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venerdì 20 febbraio 2015

The Stooges, ovvero molto rumore per nulla, di Innocenzo Alfano


The Stooges, ovvero molto rumore per nulla
di Innocenzo Alfano
                                                                                        
Alla fine mi sono deciso, e ho riascoltato con calma (ben due volte, per un totale di 70 minuti di ascolto) il primo album, omonimo, degli statunitensi Stooges, registrato e pubblicato nel 1969. Mi ero ripromesso di farlo già da un pezzo. Anzi, da un bel pezzo.
Le mie vie musicali incrociarono per la prima volta il gruppo di Iggy Pop, detto l’Iguana, verso la fine degli anni ’80, e non rimasi affatto sconvolto da quell’incontro. Si trattò, allora, di un incontro per lo più casuale, avvenuto negli studi di Radio City Saracena insieme ai miei amici deejay appassionati, come me (o io come loro), di musica rock. Infatti me ne dimenticai in fretta. Riprovai, con maggiore consapevolezza, nel decennio successivo, e il risultato fu identico: quella musica non mi diceva un granché. Nel frattempo, però, cominciavo a documentarmi, in maniera dettagliata, sulla storia del rock, e notavo che il primo lp degli Stooges veniva quasi sempre trattato in modo più che lusinghiero, spesso apologetico. Per qualcuno era addirittura “uno dei capolavori della musica rock” (Piero Scaruffi), o, come variante linguistica del medesimo giudizio, “potentissima pietra miliare nella storia del rock” (Alberto Campo), mentre altri, servendosi anche della matematica, non hanno esitato ad assegnargli un bel 9 in una scala di valori in cui nove è, di fatto, il punteggio massimo (ondarock.it). Ma i miei dubbi restavano.
Gli ascolti del 2015, e arriviamo ad oggi, hanno confermato l’impressione di quasi trent’anni prima: l’esordio discografico del quartetto del Michigan, seppur ritenuto leggendario da molti, non regge il confronto con la grande musica rock della stagione di Woodstock e dei festival sull’isola di Wight. Ha un bell’affannarsi Danny Fields, pubblicitario della Elektra Records e scopritore sia degli Stooges che dei “cugini” MC5, a ricordare, nelle note di copertina della prima edizione in cd dell’album, che le band di Detroit, alla fine degli anni ’60, godevano del doppio vantaggio della distanza geografica e culturale sia dall’Inghilterra che dalla California, e che questo avrebbe permesso loro di affrancarsi dalla “pretenziosità” – come la chiama lui – che si era fatta largo nella musica rock dopo il 1966. Tesi tanto curiosa quanto incomprensibile, ma assai tipica di certa critica e storiografia legate al rock. Secondo Fields, in sostanza, la “pretesa” di suonare meglio il proprio strumento, di curare di più i testi, di variare ritmicamente una composizione, era, e rimane, un disvalore. Per lui, e non solo per lui, il rock dovrebbe essere «qualcosa di più primitivo, un autentico pandemonio» (cfr. The Stooges, Elektra 7559-60667-2, Made in Germany, 1988).
Il pandemonio di cui parla Danny Fields in effetti non manca in questo primo lavoro degli Stooges, prodotto per l’occasione da un ex membro dei Velvet Underground, John Cale, uno che di musica grezza e orgiastica senza dubbio se ne intendeva. Ma a parte il pandemonio, a ben vedere non è che ci sia molto altro in questa proposta musicale che, dovendola etichettare, potremmo definire di hard rock monotono e vagamente psichedelico, oppure tardo garage proto-punk, il tutto condito da liriche deprimenti e/o lascive intonate da una voce incolore ed anonima.
Ovviamente non tutto è da buttare via, perché siamo pur sempre in un periodo fertile per la musica rock, e le buone idee, in certi casi, sgorgano anche dalle fonti meno nobili. Perciò è senz’altro da applausi l’uso del pedale wah-wah da parte del chitarrista Ron Asheton, attraverso il quale egli dimostra di aver appreso con profitto almeno una delle fondamentali lezioni hendrixiane. Ma questo è in ogni caso, e con ogni probabilità, l’unico elemento musicale di vero interesse in tutto il 33 giri. La lunga We Will Fall, in chiusura della prima facciata del long playing, vorrebbe ripetere, due anni dopo, l’exploit della celebre The End dei Doors, un’altra rock band – all’epoca la più importante – della Elektra Records, ma, sfortunatamente per gli Stooges, l’Iguana non possiede né le qualità vocali e né tantomeno quelle espressive di Jim Morrison, e a nulla serve il contributo alla viola di John Cale, poiché il brano, il più lungo dell’album, si salva dal naufragio solo grazie al lavoro di Asheton con il pedale wah-wah. Anche Ann, sull’altro lato del vinile, ha una chiara matrice doorsiana per i primi 2/3 del suo incedere, tuttavia senza i pregi degli arrangiamenti dei Doors e con tutti i limiti propri degli Stooges. Se, di un simile disco, dovessi proprio segnalare dei brani in qualche misura suggestivi (sul piano musicale), questa, sforzandomi, sarebbe la mia lista: 1969, con i suoi due accordi due, la concisa Not Right, e la conclusiva Little Doll, il cui assolo di chitarra elettrica con effetto wah-wah non meritava la dissolvenza in fase di realizzazione. Per il resto, come avrebbe detto William Shakespeare, tanto rumore per nulla...

P. S. Tra le poche cose interessanti dell’album io salverei anche un aspetto che con le sette note non c’entra. Mi riferisco alla copertina, in particolare per quelle giacche di pelle scura indossate e sfoggiate da tutti i membri del gruppo in un periodo dominato da camicie colorate e indumenti di jeans. Come indossatori e fotomodelli, niente da dire. La musica, però, è un’altra cosa.

Nota Bene L’articolo sarà inserito nel mio prossimo libro dedicato alla musica, che si intitolerà “Storie di Rock Vol. 2. Sempre che riesca a trovare un editore! Nel frattempo, l’Introduzione del volume è già disponibile online (in una versione in cui manca il riferimento agli Stooges).



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