Titolo mostra: AnimaMundi
Artista: Emiliano Alfonsi
Location: BANCA
FIDEURAM - SAN PAOLO INVEST, via Cicerone 54, Roma
Date: 26 e 27 Novembre
2016
Curatore: Egidio Maria
Eleuteri
“avete mai chiesto alla menzogna come immagina
la verità?
la prima è talmente nitida che può solo figurarla astratta.”
(Emiliano Alfonsi)
Un
imperativo, arrivare con almeno un’ora dopo l’inaugurazione della mostra, per evitare
che un’esperienza importante, possa divenire una festa, certo, benvenuta, ma
non tale da godere del mistico effluvio di quanto sapevo, mi sarebbe aspettato
e così è stato. Ad accogliermi alla Banca San Paolo, in via Cicerone a Roma,
sull’uscio, un nugulo di ragazzi nero vestiti, a dare l’idea di un pubblico
“altro” e poi, una signorina gentile all’ingresso, che mi chiede i dati e mi
illustra il percorso della mostra, tutt’altro che un dedalo, in realtà. Una
breve rampa di scale e la prima opera, ad aprire ad un percorso, che prima
ancora di porsi come sensoriale, si è dato come simbolico. In realtà, è
l’emozione che poi è prevalsa. “La Rosa Mistica”, primo accesso al mondo di
Emiliano Alfonsi e all’esposizione “AnimaMundi”.
Anima Mundi
Simbolo della “ricerca della
bellezza nell’equilibrio”, mi dirà l’artista, di quelli, che poi dirò,
raramente “veri”. Più tardi, quella rosa mi sarei ritrovato ad osservarla, con
sorpresa, tatuata sul suo collo, simbolo che è anche aspirazione alla
perfezione, equivalenza dell’imperituro valore del fiore di Loto nelle culture
orientali;“condizione di purezza e santità, alla quale l’uomo giungerà, dopo
che avrà lavorato e purificato il proprio sangue dal desiderio, quando sarà
diventato casto e puro”, nella visione dei Rosacroce; generazione, fecondità e
purezza, eletta simbolo della "Devozione Mistica”; Amore Virtuoso e
dunque, della Carità Pietistica di Maria (per quanto, l’artista riconosca
fascinazione ma non devozione nei riguardi del Cristianesimo);"Conoscenza
Segreta", per gli Egizi. Quant’altro si potrebbe spendere appresso a
questo simbolo, tale da assumere il valore di archetipo sempiterno, è nelle
pieghe di cosa mi si presenterà di lì a poco. Ma intanto è un’opera… una
sovrapposizione geometrica e materica, di incastri ordinati di legni ricoperti
da garze e gesso, sul quale i pigmenti di tempera, si stendono in maniera
materica, con pennellate, assai corpose, cosa che nessuno degli altri lavori
esposti presenterà. Carnale, direi, a dispetto di qualsiasi attribuzione di
valori mistici o esoterici, ch’essi siano, pregressi. Qualcosa che raccoglie e
che non è escluso, possa richiamare a sé, senza ritorno. E qui, subito emerge
un aspetto importante del lavoro dell’artista. La sua pittura è richiesta di
attenzione nei minimi dettagli, sempre che si sia disposti ad accoglierla.
Giustizia
Tra
il pubblico, sono sommerso da un vociare che parla di reami, tempi perduti,
purezza cavalleresca. Sorrido, mentre inforco carta e penna. Di contro, sin da
subito, la mia percezione mi ha condotto ad un mondo strettamente contemporaneo
dove l’icona non ha tempo, ma la sua manifestazione diventa pagano inno alla
vita. Certo, il fascino dell’antico non manca. La scelta di reggere ogni
dipinto su cavalletti con all’estremità superiore quello che pare un simbolo
araldico (scoprirò più tardi che il valore del cavalletto esula dalla funzione
di mero sostegno, facendo parte anch’esso di un ciclo di opere, un progetto
partito dalla dimensione dell’ostensorio e della sua dimensione rituale) ne è
esempio, ma è solo fascinazione autentica per la bellezza, estranea ad ogni
tempo, ma non ad ogni logica. C’è chiarezza assoluta nel percorso che mi si
dipana e non c’è tempo che regga. Potrei parlare anche della cura artigianale,
che accompagna ogni tratto dell’esposizione, come a dire che nella riscoperta
di un fare artigiano, c’è affermazione dell’essenza dei valori autentici. Una
rampa di scale a sinistra e poi, pochi gradini, per accedere al piccolo spazio
espositivo dov’è la quasi totalità dell’esposizione. Forse uno spazio angusto,
perché si avverte il desiderio di vederle espandere nello spazio queste opere,
per quanto, nella maggioranza dei casi, di piccole dimensioni. Il primo ciclo,
è dedicato alle Virtù. Il mio sguardo è immediatamente attratto dalla
“Fortezza”, eccezionale, nella capacità di penetrare con lo sguardo di chi è
ritratto (ogni opera, eccetto che una, di cui parlerò più avanti, ha un modello
che è associato non casualmente all’opera e che è trasfigurato, come nella
ricerca del suo più profondo “essere”), interrogando le coscienze di chi
osserva. Lo sfondo scuro contrasta la bellezza eburnea del viso, come quasi
tutti quelli rappresentati, dal fascino misogino. Ciò che differenzia
quest’opera da molte altre, è la centralità dello sguardo. Alfonsi, fa sua
forza, nella raffigurazione di volti che ammiccano di traverso, come a voler
cogliere “la testata d’angolo che diviene pietra e asse portante” e questa cosa
inquieta, ma è invenzione fortemente caratterizzante, che sfalda la fissità
iconica in qualcosa di fotografico, anzi post-fotografico, in quanto capace
davvero di rapire lo spirito di chi è immortalato, di chi guarda, osserva,
s’interroga. Ma qui non ci sono risposte (il che non esclude affatto certezze,
di chi espone, in merito a luce, ombra, vero, falso, positivo, negativo) ed è
questo il fulcro di quanto mi si (im)pone davanti. Ci sono larghi margini in
queste opere, pari a un costante divenire nella mente e nello spirito e l’arte
è questo, ciò che lascia abbastanza porte aperte per non definire il presente
entro gabbie, anche perché, quello che chiamiamo presente è già passato e solo
il futuro ha importanza e qui, di divenire ce n’è a sufficienza per dedicare
ore della propria vita alla pura contemplazione, che nel frattempo scava e
scava, senza sosta, nel proprio subconscio. Ogni parola successiva, alla
descrizione di “Fortezza”, può essere affiancata a quello che, dal mio,
soggettivo, punto di vista, è il capolavoro assoluto della mostra:
“Deceptio/Inganno”.
Deceptio-Inganno
Qui, l’idea iconica sublima in una contemporaneità
surreale. Le sottili pennellate del viso raffigurato, superano i limiti della
tempera “a corpo” e si rapportano ad un fare divisionista che dona luce. In
perfetto contrasto, i quattro visi esangui, organizzati attorno all’immagine
centrale, che scruta con altera lateralità di sguardo, sembrano essere
fantasmi, dei “memento mori” in chiave strettamente contemporanea, quasi un
rimando alle maschere funerarie micenee. Un cuore con le sue arterie, sembra
invadere come a possedere, l’austerità del volto e a fianco, la manifestazione
delle piume di un pavone, segno di timore, quanto di nobiltà (ma tanti sono i
valori, ognuno significante, che soggettivamente, ognuno potrebbe cogliere) e
un camaleonte. Davvero, una di quelle opere che a scandagliarla, non
basterebbero ore, per rapirne l’essenza, quanto ne si è ammaliati, ma il tempo
è breve e devo, mio malgrado (sinceramente il mio sguardo non si è mai
distaccato da questa meraviglia), volgere oltre. C’è ad accogliermi, con
altrettanto calore, la bellezza di “Anima Mundi –NihilHic Servit”, grazia per
eccellenza, che incanta tra ori, simbologie religiose ed alchemiche. Altro
capolavoro assoluto è “Veritas”, dove l’austerità del ritratto, sinceramente
incantevole, è nella capacità di trasformare la maturità, d’età, in profonda
bellezza. Toni pastellati, rassicuranti, fermi, si sposano a ad un impianto di
volumi su tavola a più strati, che generano sottili ombre, risonanze/sonanze,
di una purezza immacolata. Piano, mentre, l’artista mi riconosce, salutandomi
con un tocco sulla spalla e uno sguardo, per nulla casuale, mi verrebbe da dire
perché, di traverso, mi avvicino al ciclo degli arcangeli.“Raphael” è pura
eleganza...
Raphael
“Michael”, stordente, incastonato nella più preziosa delle rose
mistiche, arabesco tentacolare, che si espande nello spazio, dove l’idea di
cornice diventa, forse, ancora più importante dell’immagine, a chiedere
attenzione, appresso allo sguardo caritatevole e denso di purezza dell’effigie
immortalata e poi “Gabriel”...
Gabriel
Come prima detto, i visi di Alfonsi, soprattutto
quando ritratti di profilo e questo ne è chiara testimonianza, scrutano lo
spettatore, scarnificandolo. Un’ esperienza mistica autentica, di quelle che
non lasciano vuoti pneumatici nella coscienza, tolgono fiato e raggelano per il
tempo che a loro si vuole dedicare, come alla partecipazione di una richiesta di
autentico amore, che qui, eccezion fatta per la prima opera in mostra, non ha
nulla di carnale, trascende. L’unica, vera, icona del lotto, nel senso più
tradizionale del termine, è la “Mater Misericordiae” (e qui mi ricollego a
quanto detto prima, in merito all’assenza di un “ritratto” vero e proprio), che
riporta anche certe austerità bidimensionali bizantine, in particolare nella
raffigurazione del Bambin Gesù. Su un piccolo piedistallo, come incastonato in
una pietra, la raffigurazione di Papa Giovanni XXIII, “In Buona Luce”, piccolo
gioiello, bontà di spirito, da cui traspare quella “curiosità mistica nei
riguardi del Cristianesimo”, di cui, Alfonsi, dice.Il tempo per rivolgere
domanda al modello di “Deceptio”, curiosamente amico di una quantità
impressionante di conoscenti, “come ci si sente ad essere raffigurato come
l’inganno?”, risposta mai avuta, nell’affastellarsi di curiosità altre e a cui,
poi, l’artista darà risposta: “l’inganno nel suo manifestarsi è più sincero
dell’aura che appartiene alla sincerità” e…come non dargli ragione?
Volto Deceptio
Una breve
intervista segue, inframmezzata da domande e curiosità che giungono da altre
voci. Alfonsi è persona di un’umanità grande e insondabile, tra chiari e scuri,
ma di una socievolezza rara, pari alla sua immediata reattività, sintomo di
intelligenza viva e apertura curiosa quanto brillante, a quanto gli vien detto.
A vederlo in foto sembra un gigante e lo è, nel carisma che trasmette. Dice,
come, chi lo sostiene nella presentazione del suo percorso, che un artista è
sempre solo, ma in questo contesto, io vedo e percepisco, tante persone a lui
profondamente vicine, portatrici di stima e profondo affetto, ma come non
dargli ragione? Non c’è mai vuoto che possa essere colmato, quando si ha tanto,
anche troppo, da dire e dare. Si discorre della diffidenza nei riguardi della
critica, parlando di Adorno e Argan (e della necessità di una sintesi più
manifesta nella scrittura di quest’ultimo), dell’urgenza di vita come forma
d’arte in sé e al mio dire, “si, la tua, oggi, è avanguardia”, ricevo un
sorriso diffidente e sincero, come a dire “vuoi definirmi quando in realtà non
c’è nulla di autenticamente definibile nel mio percorso?”; del legame tra il
valore dell’icona e dell’archetipo junghiano; di come i dipinti possano essere
“pagine” scritte, ma in costante movimento; del sacro
margine che può legare arte e artigianato, senza sminuire né l’uno, né l’altro
concetto (in un’epoca dove tutto si consuma, qui l’invito ad una dimensione
“altra”, dove il tempo non conta, invita anzi a denudarsi completamente d’ogni
sovrastruttura e lasciare il resto fuori); poi…il tempo invece, non basta più e
mi pento di essere arrivato così tardi. Avrei preferito la folla, alla
possibilità di discorrere più a lungo. Ci sono incontri che ribaltano le
prospettive. Mi allontano, sazio, forse saturo, da una banca, come questa fosse
diventata per me un sacrario, io, più vivo e pieno, di domande e visioni. Ad
ognuno, auguro, la possibilità di una simile esperienza, perché le persone,
come quello che generano, non possono essere sostituibili, come il regime di
pensiero che viviamo porta a credere. Autentico stupore. Grazie, Emiliano
Alfonsi.
Emiliano Alfonsi