negli anni
’60 avevano i nomi di Louis Armstrong e Wilson Pickett, Shirley Bassey e Eartha
Kitt, Gene Pitney e Dionne Warwick, e si sforzavano di omaggiare la nostra
lingua cantando in un improbabile ma commovente italiano le canzoni in gara… Mentre
oggi assistiamo al trionfo di sponsor, vallette e spettacolo, dove la musica
rischia il ruolo di Cenerentola e, soprattutto, a trionfare sono le
“sorellastre” malvage, leggi audience, business ed esigenze mediatiche.
BIOGRAFIA
Claudio Sottocornola, ordinario di Filosofia e Storia, giornalista
pubblicista e docente di Storia della canzone e dello spettacolo presso la
“Terza Università” di Bergamo, si caratterizza per una forte attenzione alla categoria di “interpretazione”, alla
cui luce indaga il mondo del contemporaneo. Come filosofo utilizza musica,
poesia e immagine per parlare a un pubblico trasversale, nelle scuole, nei
teatri e nei più svariati luoghi del quotidiano.
Dalla metà degli
anni ’70 la sua attività culturale si caratterizza per una tenace ricerca poetica che ispirandosi
all’ermetismo assume le più disparate influenze, da Pavese a Prévert al cinema,
soprattutto dei grandi autori italiani, di cui Sottocornola è un attento
indagatore. Nella maturità frequenta particolarmente il “saggio mémoire” focalizzandosi su una ermeneutica con tre polarità
prevalenti: l’autobiografia intellettuale, l’analisi e rimodulazione dei
contenuti relativi alla tradizione spirituale occidentale, la cultura pop contemporanea, dal mondo della
canzone pop, rock e d’autore a quello della televisione e del cinema
È autore di opere poetiche (“Giovinezza… addio.
Diario di fine ’900 in versi”, “Nugae, nugellae, lampi”) e di percorsi artistici multimediali (“Eighties/laudes creaturarum’81” e “Il
giardino di mia madre e altri luoghi”), oggetto di grande attenzione e consenso
critico. Ha pubblicato saggi a tematica
filosofico-teologica, nei quali indaga la crisi del sacro nella società
contemporanea (“The gift”, la
quadrilogia “Il pane e i pesci”, “I trascendentali traditi”, “Stella polare”,
“Effatà”).
Ha fatto di un
approccio olistico e interdisciplinare al sapere la sua personale metodologia
di ricerca. Particolarmente famosi restano i suoi studi sul popular, pubblicati su svariate testate italiane, le sue lezioni-concerto (mix di
canzoni, analisi storico-sociale, immagini, poesie) sul territorio e nel web,
recentemente raccolte nel cofanetto in 5 dvd “Working Class”, e la trilogia
musicale “L’appuntamento”, in cd e dvd. Nel 2014 festeggia dieci anni di lezioni-concerto sul territorio con il
recital “Hasta siempre” e la pubblicazione su supporto USB di “Una notte in
Italia”, un archivio delle sue lezioni concerto arricchito di molti contenuti
speciali.
Nel 2015 la
prestigiosa rivista bucarestana “Contemporary Literary Horizon” lo omaggia con
la pubblicazione di “Fin de siècle”, silloge delle sue poesie in edizione
bilingue italiano-rumena, nell’autorevole collana internazionale “Aula Magna”.
La stampa italiana
lo ha soprannominato “il filosofo del
pop”, per sottolineare il suo interesse per la cultura contemporanea e
l’utilizzo di modalità espressive legate al mondo dello spettacolo, attraverso
le sue numerose e affollatissime performance live sul territorio.
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