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giovedì 9 luglio 2015

Black Sabbath, di Giuseppe Scaravilli


Un personaggio poco avvezzo alle “amabili conversazioni” era Ozzy Osbourne. Neanche lui ricorda come il suo vero nome, John, avesse potuto trasformarsi in “Ozzy”. Ad ogni modo, si tolse lo sfizio di tatuarsi quelle quattro lettere sulle nocche di una mano, quando era ancora adolescente. E disegnò pure una faccina sorridente sopra una delle sue ginocchia, perché lo aiutasse a tirarlo un po’ su mentre se ne stava comodamente seduto sulla tazza del water. Abitava ad Aston (come tutti gli altri membri dei futuri Black Sabbath) insieme alla famiglia, in una casetta incastrata tra tante altre, tutte in fila lungo una via che all’epoca gli sembrava lunghissima, ma che non lo era affatto. Coi suoi amici andava a giocare in una casa bombardata dai tedeschi, ed era convinto che fosse tutto diroccato apposta per permettere ai ragazzini di giocarci dentro. A scuola più faceva lo scemo (e fu in questa “veste” che lo conobbe Tony Iommy (intimo amico di John Bonham), sempre nel periodo scolastico. Osbourne era un po’ dislessico, veniva trattato male dai professori e preso in giro dai compagni. Il suo senso di auto-stima era molto, molto basso. Se ne andava in giro senza scarpe e con un rubinetto appeso al collo, perché non avrebbe potuto permettersi una collana. Non gli riuscì bene neanche la carriera di ladro, visto che venne subito beccato, e a 17 anni era già in prigione: l’esperienza si rivelò talmente traumatica che decise di non ricaderci mai più. La sua fortuna fu quella di appendere un manifestino in un negozio di Birmingham, frequentato da tutti i musicisti della zona: con questo foglietto di “Ozzy” annunciava di essere un cantante in cerca di una band. E, soprattutto, di essere in possesso di un’amplificazione propria (appena compratagli dal padre). Una frase magica da quelle parti, in grado di catturare l’attenzione di molti, al di là delle sue qualità canore.
E infatti tutti i futuri Black Sabbath finirono per bussare presto alla porta di casa sua: prima “Geezer”, il bassista (che allora suonava ancora la chitarra), quindi Bill Ward, il batterista, insieme a Tony Iommi. Il tutto in una processione quasi surreale, perché, dalla  finestra di casa sua, John Osbourne vedeva dei personaggi che sembravano tutti uguali: baffi e capelli lunghi. Tony però lo riconobbe come lo scemo della scuola, e disse a Bill di andare via, di lasciarlo perdere senza neppure metterlo alla prova. Iommy era già un chitarrista molto stimato nella zona, ed era anche un po’ più grande. Bill però insistette perché ad Ozzy fosse concessa almeno una possibilità e, sorpresa, alla prima prova cantò bene: era intonato, e sapeva trovare linee vocali interessanti e molto azzeccate. “Geeser” passò al basso, si unirono altri musicisti, si cambiarono un po’ di nomi  (compreso quello di una marca di borotalco!) e si cominciò ad andare in giro a suonare. Quando infine si decise di rimanere in quattro, alla fine degli anni ’60, il nome del gruppo divenne “Earth”. Anche se ad Ozzy non piaceva più di tanto. In seguito videro il manifesto di un film, in bella vista davanti alla loro sala prove: era un film horror italiano, e si intitolava “Black Sabbath”. Così Tony Iommi, notando che la gente faceva la fila per essere spaventata, pensò che quello sarebbe diventato il nome definitivo del gruppo, e che la loro musica avrebbe virato verso atmosfere più tenebrose ed inquietanti. Già in una lettera spedita da Ozzy mentre rientravano da Amburgo, Ozzy annunciava felice che al ritorno a casa si sarebbero chiamati Black Sabbath. Ad Amburgo si sentirono quasi arrivati, perché suonavano allo “Star Club”, lo stesso locale che aveva visto abituali protagonisti i primi Beatles: proprio il quartetto di Liverpool  che aveva cambiato la vita di Osbourne, quando alla radio aveva ascoltato per la prima volta “She Love You”, e aveva capito che voleva far parte di quel mondo. Ma, dopo tanti anni, quel Club era diventato ormai  un postaccio. E loro si ritrovarono pure a derubare le gentili fanciulle con le quali si intrattenevano dopo i concerti, pur di “arrotondare”: uno “intratteneva”, appunto, e l’altro entrava di soppiatto nella stanza e frugava nella borsetta della malcapitata.  Non andavano fieri di questo, ma, come diceva Ozzy, dovevano pur mangiare. Si spostavano da una città all’altra con un furgone tutto scassato: pioveva, nevicava, ed i tergicristalli non funzionavano. Così uno di loro si affacciava da un finestrino, l’altro da quello opposto, e tiravano i tergicristalli con le mani, ora in un verso, ora nell’altro, per permettere a chi guidava di vedere qualcosa attraverso il  parabrezza (!).
Un escamotage che poi utilizzavano pu di suonare era tanto bizzarro, quanto logorante: si piazzavano con il furgone carico della strumentazione davanti ai locali nei quali era previsto il concerto di un gruppo già affermato, e, nel caso il gruppo in questione non avesse potuto esibirsi, si sarebbero proposti loro. Incredibilmente, intorno alla fine del 1968, la cosa riuscì. I Jethro Tull  non furono in grado di raggiungere il locale davanti al quale si erano “appostati”, e Ozzy e compagni suonarono al loro posto. Ian Anderson riuscì ad arrivare e a mescolarsi tra il pubblico, mandando in estasi il giovane Osbourne perché, mentre questi cantava sul palco, intravedeva Anderson muovere la testa seguendo la musica. In effetti il sound dello sconosciuto gruppo di Aston era ancora più pervaso dal blues che dai suoni funerei che li avrebbero caratterizzati di lì a poco. E c’era molto blues anche nel primo disco dei Tull (“This Was”, l’unico che avevano pubblicato fino a quel momento).
Ma ad attrarre l’attenzione di Ian Anderson doveva essere stata soprattutto la performance di Tony Iommi: Ian doveva trovare un sostituto a Mick Abrahams, il chitarrista, e Iommi sembrava essere l’uomo giusto. Del resto, se si ascoltano certi pezzi dei primi lavori dei Black Sabbath, quando Tony Iommi suona da solo, con la stessa Gibson SG rossa che utilizzava Abrahams, sembra assomigliargli molto. In qualche caso, quando la chitarra ha un sound più blues e carico di riverbero, accompagnata solo da un tumultuante sottofondo di basso e batteria, sembra proprio di ascoltare “Cat’s Squirrell”, dal disco d’esordio dei Jethro Tull. E in effetti Tony ricevette la proposta di entrare in quella band, già piuttosto nota, e con la morte nel cuore dovette comunicare ai compagni che avrebbe dovuto lasciarli. Ozzy e gli altri sentirono che i loro sogni di gloria stavano andando in pezzi: non sarebbero potuti andare da nessuna parte senza il talento di Tony Iommi. Sarebbero dovuti tornare a lavorare in fabbrica, o a fare gli altri i lavori frustranti (o veramente schifosi) che facevano prima. E questo proprio quando le cose sembrava cominciassero a funzionare. Eppure, in una maniera che può anche essere ritenuta commovente, tutti trattennero le lacrime e si congratularono con il loro amico, felici per lui, che a quel punto sarebbe passato letteralmente da un pianeta all’altro: dalla fame alla fama, in poche parole. Di lì a poco, tanto per cominciare, Tony avrebbe partecipato coi Jethro Tull al programma televisivo “The Rolling Stones Rock And Roll Circus, insieme a gente del calibro di John Lennon (ancora nei Beatles), The Who, Mitch Mitchell (il batterista di Jimi Hendrix) e, naturalmente gli stessi Stones (ancora con Brian Jones). Iommi, proprio lavorando in fabbrica, tempo prima si era visto tranciare di netto la parte superiore delle dita della mano destra da un macchinario che non sapeva ancora usare bene. E dal momento che era mancino, si trattava delle dita che avrebbero dovuto scorrere sulla tastiera. La sua carriera di musicista sembrava già finita. E invece si era fabbricato da solo delle protesi (simili a ditali) che gli avevano permesso di riprendere a suonare (e che utilizza ancora oggi). Così, adesso, con quel nuovo ingaggio, aveva l’occasione di passare, in pochi anni, dalla triste certezza di aver chiuso per sempre con la musica alla concreta possibilità di diventare il chitarrista di un gruppo importante. Le cose sarebbero in effetti andate così, ma non nel modo che sembrava aver prefigurato il destino: Tony Iommi, infatti, partecipò alle riprese del “Circus” coi Jethro Tull, il 10 dicembre 1968; ma lasciò quella band dopo un paio di settimane, preferendo tornare coi suoi vecchi compagni: troppo strette erano risultate per lui  la disciplina, la professionalità e la serietà che Ian Anderson imponeva alla band (pur avendo poco più di vent’anni!), e ben presto avrebbe preso il sopravvento la nostalgia per il divertimento, le follie e le risate con Ozzy e compagni. Il suo posto nei Jethro sarebbe stato preso da Martin Barre (che non lo avrebbe mollato per 40 anni!), mentre gli Earth, divenuti Black Sabbath, avrebbero sfondato al primo colpo con l’omonimo disco d’esordio, uscito nel 1970. Lo registrarono praticamente dal vivo, in 12 ore, scappando subito dopo per un concerto a Zurigo. Quando poi lo ascoltarono, quasi svennero per la felicità: il suono era pazzesco, erano state aggiunte campane e pioggia all’inizio del disco, e la copertina (alla quale non avevano preso parte in alcun modo) era strepitosa.
 All’interno dell’ album tutti e quattro portavano al collo grosse croci di ferro, fabbricate dal padre di Ozzy. E a quel punto fecero addirittura il bis, ottenendo ancora più successo con il successivo “Paranoid”: questo secondo lavoro avrebbe dovuto in realtà chiamarsi “War Pigs”, come uno dei brani contenuti nel disco (e come voleva suggerire la stessa copertina). Ma la casa discografica aveva preferito evitare problemi con quella che sarebbe stata facilmente interpretata come un’aperta denuncia contro la guerra in Vietnam, e preferì attribuire all’album il titolo di un brano che la band aveva registrato all’ultimo momento, giusto perché c’era ancora spazio per un’altra traccia: quest’ultima (Paranoid) sarebbe diventata la loro hit più famosa in assoluto, e avrebbe gettato le basi per quello che sarebbe diventato l’Heavy Metal. Se anche i Black Sabbath si fossero sciolti subito dopo quei primi due dischi, avrebbero comunque marchiato con indelebili lettere di fuoco il libro della storia del Rock.




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