The Stooges,
ovvero molto rumore per nulla
di Innocenzo Alfano
Alla fine mi sono deciso, e ho riascoltato con calma (ben due
volte, per un totale di 70 minuti di ascolto) il primo album, omonimo, degli
statunitensi Stooges,
registrato e pubblicato nel 1969.
Mi ero ripromesso di farlo già da un pezzo. Anzi, da un
bel pezzo.
Le mie vie musicali incrociarono per la prima volta il gruppo di Iggy Pop, detto l’Iguana, verso la fine
degli anni ’80, e non rimasi affatto sconvolto da quell’incontro. Si trattò,
allora, di un incontro per lo più casuale, avvenuto negli studi di Radio City
Saracena insieme ai miei amici deejay appassionati, come me (o io come loro), di
musica rock. Infatti me ne dimenticai in fretta. Riprovai, con maggiore
consapevolezza, nel decennio successivo, e il risultato fu identico: quella
musica non mi diceva un granché. Nel frattempo, però, cominciavo a
documentarmi, in maniera dettagliata, sulla storia del rock, e notavo che il
primo lp degli Stooges veniva quasi sempre trattato in modo più che
lusinghiero, spesso apologetico. Per qualcuno era addirittura “uno dei
capolavori della musica rock” (Piero Scaruffi), o, come variante linguistica
del medesimo giudizio, “potentissima
pietra miliare nella storia del rock” (Alberto Campo), mentre altri,
servendosi anche della matematica, non hanno esitato ad assegnargli un bel 9 in una scala di valori in
cui nove è, di fatto, il punteggio massimo (ondarock.it). Ma i miei dubbi
restavano.
Gli ascolti del 2015, e arriviamo ad oggi, hanno confermato l’impressione
di quasi trent’anni prima: l’esordio discografico del quartetto del Michigan,
seppur ritenuto leggendario da molti, non regge il confronto con la grande
musica rock della stagione di Woodstock e dei festival sull’isola di Wight. Ha
un bell’affannarsi Danny Fields, pubblicitario della Elektra Records e
scopritore sia degli Stooges che dei “cugini” MC5, a ricordare, nelle note di
copertina della prima edizione in cd dell’album, che le band di Detroit, alla
fine degli anni ’60, godevano del doppio vantaggio della distanza geografica e
culturale sia dall’Inghilterra che dalla California, e che questo avrebbe
permesso loro di affrancarsi dalla “pretenziosità” – come la chiama lui – che
si era fatta largo nella musica rock dopo il 1966. Tesi tanto curiosa quanto
incomprensibile, ma assai tipica di certa critica e storiografia legate al
rock. Secondo Fields, in sostanza, la “pretesa” di suonare meglio il proprio
strumento, di curare di più i testi, di variare ritmicamente una composizione,
era, e rimane, un disvalore. Per lui, e non solo per lui, il rock dovrebbe
essere «qualcosa di più primitivo, un autentico pandemonio» (cfr. The Stooges, Elektra 7559-60667-2, Made
in Germany, 1988).
Il pandemonio di cui parla Danny Fields in effetti non manca in
questo primo lavoro degli Stooges, prodotto per l’occasione da un ex membro dei
Velvet Underground, John Cale, uno che di musica grezza e orgiastica senza
dubbio se ne intendeva. Ma a parte il pandemonio, a ben vedere non è che ci sia
molto altro in questa proposta musicale che, dovendola etichettare, potremmo
definire di hard rock monotono e vagamente psichedelico, oppure tardo garage
proto-punk, il tutto condito da liriche deprimenti e/o lascive intonate da una
voce incolore ed anonima.
Ovviamente non tutto è da buttare via, perché siamo pur sempre in
un periodo fertile per la musica rock, e le buone idee, in certi casi, sgorgano
anche dalle fonti meno nobili. Perciò è senz’altro da applausi l’uso del pedale
wah-wah da parte del chitarrista Ron Asheton, attraverso il quale egli dimostra
di aver appreso con profitto almeno una delle fondamentali lezioni hendrixiane.
Ma questo è in ogni caso, e con ogni probabilità, l’unico elemento musicale di vero
interesse in tutto il 33 giri. La lunga We
Will Fall, in chiusura della prima facciata del long playing, vorrebbe
ripetere, due anni dopo, l’exploit della celebre The End dei Doors, un’altra rock band – all’epoca la più importante
– della Elektra Records, ma, sfortunatamente per gli Stooges, l’Iguana non
possiede né le qualità vocali e né tantomeno quelle espressive di Jim Morrison,
e a nulla serve il contributo alla viola di John Cale, poiché il brano, il più
lungo dell’album, si salva dal naufragio solo grazie al lavoro di Asheton con
il pedale wah-wah. Anche Ann,
sull’altro lato del vinile, ha una chiara matrice doorsiana per i primi 2/3 del
suo incedere, tuttavia senza i pregi degli arrangiamenti dei Doors e con tutti
i limiti propri degli Stooges. Se, di un simile disco, dovessi proprio segnalare
dei brani in qualche misura suggestivi (sul piano musicale), questa,
sforzandomi, sarebbe la mia lista: 1969,
con i suoi due accordi due, la concisa Not
Right, e la conclusiva Little Doll,
il cui assolo di chitarra elettrica con effetto wah-wah non meritava la dissolvenza
in fase di realizzazione. Per il resto, come avrebbe detto William Shakespeare,
tanto rumore per nulla...
P. S. Tra le poche cose interessanti dell’album io salverei anche
un aspetto che con le sette note non c’entra. Mi riferisco alla copertina, in
particolare per quelle giacche di pelle scura indossate e sfoggiate da tutti i
membri del gruppo in un periodo dominato da camicie colorate e indumenti di
jeans. Come indossatori e fotomodelli, niente da dire. La musica, però, è
un’altra cosa.
Nota Bene L’articolo sarà inserito nel mio prossimo libro dedicato alla
musica, che si intitolerà “Storie di Rock Vol. 2” . Sempre che riesca a trovare
un editore! Nel frattempo, l’Introduzione del volume è già disponibile online
(in una versione in cui manca il riferimento agli Stooges).
Un articolo vuoto, fuorviante e noioso, nel quale l'autore afferma che dopo aver ascoltato solo due volte (anche se lui dice "ben due volte"), il disco in questione, ha tratto la conclusione questo è un lavoro inutile, nonostante la notevole chitarra di Asheton. Beh, la chitarra di Asheton, insieme alla voce (che si adatta perfettamente al contesto), credo sia uno dei motivi del successo dei primi due dischi degli Stooges. L'autore paragona il gruppo del Michigan agli artisti dei festival dell'epoca (Richie Havens?, Creedence Clearwater Revival?, Arlo Guthrie?, Joan Baez?, Country Joe McDonald?, Santana?, Joe Cocker?, Who?), e fa capire che gli MC5 producevano cacofonia; dipinge poi Danny Fields come un cattivo, come se gli altri produttori fossero mecenati. Definisce John Cale, e quindi i Velvet Underground, degli idioti (ma ha idea della produzione di John Cale, delle sue attitudini, delle sue collaborazioni?). Paragona gli Stooges ai Doors (due cose completamente diverse), parla di testi deprimenti, quando i testi deprimenti dilagano nel rock colto (Pink Floyd, Van Der Graaf Generator e King Crimson in primis). Usa termini impropri, da insegnante alle prime armi “...le buone idee, sgorgano anche dalle fonti meno nobili..., ...Ron Asheton dimostra di aver appreso con profitto almeno una delle fondamentali lezioni hendrixiane...” (ancora, Ron Asheton e Jimi Hendrix, due stili completamente diversi). Sicuramente l'autore, che nella musica cerca esclusivamente le qualità tecniche, sarà innamorato dei Dream Theater, di Yngwie Malmsteen, dei Savatage, dei King Crimson, dei Dire Straits, di Joe Satriani, dei Liquid Tension Experiment ecc. ecc., ma il rock propriamente detto, per chi non lo sapesse, è impatto, grettezza, rumore...
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