KENYON BUNTON – “This Guy’s Disguised This
Sky”
Di Andrea Pintelli
La storia artistica di Keyton Bunton
inizia negli anni novanta, in Inghilterra, suo paese di origine. Dopo alcuni
esperimenti con varie band, tra cui i Cardiacs che
avevano avuto alcuni passaggi anche su MTV e BBC radio. Disilluso dalla scena
musicale londinese su cui di poggiava l’industria discografica dell’epoca, si
allontanò da essa, sia idealmente (restò alcuni anni lontano da quel mondo),
sia fisicamente, tant’è che ad un certo punto emigrò a Genova, culla del Prog nostrano
e dispensatrice di ispirazioni per lui importantissime. Da qui ricominciò a
scrivere e comporre la sua Musica, fatta di Canterbury sound, Van der Graaf
Generator, mescolati a suoni più moderni come Foo Fighter e certo altro driving
rock. Da buon intenditore era solito ascoltare Hawkwind, Henry Cow, Frank Zappa,
tanto quanto Black Flag e Sonic Youth. Questo
bagaglio culturale lo ritroviamo ben impresso negli album fin qui pubblicati.
Oggi prenderemo in esame “This Guy’s Disguised This Sky”, suo secondo
lavoro pubblicato pochi mesi fa dalla Standard Tuna Records. Personalmente ho
fatto fatica ad avvicinarmi a questo autore, perché distante dal mio sentire
(nonostante la mia versatilità), ma comunque andando ad analizzare questo disco
significativo, si può captare la ricerca di uno stile (magari non ancora
identificato appieno) e soprattutto la forza interpretativa che Bunton con
naturalezza infonde in ogni singolo brano.
“Seeing is Stealing”, prima
traccia, è un crescendo di chitarra a cui via via si associano gli altri
strumenti, creando una linea d’intermezzo quasi noise, per poi concludere in un
simil fuoco d’artificio stilistico. “Seeing Infinity” è corale, distante anni luce
dai personalismi pop che assillano il nostro oggi; quasi lirica, in un
movimento quasi sospeso fra la novità, lo psych folk e il cielo, trova nel suo
doppiare la voce una soluzione venuta da lontano: dagli anni settanta? Già. “Pass
the Salt” riprende alcuni stilemi tipici proprio del primo periodo degli anni
novanta e ciò infonde a tutto il pezzo una sensazione di tristezza che speri di
abbandonare ben presto. “The Sky ain’t Blue” finalmente porta ritmo al
percorso, qualche apertura in più rispetto ai precedenti tratti. Sembra essere
in un cerchio in cui non si riesce ad uscirne, il perdurare di certe melodie
portano a sensazioni monocordi e martellanti. Poi la svolta verso un eclettismo
più marcato, ed è lì che si alza l’asticella della creatività. Questa trovata
salva il brano. “This Guy’s Disguised This Sky”, che dà il titolo all’album, è
una camminata di sei minuti in un elettronico e buio mondo interiore, di cui il
titolo dice tutto. O quasi. Vorremmo essere altrove, siccome la difficoltà
d’ascolto è alta e l’immedesimarsi in questo “ragazzo” è pericolosa. Voci che
ci sorvolano, a volte attraversandoci, sostenute da un tappeto sonoro sinistro,
non sembrano essere amichevoli. “The End of a Superhero” riprende il lato più
Prog di Bunton, con un ampio spettro sonoro che tanto vuol urlare, per farci
sentire e vivere quello che l’autore sta respirando. Sperimentalismo, ma anche
capacità d’osare, ci regalano quello che è senza dubbio la miglior traccia del
disco. Senza ombra di dubbio. La sua voce posta all’inizio e alla fine,
racchiude un momento alto, intenso, sostenuto. “Waiting for a train” è
soprattutto eco di se stesso, capacità d’infondere il proprio lato più
romantico. Ripetizione del concetto che lui sta attendendo quel treno, ma
invano. Nera luce. Orizzonte lontanissimo, quasi rarefatto. “Summer Song” è un
pezzo di sentimentalismo messo in musica, una timida speranza sonora e d’idea
in mezzo a un oceano di fioca volontà di proseguire. Ma la sua forza è proprio
questa. Basta non lasciarsi coinvolgere. Riflessioni e pensieri svelati da
contraltare alla rarefatta fiammella dell’esistenza. Io l’Estate l’ho sempre
immaginata e vissuta da protagonista insieme al Sole, ai sorrisi e alle
avventure che profumano di gioia e nudità. Probabilmente non è così per tutti. Chiude
l’album “Waiting in the Rain”, che torna all’inizio del discorso in una
dimensione molto intima, quasi a volere preservare il lato più nascosto del
nostro musicista. Paure, timori, attese sono aspetti del quotidiano. Il
sopravvento non potranno mai averlo se ci si lancia nel mondo là fuori, da cui
bisogna a tutti i costi cavare e ricavare il meglio possibile. Anche in
presenza di negatività. Siamo noi che dobbiamo vincere. Siamo noi ad essere i
protagonisti della nostra strada, che andandosi ad intersecare con le altre non
deve comunque avere remore nel coinvolgerle nella bellezza. Bisogna osare,
bisogna (sor)volare, bisogna vivere.
Nel corso del 2019 saranno
pubblicati due nuovi lavori di Bunton: un cd live e il terzo cd di inediti, il
quale viene indicato come il suo miglior lavoro. A voi la scelta. Abbracci
diffusi.
Kenyon
Bunton - Voce, chitarra
Ackley
Stephen Alder - chitarraelettrica
Richard
Harris - Basso
Joanne
Johannsson - Tastiere, pianoforte, arrangiamenti
Donk
- Batteria, percussioni
Registrato a Bonkon Studios
Mastering fatto da Kyle Samgard a More
Peak For The Week Farm Studios
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