Paolo
Farina: “Provini per Colombini”
Di Alberto Sgarlato
Proviamo a immaginare le umane
vicende come un filo. Nella storia che andiamo a narrare oggi a uno dei due
capi di questo filo si trova Sandro Colombini. Nel 1969, a Milano, Colombini
fonda l’etichetta discografica Numero Uno, insieme a Lucio Battisti e Mariano
Rapetti (padre del paroliere Mogol e nonno del paroliere Cheope).
Nell’ambito del rock progressivo
italiano il nome di Sandro Colombini è associato soprattutto ai primi
tre album del Banco del Mutuo Soccorso, ad alcune opere della Pfm in momenti
diversi della loro carriera e al debutto omonimo dei Maxophone.
Ma è soprattutto nel mondo del
cantautorato che Colombini raggiunge le sue vette più importanti, collaborando
con nomi del calibro di Bruno Lauzi, Edoardo Bennato, Lucio Dalla, Ron,
Antonello Venditti e Lucio Quarantotto (quest’ultimo, tra l’altro, autore di
testi per Battiato, Caterina Caselli, oltre che delle liriche della celebre “Con
te partirò”, portata al successo da Bocelli).
Dall’altro capo di questo filo
troviamo Paolo Farina, che nel 1974 è un giovane artista di belle speranze
fermamente intenzionato a fare della musica la sua vita. Così, zaino in spalla
e chitarra a tracolla, abbandona la sua Puglia e risale tutto lo Stivale fino
alla città Meneghina per incontrare Colombini e sottoporgli alcune sue canzoni.
Certo, il produttore non può fare a meno di notare il talento e la determinazione di questo ragazzo. Eppure, non è convinto da alcuni dettagli: gli sembra che nei momenti più accorati dell’interpretazione la voce si faccia qui e là un po’ sguaiata, che l’accento pugliese prenda il sopravvento, così gli consiglia lezioni di canto e di dizione.
Oggi Farina ricorda così quei momenti: “Vivevo in una vecchia casa di ringhiera al terzo piano senza ascensore, senza riscaldamento e con i servizi igienici sul ballatoio, riuscivo a malapena a conciliare il pranzo con la cena e a coprirmi il minimo per sopravvivere ai gelidi inverni milanesi. Di certo non mi sarei potuto permettere delle lezioni. Però non attribuisco colpe a Sandro che, dal suo punto di vista, aveva ragione; inoltre, frequentandolo assiduamente per tre anni, dal ’74 al ’77, ho imparato da lui tante cose che poi mi sono tornate utili”.
Colombini riconosce del talento
autoriale in Farina e questo fa sì che scaturiscano alcune collaborazioni, tra
cui la richiesta di un testo per il già menzionato esordio dei Maxophone. Ne
nasce “Al mancato compleanno di una farfalla”, ancora oggi uno dei
titoli più amati e più ricordati dal pubblico della band.
Gli anni passano, la vita
continua. Da una parte Colombini prosegue a lavorare con la sua nutrita
scuderia di artisti. Dall’altra Paolo Farina non si disamora certo della
musica, al contrario: alimenta costantemente la sua curiosità e la sua sete di
conoscere stili e linguaggi di tutto il mondo, confrontandosi con essi. Il
progetto Etnoritmo, ad esempio, è un affascinante connubio tra etnica,
rock, reggae ed elettronica; con l’opera “Vallone Multiversi”, omaggio alla
memoria di Raf Vallone, Farina colleziona premi e riconoscimenti in diversi
eventi culturali italiani; la stessa cosa si può dire dei suoi due album “Canzoni
in blues”, volume 1 e volume 2, anch’essi apprezzati dalla critica.
Farina ritorna poi al suo
primigenio amore per il rock progressivo italiano con l’ottimo progetto Humana Prog
e l’album “Fiori frutti farfalle” (già nel titolo si nota una sorta di “continuità
storica” con quella canzone scritta per i Maxophone).
Ma quel filo, quel filo di cui
avevamo fatto accenno all’inizio dell’articolo, quel filo lungo 45 anni, non si
spezza. È infatti il 2020 quando, in piena pandemia, Paolo Farina ritrova le
registrazioni di quei demo (che poi la parola “demo” è venuta di moda dopo,
negli anni ’80, all’epoca si diceva semplicemente “provini”) che aveva portato
con sé in viaggio dalla Puglia a Milano.
Li riascolta, se ne innamora,
decide che non possono morire in un cassetto.
Ne nasce quindi un album il cui
titolo è già un manifesto programmatico: “Provini
per Colombini”. Come a voler dire: “Questo è. Di questo si
tratta. Prendere o lasciare”.
Già la copertina è come un morso
nel cuore di chi ha amato una certa epoca musicale: vediamo le foto di Paolo
Farina all’epoca, ragazzo, con i suoi capelli riccissimi, la sua barba, la sua
chitarra acustica. Il tempo le ha scolorite, basterebbero due “colpetti” con
Photoshop per tornare a valorizzare i chiaroscuri, le luci e le ombre. Ma è
proprio quello che l’autore non vuole: niente alchimie digitali, tutto deve
essere schietto e sincero come quei sogni di ragazzo del 1974.
Allo stesso modo la grafica
ricorda quella essenziale ma elegante diventata marchio di fabbrica del
compianto Gianni Sassi per la sua Cramps Record, con i titoli che sembrano
vergati dai colpi di una vecchia macchina da scrivere Olivetti Lettera 22.
I brani, ovviamente, per una questione di qualità sono stati re-incisi, ma con arrangiamenti minimalisti, essenziali, dominati dalla voce dell’autore e “conditi” da piccoli tocchi delle tastiere di Lele Battista (anche curatore della parte milanese delle registrazioni, mentre la parte a Castellana Grotte è ad opera di Giuseppe Mariani), delle chitarre acustiche di Andrea Manghisi e delle percussioni di Sandro Esposito. Accanto a questi collaboratori più o meno fissi in tutte o quasi le canzoni, troviamo poi degli ospiti occasionali nelle varie tracce: Ashanka Sen al sitar, Francesco Cardillo alla chitarra acustica, Mario Conte al flauto, Giuseppe Fiori al basso, Giuseppe Mariani al sintetizzatore e un coro formato da Vincenzo Aversa, Lory Coletti, Carlo Costante, Graziano Schena e Silvia Ignazzi. Il mastering finale è stato effettuato a Milano da Paolo Iafelice.
Ma veniamo dunque alla musica, 12
tracce per 47 minuti complessivi: sicuramente rispetto a quel severo giudizio
espresso da Colombini, tante cose sono cambiate. Non c’è dato sapere se nel
frattempo, effettivamente, il cantante abbia preso lezioni. Ma negli anni la
sua voce si è fatta più gentile, più aggraziata.
La prima traccia, di soli 40
secondi, strappa un sorriso: sembra quasi infatti che affettuosamente l’autore “si
prenda un po’ in giro da solo” raccontando, in forma di breve canzone
(intitolata appunto “Provini per Colombini”) tutta la storia che abbiamo
narrato all’inizio; le cose si fanno più serie con la successiva “Nello spazio di un incontro”, dal sapore un po’ di West Coast, un po’ di Crosby
Stills Nash & Young, ma anche con pungenti inserti di organo vagamente doorsiani.
La voce, dicevamo: ogni artista fa storia a sé, per cui è veramente difficile
fare paragoni. Si potrebbe dire, solo per il timbro acuto, squillante, che
Farina potrebbe ricordare remotamente un giovane Edoardo Bennato. Ma mentre il
cantautore napoletano ha sempre quel non so che di “acido”, di “arrabbiato”,
anche nelle sue canzoni più delicate, l’interpretazione di Farina è molto più “soft”.
Sempre facendo slalom tra i paragoni difficili, si potrebbe azzardare un
Claudio Rocchi o un Lino Vairetti che canta Bennato.
Ovviamente, essendo un’opera cantautorale,
ciò che spicca è la parte testuale. I brani che arrivano di più al cuore sono “Fa presto, treno!”, punteggiata da un delizioso registro di flauti del
Mellotron dalla cadenza beatlesiana, una storia di emigranti che, dopo un anno
di lavoro, non vedono l’ora di riabbracciare i parenti (Farina, lo ricordiamo,
è pugliese, ma quelle emozioni potrebbero essere riferite a tutti i lavoratori
calabresi, lucani, siculi, campani che all’epoca si spostavano verso le grandi fabbriche
del Nord); oppure “Sai che cos’è”, ironica serie di frecciatine contro i
peggiori luoghi comuni della società rivolti alla donna, al patriottismo, alla
droga (e quanto è rimasto tutto attuale ancora oggi!); oppure l’autobiografica “Avevo18 anni”; insomma: queste canzoni così intrise a tratti di folk, a tratti
di prog acustico, a tratti di psichedelia, colpiscono, impressionano,
commuovono.
E si arriva al termine dell’ascolto pensando che sì, alla fine aveva proprio ragione il buon Paolo: sarebbe stato un peccato lasciare quei nastri di provini a decomporsi in fondo a un cassetto. Così oggi, per parafrasare un suo titolo, non siamo qui a piangere “al mancato compleanno di un album cantautorale” ma siamo qui a celebrarne la legittima, seppur tardiva, rinascita.
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