Gianluca Grasso:
“KeyProg – Collection 1” (2023)
di Alberto Sgarlato
Musica senza confini, senza barriere e senza
etichette, quella di Gianluca Grasso. Lo
stesso titolo, “KeyProg”, nasce in
qualità di crasi tra due parole: “Key” indica il tasto, quei tasti bianchi e
neri che caratterizzano lo strumento principe di Grasso, cioè le tastiere,
protagoniste di un’opera musicale gestita, composta e arrangiata dall’autore
totalmente “in solitudine”. Invece “Prog” è l’abbreviazione di un concetto di
musica “progressiva”, cioè che travalica le forme e strutture consuete, per
addentrarsi in territori nuovi.
Oggi esistono molti “conservatori del prog” e
già questo termine è di per sé un ossimoro: molte di queste persone, infatti,
associano l’idea del cosiddetto “rock progressivo” o al classico filone
romantico e sinfonico fondato da gruppi come Genesis e Yes e cavalcato,
soprattutto negli anni ‘80 e ‘90, ma ancor oggi, da molteplici epigoni, o alle
recenti derive prog-metal basate soprattutto su un alto tasso di virtuosismo,
di velocità e di strutture “matematiche”.
Ma non dimentichiamoci che negli anni ‘70
“progressivo” era tutto ciò che trascendeva dai confini della forma-canzone: il
minimalismo ossessivo e alienante dei Kraftwerk, le dilatazioni “cosmiche” dei
Tangerine Dream, le sperimentazioni d’avanguardia degli esordi di Battiato, il
vivace jazz-rock della scena di Canterbury o di Rock in Opposition (RIO).
E in un certo senso tutto questo, e molto
altro, possiamo trovarlo nella musica di Gianluca Grasso: c’è l’approccio
orchestrale e sinfonico, c’è l’elettronica, c’è il jazz, ci sono i cosiddetti
“drones” (cioè cicli ritmici percussivi affidati a sequencer, arpeggiatori e
drum-machine), ma c’è anche tutto quello che è uscito negli ultimi trent’anni:
il filone trip-hop con la sua eleganza, il downtempo, il nu-jazz, le tendenze
lounge e chillout, ma viceversa anche l’heavy metal-jazz-fusion tastieristico
divenuto cifra stilistica di virtuosi come Rudess o Sherinian.
E chissà che cosa direbbero i “conservatori
del prog”, se sapessero che ai classici tasti bianchi e neri il nostro Gianluca
Grasso ha affiancato le tecnologie oggi care anche ai DJ e ai producer della
dance music, come il Launchpad, “scatoletta” in grado di campionare, editare e
“lanciare” ogni tipo di sonorità e di frase musicale al semplice tocco di un
tasto. La risposta è semplice, cari conservatori: la musica progressiva degli
anni ‘70 si faceva con Moog e Mellotron; oggi, dopo 50 anni, le tecnologie si
sono evolute, fatevene una ragione.
Ma attenzione: stiamo parlando di strumenti elettronici, di sintesi a modelli fisici, di VST (Virtual Studio Technologies, o Virtual Instruments), ma non di intelligenza artificiale. Questo sia chiaro per chi avesse dei dubbi. Tutto è stato partorito dalla mente dell’uomo (in questo caso di Grasso), concepito e suonato “alla vecchia maniera”. E, sempre “alla vecchia maniera”, siamo di fronte a un album con 10 tracce per complessivi circa 40 minuti di musica. Uno schema classico e intramontabile nella sua perfezione.
Si comincia con gli oltre 6 minuti di “MidAug”,
la composizione più lunga dell’album, e subito partono quei loop distorti e
percussivi che diventano cifra stilistica dell’album. Dopo un primo minuto di
quasi-rumorismo, con i primi accordi di piano elettrico ci si sposta nei
territori di Canterbury. Con l’ingresso dei synth i momenti più “soft” fanno
pensare alla fusion di George Duke o, in certi bass-synth “saltellanti”,
persino di Herbie Hancock, mentre certe “sfuriate” sono debitrici dei fraseggi
di Emerson. Con il piano elettrico a metà brano si torna su territori più
“spezzati”, secondo il ben noto “nervosismo” di talune produzioni
canterburyane.
“Pripyat” ha un titolo che
evoca tragici fantasmi del passato: è il nome, infatti, della città fantasma
più vicina a Chernobyl, dove nel 1986 esplose una centrale nucleare. E qui
troviamo quei “loop” ossessivi e percussivi, in stile Kraftwerk o Battiato (del
periodo “Sequenze e frequenze”) di cui si parlava all’inizio; il brano si fa
via via più frenetico, fino ad inserire arpeggiatori da retro-gaming e solismi
dissonanti, ma l’autore non manca di far sentire la sua perizia tecnica al
piano elettrico (uno degli strumenti principe dell’intera opera) o al synth.
“Slim Fit” è forse il brano più
vicino ai canoni del jazz-rock tradizionale, retto da un drumming frenetico e
mixato molto in primo piano, sul quale si dipanano i ricami del piano
elettrico, a tratti più melodico, a tratti più acido, con un finale affidato in
gran parte al Minimoog.
“Abyss” riprende il concetto di
arpeggiatori distorti e “rumoristi” della traccia iniziale, ma essi sfumano
rapidamente per lasciare spazio a un’inattesa evoluzione sinfonica affidata a
piano e archi, alternata a momenti di puro stile metal-fusion nei quali la
riproduzione sintetica delle chitarre risulta credibile.
Con “AstraZen” approdiamo alla
fusion più vicina al funk: quella di Chick Corea Elektrik Band, degli
Headhunters di Herbie Hancock, ma anche in questo caso con un uso “torrenziale”
dei sintetizzatori più vicino all’estetica del nostro tempo. Il drumming a
tratti si eclissa, per dare sfogo alle tastiere, in altri momenti torna a
essere preponderante e frenetico. Il tutto arricchito da splendidi interventi
di pianoforte che riportano tutto su territori più tipicamente jazzistici.
“Distant Maisie” è un’altra
parentesi orchestrale, per cori, timpani e pianoforte. Il realismo dei suoni è
impressionante, se teniamo conto che ci troviamo sempre di fronte alle virtual
studio technologies. E nei momenti più epici aleggia, in certi accordi, lo
Spettro di Keith Emerson.
Ed è ancora Emerson nell’uso percussivo e
presente della mano sinistra in “Urban Jungle”, anche se l’uso
del Bass-synthesizer con suoni robusti e volontariamente slabbrati riporta il
sound generale verso quei territori funk che il titolo farebbe presagire, il
tutto “condito” da chitarre metal e da acidi assoli di sintetizzatore solista,
in un cocktail di ingredienti inaspettato ma riuscito.
Nell’inizio di “Bathsheba”
ritroviamo le partenze affidate agli arpeggiatori, con un groove basso/batteria
quasi dance, se non fosse che immediatamente si innestano virtuosismi di piano
elettrico e Moog che riportano prepotentemente il tutto su territori più
cerebrali. Gli stacchi che scandiscono il tempo sono quasi da colonna sonora di
film poliziesco.
“Break the silence” torna al funk, con un uso
ficcante del Clavinet e piacevoli “ondate” di synth-pads che donano ampio
respiro sotto gli accordi del piano elettrico. Anche l’uso solista del
sintetizzatore, così acuto e sottile, richiama a un sound molto anni ‘70.
“Game over”, come recita il
titolo, è il brano che chiude l’album. E, come tale, è una elegante summa delle
doti virtuosistiche del compositore.
Concludendo: se amate scoprire le infinite
potenzialità dell’elettronica moderna, sposate ad un sapiente e godibile
virtuosismo esecutivo, questo disco è il “gioiellino” che fa per voi. E il
fatto che l’album rechi il sottotitolo “Collection 1” ci svela che Gianluca
Grasso ha già in serbo molte altre di queste composizioni.
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