Leviathan –
“Heartquake Redux”
di Alberto Sgarlato
Nei primissimi anni ‘80 un tumulto attraversa
le Isole Britanniche: un manipolo di band di nicchia, capitanate dai Marillion,
si impegna per riportare in auge il progressive rock, genere che nel post-’77
sembrava spazzato via dal punk e dalla new-wave. In Italia, però, un fenomeno
analogo, pare proprio destinato a non concretizzarsi: in quegli stessi primi
anni ‘80 i più grandi nomi della scena progressiva italiana, come Pfm, Banco,
Orme, New Trolls, virano drasticamente verso le melodie più orecchiabili, le
durate dei brani si accorciano, le strutture si semplificano e i memorabili
“raduni pop” di inizio ‘70 cedono il passo alle ospitate a Sanremo e al
Festivalbar.
Ecco, però, che a partire dal 1987-88, anche
in Italia, si verifica l’inaspettato: seppur a livello molto “sotterraneo”, un
vero e proprio esercito di gruppi di neo-prog prende forma un po’ in tutte le
regioni della nostra nazione. Il sound è molto diverso rispetto a quello del
decennio precedente, il cantato è spesso in inglese, le sonorità appaiono
debitrici verso quanto sta accadendo da qualche anno Oltremanica. Eppure,
questo fenomeno innesca nuovi fermenti: le riviste di settore, da quelle
concentrate sulla new-wave a quelle del pubblico metal, iniziano a parlare di
questa scena musicale; sullo slancio nascono fanzine dedicate al genere,
ciclostilate e vendute per posta; e persino qualche coraggioso si azzarda a
organizzare piccoli festival per radunare sul palco questi artisti.
Uno dei nomi più convincenti all’interno di
questo fenomeno è quello dei Leviathan. Rispetto a tanti loro coevi, sembrano
meno “figli” del British New-Prog Rock e più legati a stretto filo a una
discendenza da Genesis e Yes. Nel 1988 debuttano con un album già profondo,
intelligente e completo: “Heartquake”. Il titolo è un gioco di parole:
earthquake, infatti, in inglese significa “terremoto”, ma heart vuol dire
“cuore”. Insomma: i Leviathan sono pronti a raccontarci in musica quegli
“scossoni del cuore” che noi comunemente chiameremmo “emozioni”.
Due anni dopo questo già ottimo album, esce
l’ancor più maturo e convincente “Bee yourself”. Altro titolo, altro gioco di
parole: “Be yourself”, infatti, in inglese significa “Sii te stesso”. Ma “bee”
è l’ape. Nella lunga suite omonima, infatti, come in una metafora orwelliana
(si pensi alla “Fattoria degli animali”), viene usato il concetto di alveare
come simbolo della società del nostro tempo, che tutto massifica, omologa,
standardizza. Finché non arriva un’ape ribelle a risvegliare l’ascoltatore al grido,
appunto, di “Sii te stesso”.
In quegli anni l’ape ribelle è fisicamente
interpretata dal vivo dal cantante Alex Brunori, con tanto di corpetto striato
e antenne luminose. I Leviathan, infatti, fanno tesoro della lezione dei
Genesis e dei Marillion anche dal punto di vista delle performance live, sempre
molto curate in termini teatrali, come nel brano “The devil in the cathedral”,
rappresentato con tanto di timidi angeli e sexy-diavolette sul palco.
Dopo questa accoppiata di titoli, l’attività
del Leviatano si farà sempre più rarefatta: un terzo album solo sette anni
dopo, intitolato “Volume” (del 1997), nel quale riscoprono la lingua italiana,
e sporadiche apparizioni in compilation e album-tributo corali, spalmate nei
decenni.
Oggi, per celebrare degnamente 35 anni di
storia del disco di debutto, i Leviathan pubblicano “Heartquake Redux”. La
copertina, curata dal cantante Alex Brunori, è aggiornata agli standard
estetici e grafici attuali. Ma soprattutto è chiaro l’intento di questo
progetto: la volontà della band è quella di garantire alle tracce scritte
all’epoca di “esprimersi” al meglio grazie alla bellezza e alla qualità del
suono concesse dalle tecnologie di registrazione odierne. E per ottenere ciò,
si rivolgono all’amico di una vita che, guarda caso, è anche uno dei migliori
ingegneri del suono attuali sul panorama internazionale nel campo del rock
progressivo. Stiamo parlando di Fabio Serra… E per chi si è innamorato della
potenza di suono dei due album dei Røsenkreütz (band
nella quale Serra è compositore, produttore artistico, chitarrista,
inizialmente anche tastierista e occasionalmente cantante) non servono
ulteriori spiegazioni.
Della formazione a cavallo tra fine ‘80 e
primi ‘90, in questo “Redux” troviamo Alex Brunori (voce), Andrea Amici
(tastiere) e Andrea Moneta (batteria); le chitarre ora vengono imbracciate
dallo stesso Fabio Serra, che a questo punto non è solo seduto dietro la
console di mixaggio ma diventa elemento effettivo del gruppo. A completare la
nuova line-up un bassista di vera esperienza: Andrea Castelli. Il suo
curriculum nel rock progressivo italiano è vastissimo, ma basta un nome tra
tutti quelli che lo hanno visto in veste di collaboratore: il Rovescio della
Medaglia.
L’originale “Heartquake” nasceva con sei
brani medio-lunghi, che conferivano alle due facciate una durata abbastanza
precisa di 20 minuti per lato. Successivamente fu ristampato in CD con due
“bonus” tratte dalle session di “Bee yourself” e rimaste fuori. Oggi, però, per
questa “Redux” i Leviathan scelgono di riprendere la versione originale, quella
da sei brani. Ed è giusto così. Inserire forzatamente rarità, inediti, versioni
alternative o altro materiale avrebbe snaturato un disco nato fin da subito con
una sua forte e chiara identità.
E partiamo subito con il taglio molto
“stunning” (direbbero gli americani) di “The Waterproof grave”, brano
dall’approccio più melodico, diretto e dalla struttura più concisa. È forse il
momento di maggior concessione alle atmosfere “ottantiane” del periodo in cui
l’album fu concepito, tra AOR, new-prog, Genesis del periodo “Duke” e Yes di
“90125”. Un cantato intenso e teatrale è sorretto da un gran lavoro melodico
basato su intrecci di riff di sintetizzatori e chitarre. In quattro minuti la
band dimostra fin da subito di che cosa è capace, tenendo l’ascoltatore sul
filo del rasoio grazie a un “tiro” spietato.
Ben più delicata è “Hellishade of avenue”:
l’introduzione è affidata a minimi tocchi di pianoforte, ricami di basso
fretless e pad elettronici, sui quali pian piano si innestano arpeggi
chitarristici. La durata aumenta fino a raddoppiare rispetto al brano
precedente, la melodia vocale e gli arricchimenti del Minimoog non possono non
far pensare ai Genesis, anche in questo caso nel periodo da “A trick of the
tail” in poi. Uno struggente assolo chitarristico è reso ancor più emozionante
dal poderoso supporto dei bass pedals. Dopo un lungo inciso di sole tastiere,
la ripresa affidata ancora alla chitarra, sorretta da ostinati della sezione
ritmica, ha un che di hackettiano. Tutto porta a uno struggente crescendo
finale nel quale un sintetizzatore “lirico” sotto alla chitarra ricorda
“Entangled”.
“Only visiting this planet” ha l’incedere
“leggero” dei Genesis più “vaudeville”, quelli che a partire da “Harold the
barrell” arrivavano fino a “All in a mouse’s night” e “The lady lies”, ma con
un tocco dei Marillion di “Market square heroes” e di “Incommunicado”. Il brano
è una fucina di sorprese, con continui stop-and-go all’unisono, finezze della
sezione ritmica, ingressi inaspettati di volta in volta di chitarre o di
tastiere che regalano il giusto “condimento” a un cantato ricco di enfasi e
teatralità. E anche in questo caso, dopo il quarto minuto, quando tutto sembra
finito, ecco una struggente coda a conferire ulteriore intensità al brano.
“Up we go!”, altro brano dal piglio veloce ed
energico, nel suo incedere e nei suoi cambi di tempo ricorda persino i Gentle
Giant, con la sua alternanza di “ricami” barocchi e riff chitarra/organo quasi
hard-rock. Ciò si riflette anche nel cantato, figlio della teatralità di
Gabriel quanto di quella dei fratelli Shulman (e perché no? Persino con un
pizzico di Roger “Chappo” Chapman). Nelle economie del brano a dominare tutta
la seconda parte della traccia sono le tastiere, con poderosi crescendo di Moog
e cori di Mellotron, ma non mancano mai le finezze chitarristiche. Il tutto
ovviamente supportato da un grande lavoro della sezione ritmica.
“Dream of the cocoon” è di nuovo una ballad
pianistica più intimista alla quale un basso fretless in splendido risalto
conferisce persino un elegante tocco “fusion”. I costrutti generati
dall’intrecciarsi di chitarre e tastiere sono di rara eleganza, il drumming che
sottolinea ogni singolo passaggio, sui piatti o con lunghe e precise rullate, è
ineccepibile, il cantato ovviamente non è da meno. Il guitar solo finale è
commovente. Una prova di gran classe. In cinque minuti e mezzo la band condensa
l’eccellenza delle proprie capacità con grinta e coesione.
E ci salutiamo con la title-track… E qui già
dall’intro non si può non pensare alla già citata “All in a mouse’s night”, o
ad altri momenti genesisiani come “One for the vine”. L’ingresso di
chitarra-basso-batteria all’unisono sul riff di tastiere è a dir poco maestoso,
il cantato sempre capace di infondere la giusta intensità drammatica al tutto,
i cambi di tempo e di atmosfera spiazzanti secondo la miglior lezione del prog.
Una degna chiusura di un lavoro ineccepibile dalla prima nota all’ultima.
Concludendo: un disco che già risultava
sorprendente per ricchezza di idee, sostanza, maturità, all’epoca in cui uscì,
ma che oggettivamente aveva tanto bisogno di questi “vestiti nuovi”. Tutto ora
suona più “aperto”, più brillante, i suoni sono più “dipanati”, un certo uso
del riverbero tipico dell’epoca è stato smussato, ogni frequenza ha trovato il
suo posto, soprattutto nei bassi, corposi e vibranti, mentre le tastiere sono
più ricche e potenti e le chitarre più “sostanziose”, meno “esili”. Chi è cresciuto
in quella generazione e ha amato quel vivace momento storico, che segnò la
rinascita del prog italiano, non potrà fare a meno di innamorarsi di questo
“Heartquake Redux”.
E ora non resta che attendere il misterioso
“Testudo”, l’album dei Leviathan rimasto nascosto in un cassetto per oltre
trent’anni, che questa nuova formazione pare stia riprendendo in mano.
E sarà, certamente, ghiottissimo.
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaNell'articolo non si cita mai il compositore di tutti brani dei Leviathan, SANDRO WLDERK, vero motore e ispiratore dell'identitá musicale della band (ora non piú parte del progetto). Mi sembra corretto citare il nome di chi, in virtú delle sue composizioni, dará ai 'nuovi' Leviathan la possibilitá di mettersi ancora in gioco per nuove sfide nel mondo Prog.
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