Elisa Montaldo – “Il
fascino dell’insolito” (2025)
Di Alberto Sgarlato
Il nome di Elisa
Montaldo è abitualmente associato in modo diretto al Tempio delle
Clessidre, una delle pochissime band che nel Nuovo Millennio sono state
capaci di riportare il rock progressivo italiano ai fasti della ribalta
internazionale, con tanto di tour in Sud Corea e Giappone e partecipazioni a
importanti festival.
In realtà, però, chi conosce i progetti solisti
della polistrumentista, compositrice, arrangiatrice e cantante genovese, saprà
che la sua carriera è molto di più del solo rock progressivo italiano: nei suoi
percorsi di ricerca si incontrano elettronica, metal-prog (come dimenticare la
cover di “Space-dye vest” dei Dream Theather che talvolta propone live?),
rarefazioni post-rock, suggestioni di World music (con l’uso di strumenti
appartenenti a diverse etnie del pianeta) e una sorta di incatalogabile “cantautorato
internazionale di qualità”, che potremmo paragonare a quello di una Kate Bush o
di una Tori Amos. Non perché ci siano delle similitudini reali, con queste due
artiste, ma per l’attitudine comune a sfuggire a generi e “gabbie”.
Non solo: chi ha visto qualche concerto di
Elisa Montaldo sa che in quelle performance diventa difficile archiviare il
tutto anche soltanto sotto il concetto di musica, dal momento che le
collaborazioni con visual-artist d’avanguardia (per i quali ha composto e
arrangiato colonne sonore) trasformano questi eventi in autentiche situazioni
multimediali.
Ed eccoci arrivati al punto nodale di questa
recensione: la multimedialità.
L’album di cui andiamo a trattare, infatti,
intitolato “Il fascino dell’insolito”, nasce come supporto sonoro per un
podcast concepito da Enrico Pietra sulla storia degli sceneggiati dell’Epoca
d’Oro della RAI – Radiotelevisione Italiana. I titoli sono quelli che tutti gli
appassionati del genere ben ricordano: “A come Andromeda”, “Il fauno di Marmo”,
“Ritratto di donna velata”, “Il segno del Comando”, solo per menzionare quelli
che maggiormente hanno fatto la storia della tv negli anni ’70.
Nove brevi tracce che rivisitano quei temi
scritti da grandi professionisti della composizione per il cinema e la
televisione, nomi del calibro di Riz Ortolani e Stelvio Cipriani (anche in
questo caso per fare solo due esempi).
E qui torniamo al parallelismo con Il Tempio
delle Clessidre citato all’inizio: non similitudini ma attitudini. In questo
album, come in quella band, infatti, ritroviamo il giusto mix tra devozione e
innovazione. Così come il Tempio riportava in auge l’amore per il prog italiano
riabbracciandone gli stilemi ma mai offrendo una riproposizione calligrafica e
pedissequa, semmai al contrario introducendo vistosi e gustosi elementi di prog
moderno, allo stesso modo la polistrumentista genovese si mostra devota nei
confronti dell’operato degli autori originali, ma al tempo stesso ne
destruttura, scompone e ricompone i suoni.
Al centro di tutto domina il monumentale
parco-tastiere di Elisa Montaldo, a tratti affiancato da strumenti acustici dal
gusto antico, come la lira, o da “cimeli” misteriosi e magici, come il
Theremin. Tutto però viaggia attraverso le onde sonore dei cosiddetti VST
(Virtual Studio Technologies), applicativi digitali che svolgono un ruolo
fondamentale sia nella fedele riproduzione di strumenti ed effettistica
d’epoca, sia nel generare timbriche un tempo impensabili.
Si viene a creare un turbinante “loop
temporale”, nel quale fruscii, ronzii e borborigmi squisitamente “vintage”
convivono con immensi pad (cioè tappeti) e arpeggiatori emblematici
dell’elettronica attuale. In tutto questo il processo di editing, di arrangiamento,
di mixaggio assume un ruolo da protagonista quasi al pari della partitura
originale.
E non ci si deve esimere da un plauso per
l’eccellente mastering effettuato presso il Neraluce Studio di Barbara Rubin,
capace di offrire quel risultato adeguatamente “dipanato” nello spettro sonoro
e appagante soprattutto in cuffia. Barbara Rubin, a sua volta eccellente
polistrumentista, è sovente “complice” di Elisa Montaldo sia in studio sia in
quelle già citate “incursioni” tra live e performance multimediale.
Concludendo: un’opera che saprà coinvolgere e commuovere i nostalgici ma, al tempo stesso, attrarre e incuriosire i giovani e, in generale, chi scopre oggi nuovi linguaggi musicali.