Antonio
Clemente: “Casavacanze”
di
Alberto Sgarlato
“Antonio Clemente è un pittore.
(...) Quando posa il pennello e imbraccia la chitarra dipinge sensazioni,
emozioni, ricordi”, scrivevo nel 2012 recensendo “Infinito”, opera di debutto del
cantautore Antonio Clemente.
“(…) Un album per il quale non è
eccessivo l’aggettivo “memorabile”. Una delle perle più preziose nel ricco
panorama dell’attuale cantautorato italiano”, erano
invece le parole che usavo, qui su MAT2020, per concludere la mia recensione
del suo terzo album “Canzoni nel cassetto”, del 2016.
Insomma: questa premessa è già
sufficiente per far capire quanto io stimi e apprezzi questo artista, che seguo
con attenzione dai suoi esordi.
Sarebbe interessante iniziare con
una esegesi dei titoli: se “Infinito” (primo album), “Davvero” (secondo album)
e “I confini del giorno” (quarto album) esprimevano, in modi diversi, un
concetto di assoluta vastità legata allo spazio, alla verità, al tempo, questo
nuovo “Casavacanze”, capovolge nettamente la situazione e
sembra presentarci un artista maturo, saggio, che in qualche modo ha fatto pace
con se stesso e ha saputo racchiudere quella vastità di cui sopra nelle stanze
della propria quotidianità.
“Sembra”, appunto. Perché in
realtà Clemente è artista inquieto, privo di pace interiore. Lui stesso, nel
presentare questo suo quinto album, dice che: “Rappresenta quel ‘senso di
inadeguatezza’ che spesso mi ha fatto sentire accolto ‘come a casa’ in luoghi a
me estranei e turista o, peggio, straniero in luoghi che invece da sempre sono
‘casa mia’”.
Un’opera curata in ogni dettaglio, a
cominciare dallo schieramento di ben 16 strumentisti ospiti tra chitarre,
tastiere, archi, fiati, strumenti etnici e percussioni.
Una introduzione di meno di 50 secondi offre
la sensazione di entrare “fisicamente” nella “Casavacanze”. E si capisce
subito, dal breve testo, di quanto questa “Casavacanze” sia in realtà un luogo
dell’anima, fatto di malinconia, ricordi, suggestioni, colori e profumi.
“Ode al sole” ti culla come una danza attorno
al fuoco sulla riva del mare, con il suo incedere sensuale. “La mia casa”,
secondo singolo del disco, con il suo delizioso arrangiamento per pianoforte ed
archi, è uno degli episodi più struggenti dell’opera e ci pone al cospetto di
quello stile che ormai è diventato la cifra autoriale, immediatamente
riconoscibile, di Clemente.
“Come il vento” profuma di Spaghetti-western,
ovviamente declinato sempre secondo l’inconfondibile stile-Clemente. “Corro e
me ne infischio di un sistema subdolo”, sono versi che rivelano l’indole
ribelle di questo cantautore da sempre libero e indipendente, capace di
mescolare, come lui stesso canta, “l’umiltà e l’orgoglio”.
C’è invece qualcosa di “gucciniano” nel sax
suadente di “Parlami di te”, brano tra i più romantici del disco, tra Nino
Buonocore e Fabio Concato (volendo proprio trovare delle coordinate di massima,
in quanto Clemente, come già detto, ha una sua cifra unica).
Paolo Conte, invece, è il paragone che
potremmo cercare nel pianoforte “saltellante” di “Aprile”. La primavera rende
la gente “più sincera”, l’inverno sembra sempre troppo lungo; ma anche quando
le giornate si illuminano e si allungano, con la voglia di uscire e di
aspettare l’estate, c’è sempre in fondo in fondo quella vena profondamente
malinconica che attraversa tutte le canzoni di questo artista.
“Ciau Mà”, struggente ricordo di una madre
che non c’è più, ma ritrovata nelle strade, nel mare, nei luoghi e nei paesaggi
della sua Sicilia, è uno degli episodi più commoventi dell’intero album,
persino quando, dopo una delicata introduzione affidata a pianoforte e
fisarmonica, fanno il loro ingresso le percussioni. La cadenza si fa più
ritmata ma, anche in questo caso, l’amarezza di fondo è tangibile.
Il tema dell’avvicendarsi delle stagioni,
della vita che cambia intorno a noi, è ricorrente nelle canzoni di Clemente. E
“Notte di giugno”, da questo punto di vista è emblematica. Ricordiamo che
Clemente, oltre che cantautore, è pittore e poeta. Ed è proprio in canzoni come
questa che il Clemente pittore descrive al meglio i paesaggi estivi ed incontra
il Clemente poeta, quello che invece racconta i “paesaggi dell’anima”. Come
nella precedente “Aprile”, la vita rifiorisce, la passione arde, ma è sempre una
diffusa amarezza di fondo a farla da padrona.
“Estasi” gioca con le parole, con le
allitterazioni tra estasi ed estate, tema ricorrente in questa “Casavacanze”,
album un po’ concept e un po’ no. Sublime, anche stavolta, l’uso di un sax che
infonde ulteriore sensualità a un brano che di fascino ne trasuda tanto. Ma la
passione che fa ardere quei corpi in riva al mare sembra sempre un qualcosa di
difficile da afferrare, un “amore crudo” (come recita il testo) per un autore
che, preda delle sue inquietudini, non si sazia mai.
“Pdm” è zingaresca, spumeggiante, sfacciata.
Una dedica senza mezzi termini e senza sottili metafore a qualcuno che non solo
ha palesemente tradito Clemente, ma deve avergli fatto molto male. E in questo
brano l’autore urla la sua vendetta senza tenersi nulla sullo stomaco!
Ma in una splendida “Casavacanze” tra la
campagna e il mare, che cosa si può osservare dalla finestra? Ce lo racconta
proprio il brano “La finestra”, una storia d’amore vissuta osservando una donna
misteriosa tra cortili, finestre e paesaggi siculi fatti di fichi e gelsi. Il
tutto, ça va sans dire, in un’atmosfera che trasuda sensualità. E, a quanto
pare, sensualità e malinconia sono proprio i binari paralleli che,
accompagnandoci tra le varie canzoni, ci guidano in queste vicende di estati
inquiete.
“Summertime” cita solo per brevi tratti, per
pochi secondi, una strofa qui, una melodia là, quella che forse è la “canzone
estiva” per eccellenza, di Gershwin (ma non manca una ammiccante citazione,
anche qui effimera, alla “Summer on a solitary beach” di Battiato). Traccia
elegante, raffinata, patinata, che con il suo “mood” jazzistico mostra una
volta di più quante frecce ha Clemente al suo arco, ma che contribuisce a
portare avanti il tema portante della “Casavacanze”, fatto di sogni, ricordi,
amore e malinconia.
“Lu terremotu”, anch’essa in siciliano, come
la già citata “Ciau Mà”, è stata il singolo di lancio di questo album. Ed è un
brano profondamente diverso dal resto del disco. Qui l’estate sparisce, la
voglia di amore sulla spiaggia è dimenticata, qui ci spostiamo nel gelo
dell’inverno, di quel gennaio 1968 che vedeva la valle del Belice in ginocchio
per il sisma.
“Via della Pace” è un valzer, come si
conviene è in tempo di ¾, ma è soprattutto, come recita il testo, un
grandissimo girotondo pacifista. E tutti noi sappiamo quanto c’è bisogno, in
questo cupo periodo storico, di canzoni come questa.
“Abbracciami (e sogna)” è una rock ballad
impreziosita da un suggestivo lavoro di archi dal sapore quasi beatlesiano,
ennesima testimonianza del talento di un autore eclettico e mai uguale a sé
stesso.
Clemente si congeda con “Resto un po’ qui”,
traccia che rappresenta un po’ la summa di questo “viaggio” fatto di sole,
mare, cielo, nuotate ma anche quel senso di struggimento, malinconia che ci ha
accompagnati fin dall’inizio. E alla fine, con il trucchetto della “ghost
track”, un pianoforte che sembra suonare remoto, pieno di eco, a tratti forse
finanche un po’ scordato, si allontana da noi.
Antonio Clemente ha fatto nuovamente centro,
consegnando alla storia un altro disco intenso, commovente, maturo e profondo.
Nessun commento:
Posta un commento