Sykofant – “Sykofant”
(2024)
di Alberto Sgarlato
Chi segue le costanti evoluzioni e
trasformazioni del rock progressivo sa che da ben oltre due decenni a questa
parte a tenere ben saldo in mano lo scettro di una produzione monumentale,
eclettica e variegata è la Scandinavia.
Testimonianza palese è il calendario di
quest’anno del festival che si svolge a Veruno: su dodici band suddivise sul
main stage in tre giorni, delle quali 11 finora annunciate, 5 sono provenienti
dalla Penisola Scandinava: nello specifico, dalla Norvegia la proposta
eclettica dei Seven Impale, le suggestioni delicate e cameristiche dei Meer e
gli attesissimi Wobbler, richiesti a gran voce dai fans da diversi anni; dalla
Svezia il folk psichedelico degli Agusa e il power-trio dei Freak Kitchen.
E se vogliamo continuare a usare la kermesse
verunese come “termometro” delle moderne tendenze prog-rock, negli anni si sono
avvicendati sul palco gruppi più legati al romanticismo sinfonico, come Flower
Kings, Moon Safari e TangeKanic (fusione, quest’ultima, di Tangent e
Karmakanic), proposte più sperimentali, come Anekdoten e Anglagard, ma anche il
prog moderno dei Beardfish, l’eleganza gentile dei Dim Gray, il sanguigno
hard-psych degli Arabs in Aspic, il post-rock dei Gazpacho, il metal-prog dei
Pain of Salvation, solo per citare qualche esempio.
Per cui non è difficile immaginare che nel
cuore dei progsters ben presto troveranno posto anche i norvegesi Sykofant, appena giunti al loro album di esordio.
La mancanza delle tastiere in questo
quartetto lascia già intuire che la formazione è più interessata alle
evoluzioni maggiormente sanguigne ed energiche del vasto universo progressivo,
che non certo a quelle sinfoniche.
Sono invece due chitarre che reggono le varie
tessiture dei brani: quella del cantante solista Emil Moen e quella del
chitarrista principale Per Semb, anche backing vocalist, così come è
backing vocalist il bassista Sindre Haugen. Completa la formazione il
batterista Melvin Treider.
Ben un’ora circa di musica, suddivisa in sei
brani di varie lunghezze. Per esempio, si parte con i soli 4 minuti e mezzo di
“Pavement of colors”, la traccia più corta del disco, che dopo un inizio
quasi funky affidato a un basso mixato ben in primo piano e a chitarre asciutte
e veloci, di colpo rallenta e si dilata assumendo contorni quasi tra il grunge
e le desert session, verso un finale che si fa sempre più duro.
Supera invece i 12 minuti di durata “Between Air
and water”, con una introduzione affidata a chitarre slide dal sapore
floydiano. La quiete prima della tempesta dura circa quattro minuti, dopodiché
il brano assume i connotati di una vera “cavalcata” psichedelica. Lo spettro
dei Pink Floyd riaffiora nel solo chitarristico poco prima degli 8 minuti, per
poi portare tutta la traccia verso un epico crescendo finale degno a tratti dei
Muse.
“Monuments of Old” è una traccia di
elegante post-rock affidato a belle melodie chitarristiche, forse l’episodio
più melodico dell’intero album, pur con i cambi di climax tra atmosfere più
sottili e altre più hard che costituiscono la costante cifra stilistica della
band. Volendo per forza fare dei parallelismi, si potrebbe pensare a un mash-up
tra la Steve Rothery Band e i Rush di “Counterparts” per quanto riguarda le
parti strumentali, mentre il cantato è ancorato a doppio filo all’epica del
grunge.
Un gran lavoro di intrecci di arpeggi
chitarristici dal sound pulito e scintillante segna l’inizio di “Between the
moments”, l’unica altra traccia “compatta” del disco, con i suoi 5 minuti.
Anche in questo caso il concetto di “ballad” melodica dura lo spazio di un paio
di minuti, per poi evolversi in un complesso lavoro di riff di math-rock
eclettici e cangianti.
“Strangers” è cupa, granitica, solenne
nel suo incedere, un trait-d’union tra il prog-rock “matematico” e lo stoner
rock post-sabbathiano, con ricami chitarristici dal profumo esotico, quasi un
tocco di Ozric Tentacles che affiora tra i riff poderosi. Sembra quasi che il
brano si faccia sempre più congestionato, fino a un finale parossistico attorno
ai 7 minuti. Per poi riprendere, però, in una lunga coda impalpabile, eterea,
malinconica ma anche tenebrosa.
La chiusura del disco è affidata a una suite
da circa un quarto d’ora di durata, "Forgotten Paths", che inizia come una ballad profumata di
folk per poi evolversi in tutta quella serie di mutazioni alle quali la band ci
ha ormai abituato nel corso del disco: momenti arpeggiati più densi di
malinconia, assoli chitarristici di commovente intensità, riff complessi
costruiti su tempi composti, in un calderone nel quale hard, funk, prog,
psichedelia vanno costantemente a braccetto.
Insomma: se per voi il progressive rock non è affatto roba da favolette romantiche ma di questo genere preferite le incarnazioni meno sinfoniche e più dure, energiche, drammatiche (nell’etimologia greca di “Drama, dramatos”, cioè concentrato sull’azione), allora questo è l’album che fa al caso vostro.
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