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domenica 28 marzo 2021

Raven Sad: “The leaf and the wing”, di Alberto Sgarlato


Raven Sad: “The leaf and the wing”

(Lizard records, 2021)

Di Alberto Sgarlato

Sicuramente questo quarto capitolo nella saga del “Corvo triste”, pubblicato il 3 febbraio di quest’anno, è stato uno degli album più attesi dai fruitori del rock progressivo italiano. Il “patron” dell’intero progetto, il chitarrista Samuele Santanna, con quel mix di saggezza e prudenza che lo contraddistingue, ha saputo sapientemente centellinare gli “indizi” sulla rinascita di questa formazione che tutti pensavamo avesse accantonato: dapprima con alcuni post criptici sulla possibile rinascita, poi con le foto che ufficializzavano il ritorno in sala prove della band e poi creando un’aspettativa sempre maggiore: i brevissimi clip in studio di registrazione piazzati sui social, la presentazione della copertina, i singoli pubblicati a distanza di tempo.

Ecco, il tempo: dieci anni esatti sono quelli intercorsi dal precedente “Layers of stratosphere” del 2011, uscito sempre per Lizard. Di quella formazione, accanto al “Re Corvo Triste” Samuele Santanna, che gestisce tutte le chitarre, ritroviamo solo il fidato tastierista Fabrizio Trinci. I nuovi acquisti sono Marco Geri al basso e Francesco Carnesecchi dietro il kit di pelli, fusti e piatti.

Ma il cambiamento più significativo della formazione sta nella decisione di Santanna di non accollarsi più l’impegno anche delle parti vocali. Nel precedente “Layers” la sua voce aveva raggiunto la piena maturità: era calda, profonda, cupa, avvolgente, a cavallo tra il Fish delle ultime prove soliste (certi brani dell’album 13th Star soprattutto) e il David Sylvian del periodo Rain Tree Crow.

Ora invece entra in scena (e ne abbiamo potuto apprezzare le qualità già nei singoli) Gabriele Marconcini (autore, tra l’altro, anche di diverse foto del booklet del disco, mentre il già citato tastierista Trinci ha curato anche le opere di editing grafico).

Se il timbro intimista di Santanna era perfetto per raccontare le vicende personali e a tratti anche dolorose del precedente disco, l’esuberanza più “flamboyante” di Marconcini è il tocco ideale per il nuovo corso della band. No, calma: adesso, detta così, magari chi legge potrebbe pensare a una svolta votata al power metal estremo o al punk rabbioso.

 

Si scherza, naturalmente: gli ingredienti che hanno fatto grande il sound Raven Sad nei dischi precedenti ci sono ancora tutti. Forte impatto melodico, bellezza delle atmosfere, infinita dolcezza e soprattutto una classe che stacca di diverse lunghezze tante formazioni contemporanee italiane e internazionali. Ma la musica si è evoluta rispetto alle prime due pubblicazioni, quando Santanna era praticamente un “one man band” con ospiti e sperimentava più tra i loop cosmici degli Ozric e dei Gong, l’alternative rock dei primissimi Porcupine Tree e una certa new age elettronica di talune produzioni di Mike Oldfield.

Ora la direzione intrapresa è quella di un rock progressivo sempre molto melodico e romantico, ma più corposo, maestoso, dalle orchestrazioni solenni e dal drumming mixato alto e potente a scandire i vari momenti delle lunghe tracce.

Dopo i due minuti scarsi di Legend #1, strumentale rumorista che di fatto rappresenta l’ultimo vero legame col passato ravensadiano, ci pensano i dieci minuti circa ciascuno dei due singoli divulgati con ampio anticipo, cioè “The sadness of the raven” e “City lights and desert dark” a mettere le cose in chiaro. Nel primo dei due l’omaggio di Santanna al più grande amore musicale della sua vita, i Pink Floyd, è palese, ma filtrato attraverso l’innovazione portata nei decenni successivi dalla “triade neoromantica britannica” Marillion-Pendragon-Iq, e soprattutto con la nota personale data dalla bella voce di Marconcini. Nel secondo di questi due singoli gli arpeggi si fanno più taglienti, i toni più oscuri e l’interpretazione della voce e della band, complici anche dei bei ritmi “spigolosi”, ci porta più verso il metal-prog di classe di nomi storici come Queensryche e Fates Warning.

Un tocco di metal, ma soprattutto tantissimo neo-prog: e così i 13 minuti di Colorbox, tra cambi di tempo repentini, arpeggi di piano, Hammond che ruggiscono sullo sfondo, ci sposta di colpo nei territori dei Flower Kings e dei Transatlantic. Ma naturalmente, come nei dischi precedenti, a svettare su tutti gli arrangiamenti è sempre il tocco chitarristico di Samuele Santanna: la “chitarra perfetta”, sia consentito dire. Il suono è limpido e definito in ogni nota, nei passaggi più veloci come in quelli più carichi di pathos, dal lungo sustain; la produzione della chitarra è sublime; gli arpeggi e i “ricami” sono sempre imprevedibili, mai banali, non c’è niente per riempire senza un senso ben preciso, ogni passaggio è piazzato dove non te lo aspetti, per movimentare, arricchire, impreziosire.

I circa 9 minuti di strumentale al centro del disco, Approaching the chaos, con la chitarra che ancora una volta svetta, con le melodie esotiche e arabeggianti e con gli arpeggi “cosmici” e carichi di echi, costituiscono un altro dei momenti in cui Santanna ci riporta al suo amore per il sound tra psych e prog di Ozric Tentacles, Mandragora, Magic Mushroom Band, Porcupine Tree, che caratterizzava i suoi esordi. Il tutto con un approccio più “cattivo” rispetto al passato (ok… vogliamo parlare addirittura di Haken? Ma perché no!).

La dolcezza melanconica del precedente Layers (seppur riletta, come ripetiamo fin dall’inizio, nella chiave di una produzione più “stunning”) la ritroviamo nei 12 minuti di Ride the tempest, forse la vetta del disco, con le sue ondate sciabordanti e prepotenti di Mellotron che reggono l’irruenza della chitarra e con una prova al pianoforte, in vari momenti della lunga traccia, a dir poco commovente.

Qui il lavoro fatto dagli arpeggi del piano che sembrano “volteggiare” attorno a quelli della chitarra, tocca apici sublimi ed è reso ancora più struggente da una prestazione vocale convinta, sentita, emotivamente devastante. Tutto ciò ci accompagna per mano verso un finale a colpi di doppia cassa epico e mozzafiato.

Di Absolution trial, altro singolo presentato prima dell’album nella sua totalità, avevamo già scritto: con la sua melodia ariosa e di impatto sarebbe la traccia ideale come gran finale dell’album. Senonché Santanna sceglie di spiazzarci ancora una volta: lui e la sua band ci salutano con Legend #2, altri cinque minuti di capolavoro strumentale di prog sinfonico retto su un gran lavoro chitarra/Mellotron/Minimoog. E alla fine, ma proprio alla fine, durante l’ultimo minuto, tutto si spegne e diventa totalmente acustico. Un soliloquio chitarristico con voci registrate che fanno riferimento a un’altra delle grandi passioni di Santanna: l’astronomia.

Il solo problema di questo disco è di essere uscito in piena bufera-Covid: senza tutte le limitazioni imposte dal virus, vederlo riproposto live sarebbe uno spettacolo maestoso come la musica contenuta nelle varie tracce.

“La foglia e l’ala” sono i due simboli che segnano il grande ritorno dei Raven Sad dopo due lustri di silenzio e, in questo 2021, si può già parlare di titolo degno di figurare tra i dischi prog del decennio.





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