YES
– THE CLASSIC TALES OF YES TOUR 2024
PADOVA
– GRAN TEATRO GEOX – 8 MAGGIO 2024
Di Evandro Piantelli
Dopo diversi rinvii dovuti
alla pandemia e, sembra, ad altri problemi organizzativi, finalmente questo
concerto, inizialmente previsto per il 2020, si è potuto tenere regolarmente.
Ed io, per una serie di motivi che vi spiegherò più avanti, mi sono lasciato
tentare ed ho preso il biglietto. Naturalmente vi racconterò nei dettagli
quello che ho visto e ho sentito. Ma prima, bisogna fare un salto indietro nel
tempo. Anzi, due.
NICE,
Palais des expositions – 20.07.1984
Il mio primo concerto degli Yes ha coinciso col tour promozionale del disco
“90125”, un lavoro rivoluzionario, che ha sorpreso i vecchi fan e ne ha regalati
al gruppo molti nuovi. Nel corso della serata la band (Jon Anderson – voce,
Trevor Rabin – chitarre, Tony Kaye – tastiere, Chris Squire – basso e Alan
White - batteria) aveva eseguito quasi interamente il nuovo disco (con l’hit Owner
of a lonely heart), oltre ad alcuni classici quali Yours is no disgrace,
Long distance runaround, And you and I, I’ve seen all good people,
Roundabout ed una versione “interstellare” di Starship trooper, con le luci ed i
laser che trasformavano il palco in una nave spaziale che decollava verso
l’infinito (ed oltre). Un concerto indimenticabile, che per anni è stato il mio
preferito fra le centinaia a cui ho assistito.
VADO
LIGURE, Stadio Chittolina – 12.07.2003
Con mia grande sorpresa, in
una calda serata di luglio di oltre 20 anni fa, gli Yes hanno tenuto un
concerto allo stadio comunale di Vado Ligure che, per chi non lo conoscesse, è
un piccolo comune vicino a Savona, a pochi chilometri da dove vivo. La band
aveva da poco pubblicato “Magnification”, un disco di prog sinfonico, ma la
cosa più interessante era che si presentava sul palco con una delle lineup più
amate della sua lunga storia, cioè quella di “Tales from topographic oceans” e
“Going for the one”, con Steve Hove – chitarre, Rick Wakeman – tastiere, Chris
Squire – basso, Alan White – batteria e Jon Anderson alla (sempre splendida)
voce. Concerto che ha visto la band proporre grandi classici quali, tra gli
altri, South side of the sky, Wonderous stories e uno dei miei
brani preferiti di sempre, Awaken, con un paio di pezzi tratti dal
lavoro più recente, cioè Magnification e In the presence of. Inutile
dire che, anche questo concerto, rimane tra quelli che ricordo con maggiore
affetto.
E veniamo quindi al concerto
di Padova ed ai motivi che mi hanno spinto ad andarci.
1.
La formazione. Dopo la scomparsa di Squire (2015)
e di White (2022) gli Yes si presentano con una formazione che vede Steve Howe
alle chitarre e voce, Geoff Downes alle tastiere (tornato negli Yes dopo averne
fatto parte nel 1980 ai tempi di “Drama”), Billy Sherwood al basso (che collabora
con la band da molti anni ed ha avuto il difficile compito di sostituire
l’immenso Squire), Jon Davison alla voce e chitarra acustica e Jay Schellen
alla batteria (che già da qualche anno affiancava ai tamburi Alan White).
Vorrei far notare che nessuno degli attuali componenti della band era presente
al concerto del 1984 ed il solo Howe era sul palco a Vado Ligure.
2.
Il nuovo disco. Nel 2023 gli Yes hanno
pubblicato con l’attuale formazione “Mirror to the sky” un lavoro piacevole e
onesto, che si ascolta volentieri e contiene al suo interno alcuni brani di
ottima fattura, tra i quali Cut from the stars e All connected.
Personalmente il disco mi è piaciuto e lo ritengo uno dei migliori pubblicati
da un po’ di tempo a questa parte, almeno dai tempi di “Fly from here” (2011).
3.
La scaletta. Ero molto curioso di scoprire
quali pezzi, nello sterminato repertorio della band, sarebbero stati proposti
nel corso della serata. Pezzi solo classici o anche pezzi dal nuovo album? E
tra i pezzi storici avremmo ascoltato i “soliti noti” oppure ci sarebbe stata
qualche sorpresa? Lo scoprirete presto perché adesso (qualcuno dirà:
“finalmente!”) inizia il vero racconto della serata. Mettetevi comodi, lo
spettacolo va a cominciare.
Il Gran Teatro Geox di
Padova ha tutte le caratteristiche che dovrebbe avere uno spazio per concerti:
è facilmente raggiungibile, ha un ampio parcheggio, l’acustica è eccellente e
le poltrone sono disposte in modo da assicurare un’ottima visibilità anche
dalle file posteriori. All’ingresso del teatro ci accoglie una mostra/mercato
di disegni numerati ed autografati da Roger Dean, lo straordinario artista che
ha realizzato buona parte delle copertine degli Yes (e di molti altri gruppi storici
del prog e non solo). Si tratta di lavori bellissimi ma, per il sottoscritto,
un po’ cari, perché i prezzi vanno dai 125 euro per un set di quattro disegni
poco più grandi di una cartolina ai 1.500 euro per i disegni delle copertine
dei dischi più famosi. Comunque, un bel benvenuto per i tanti appassionati
accorsi da tutta Italia e dall’estero.
Alle 21.15, puntualmente, si
spengono le luci e sale sul palco la band accolta dagli applausi di tutti i
presenti. L’inizio del concerto è a dir poco micidiale con una Machine
messiah da brividi, dove la chitarra di Howe ed il basso di Sherwood
dominano la scena con un botta e risposta che non lascia indifferenti. Segue It
will be a good day (da “The ladder” del 1999), un bel pezzo che mette in
evidenza le doti vocali di Davison, a cui seguono due super classici: Going
for the one e I’ve seen all good people. La band è affiatata e anche
Downes e l’ultimo arrivato Schellen paiono ben integrati nel combo. Il gruppo
propone poi una versione esclusivamente strumentale di America, un pezzo
di Paul Simon che il gruppo aveva pubblicato all’epoca solo in 45 giri.
Personalmente la scelta di tagliare la parte cantata non mi ha entusiasmato, ma
comunque il pezzo è bello. Seguono la dolce Time and a word e Don’t
kill the whale un pezzo che, ricorda Steve Howe, già negli anni ’70
anticipava temi ambientalisti. La prima parte del concerto (a cui seguirà una
pausa di una ventina di minuti) si chiude con il capolavoro Turn of the
century, un lungo brano tratto da “Going for the one” che, secondo molti
tra i presenti, da solo valeva il prezzo del biglietto. Dopo la pausa il
concerto è ripreso con South side of the sky (tratto da “Fragile” del
1972), seguita da Cut from the stars, unico trai pezzi eseguiti proveniente
da “Mirror to the sky”. Per concludere la seconda parte del concerto gli Yes
hanno scelto di proporre un Medley dei quattro brani che compongono “Tales from
topographic oceans” e cioè The revealing science of God/The remembering/The
ancient/Ritual (nous sommes du soleil). Questa proposta, a mio avviso, ha
rappresentato l’unico punto debole della serata, non tanto per l’esecuzione
(sempre perfetta) quanto per il modo in cui i pezzi sono stati cuciti insieme,
una specie di puzzle sonoro che mi ha lasciato un po’ perplesso. Dopo una breve
uscita la band è tornata sul palco per gli immancabili encore, eseguendo
una coinvolgente versione di Roundabout e salutando il pubblico con una
sempre bellissima Starship trooper (questa volta senza astronave).
Cosa possiamo dire di questo concerto? Bella scelta di brani, esecuzione con pochissime sbavature, band affiatata, performance nel complesso godibile. Certo, qualcuno si chiederà se è giusto che si chiamino Yes o se non sarebbe più corretto The Steve Howe band. È difficile rispondere a questa domanda, ma se ci guardiamo intorno sono molte le band dove è rimasto solo uno dei componenti storici, ma che continuano a fare dischi e concerti con la denominazione originaria (tra quelli che ho visto mi vengono in mente PFM, Uriah Heep e Hawkwind, ma ce ne sono molti altri), per non parlare dei gruppi dove non c’è più nessuno dei membri storici. Ma qui ci sarebbe da aprire un capitolo che va oltre la recensione del concerto.
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