Compie
gli anni oggi, 5 febbraio, Mauro Pagani.
Musicista
polistrumentista, arrangiatore, produttore, direttore artistico, autore di
colonne sonore, innovatore e ricercatore musicali... in parole povere un
"fenomeno".
Conosciuto
per aver fatto parte della Premiata Forneria Marconi e per aver collaborato con
Fabrizio de Andrè.
Buon
Compleanno Maestro
Wazza
Mentre attendo, in una sala di registrazione, l'arrivo di Mauro Pagani,
osservo un terzetto di giovani che sosta durante una pausa. Sono fonici e
missatori che lavorano alla registrazione di un nuovo disco. È un ambiente,
dalle cupe venature industriali, che Pagani ha rilevato una ventina di anni fa,
in un lembo della periferia milanese […]
«[…] Il Sessantotto servì anche ad adeguare i comportamenti sociali al
resto del mondo occidentale. Fu allora che cominciò a farsi strada la categoria
"giovani". La pubblicità, la moda, la politica, i beni culturali
avevano ignorato quella generazione uscita dal dopoguerra. Per me, che venivo
dalla provincia e mi ero trasferito a Milano, fu una svolta».
Dove è nato?
«A Chiari non distante da Brescia che per uno venuto da una piccolo
paese era il massimo della trasgressione. Sotto un cattolicesimo duro e
prospero Brescia alimentava inquietudini insospettabili. Negli anni Sessanta ci
fu il primo scandalo omosessuale. Rubricato come " balletti verdi".
Incombeva il "popolo della notte", con le prime drag queen, i
travestiti, e la moltiplicazione dei locali, dove la musica e il divertimento
sfondavano le prime ore dell' alba».
[…] «Negli anni mi feci una certa fama nel bresciano. […] Fu il periodo
dei night. […] Dormivo in una pensione frequentata da ballerine,
spogliarelliste, qualche ragazza di vita e un paio di papponi. La sera presto
mangiavamo tutti assieme. Il crooner in giacca di lamé, le puttane con le
parrucche color platino, gli stivaloni di plastica lucida e le minigonne, i
protettori con le camicie aderenti e i pantaloni attillati a zampa di
elefante».
Era quello il clima?
«[…] In quell' atmosfera di spavalda ruffianeria feci il mio
apprendistato. Corso Buenos Aires non era via Veneto ma sfavillava di mondi che
non si sarebbero mai incontrati di giorno. Erano gli anni in cui la malavita si
era iscritta all'anagrafe sotto il nome di Francis Turatello».
Lo ha conosciuto?
«Non personalmente. A volte si affacciava nel night dove lavoravo.
Ricordo un uomo piuttosto bello, con addosso un cappotto di cammello che gli
copriva le caviglie e un feltro grigio calato sulla testa. Entrava guardandosi
in giro, l'aria spavalda con due grossi ceffi che gli guardavano le spalle.
Quella Milano, contesa tra la banda di Turatello e i clan calabresi e
siciliani, si liquefece dopo l'attentato di Piazza Fontana. […] Per mia fortuna
nel 1970 entrai a far parte della Premiata Forneria Marconi».
Come fu l'impatto?
«Indolore, venivo da un' esperienza significativa, gli altri del gruppo
avevano fondato una band che si chiamava "Quelli" il cui successo
procedeva sulla falsariga di quei gruppi italiani che facevano cover. Ma erano
stanchi anche perché la vera innovazione musicale passava dai nuovi gruppi: i
Genesis e i Chicago. Cercavano un flauto o un violino e io suonavo entrambi».
Ma quel nome come è nato?
«Fu del tutto casuale. Nell'altro gruppo c'era un batterista che si
chiamava Marconi e la madre faceva la fornaia. A quanto pare tutte le cambiali
che i "Quelli" facevano, arrivavano a questa signora, l'unica a
possedere dei beni. Fu in omaggio a lei che trovammo il nome, aggiungendovi
"Premiata" per dargli il tocco della tradizione».
La Pfm è considerato uno dei grandi gruppi storici della musica
italiana: cosa vi contraddistinse?
«La piena adesione ai canoni internazionali. Credo di non esagerare
dicendo che fummo il solo gruppo italiano che sfondò in Inghilterra e negli
Usa. Fu Greg Lake, bassista e cantante degli Emerson, Lake & Palmer, che
dopo averci ascoltato in un concerto romano ci portò a Londra presentandoci al
produttore Pete Sinfield. […] Il successo arrivò quasi subito e la riprova
l'avemmo al Reading Festival, la più importante manifestazione rock. Quel
giorno, subito dopo di noi, suonarono i Genesis».
Come viveste questa consacrazione?
«In maniera frenetica. Ci chiamarono a suonare in tutta Europa e
finalmente si aprirono le porte dell'America. In tre tournée facemmo
all'incirca centosettanta concerti. Nelle prime due da supporto alle grandi
band, come i Beach Boys e i Santana. Un giornale americano scrisse che insieme
ai Led Zeppelin noi della Pfm eravamo la più interessante novità europea. Poi,
tutto a un tratto, perdemmo il biglietto vincente della lotteria».
Che cosa accadde?
«La nostra estrazione politica di estrema sinistra ci convinse a tenere
un concerto in California a favore dei palestinesi. Qualche giorno dopo
comparve su Billboard, una delle riviste più prestigiose, un articolo che,
partendo dalla prima pagina, stroncava la Pfm. Il nostro manager, Bill Graham,
lo stesso di Bob Dylan, che ci aveva guidati nelle tournée americane, era
costernato.
Ricordo una riunione drammatica che si concluse con una specie di
epitaffio di Bill: dimenticatevi la West Coast. Guardammo quell'uomo, di
origini tedesche, che aveva effettivamente fatto molto per noi, credendo nella
nostra musica, come qualcuno che ci risvegliava brutalmente da un sogno.
Qualcosa si era spezzato. Per fortuna, o forse no, cominciavo ad essere stufo
del rock».
Cosa non andava?
«Il rapporto liturgico con il pubblico somigliava sempre più a uno
stanco rituale. Avevo l'impressione che fossimo diventati solo un pretesto per
la gente che veniva ad ascoltarci. Oltretutto, il genere di musica che
suonavamo, il Progressive, stava esaurendosi. Il guaio è che non ce ne accorgevamo.
Almeno fino al momento in cui decisi di uscire dal gruppo. Era il 1976».
Ci fu allora l'incontro con Fabrizio De André?
«Avvenne un po' più tardi, quello che iniziai a fare fu ascoltare la
musica che proveniva dal Mediterraneo. Fu su questo sfondo di ricchezza
polifonica che in seguito sarebbe nato Creuza de ma. Fu un'esperienza che
risolse la mia inquietudine musicale di quegli anni».
Come vi conosceste con De André?
«La Pfm aveva in alcune occasioni collaborato con Fabrizio.
Poi ci perdemmo di vista salvo ritrovarci in uno studio di registrazione
a Carimate. Era il 1981, c' era già stato, un paio d' anni prima, il rapimento
suo e di Dori. Non vivevano più in Sardegna […]».
Fu un rapporto complicato?
«Direi di no. Lui era molto maniacale e pieno di dubbi […] Scrissi la
musica e gliela cantai in una specie di arabo finto. […] Per allentare una
certa tensione gli dissi che il tutto andava rivisto, aggiustato. Come se
volessi prevenire qualche sua critica. Lui mi guardò e poi disse "Belìn,
il disco si fa così!" […]».
Quanto tempo avete collaborato?
«All' incirca sedici anni. A un certo punto gli venne voglia di
collaborare con Ivano Fossati e a me di lavorare autonomamente. Poi, qualche
mese prima che morisse, prendemmo in considerazione un nuovo progetto comune».
Di cosa si trattava?
«Fabrizio voleva realizzare un disco sulla fine orribile dello scorso
secolo. Gli dissi: vuoi una musica solare? Scherzi, mi rispose, deve essere il
funerale del Novecento. Fu l'ultima volta che ci parlammo, come due amici che
avevano ritrovato una strada comune. La sua morte interruppe definitivamente
quel cammino».
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