Usciva il 17 dicembre 1971 “Hunky Dory”, quarto album di David Bowie, il disco che l’ha fatto conoscere in tutto il mondo.
Di tutto un Pop!
Wazza
“Hunky Dory” sta per “Tutto OK” ed è
il quarto album di un allora ventitreenne David Robert Jones, in arte Bowie, in
cerca di celebrazione, ma anche di primo affrancamento, dalla Swinging London e
i suoi eroi vicini e lontani (Syd Barrett, Bob Dylan, Iggy Pop, Velvet
Underground…), nonché ancora alle prese con giovanili sfoggi di ambiguità
sessuale (lui che è già padre di famiglia e futuro, ben corrisposto donnaiolo,
altro che la posa da bionda Greta Garbo che ci ammannisce in copertina…). Vi
riuscirà compiutamente nell’album successivo, il suo capolavoro “Ziggy
Stardust”, sdoganando appieno un nuovo genere di rock, il glam, pregno di tutte
le influenze di cui sopra, eppure brillantemente nuovo di zecca.
Ma se quest’opera non gode ancora della compattezza, della personalità, dell’alchimia perfetta di quella che seguirà, risulta essere per certo un’esimia raccolta di canzoni molto varie, quasi uniche nella loro incisiva profondità, talvolta imbellettata di lustrini e talvolta no, coniuganti il pop più esuberante e scintillante ad alcune tematiche urticanti e drammatiche, omaggianti Dylan, Reed, Warhol in una forma che brilla di luce propria e di sostanza musicale che travalicano gli stessi ispiratori, ancora senza un vero approdo autonomo, ma in ogni caso pregna di sostanza musicale e lirica.
La deviazione dal precedente lavoro
“The Man Who Sold The World” è decisa. Le stesse tematiche, spesso e volentieri
claustrofobiche ed oscure in quel disco, gli stessi disagi allora resi
attraverso un chitarrismo elettroacustico asciutto e violento, qui vengono
rivestiti di una irresistibile ed intelligente patina poppettara, che ha nel
pianoforte di un versatile e agile Rick Wakeman lo strumento base. Il
chitarrista di Bowie Mick Ronson, dominante e massimamente rumoroso nel
precedente disco, è qui “retrocesso” ad interventi misurati e secondari, ma si
rifà ampiamente grazie alla sua versatilità e preparazione musicale, curando i
magniloquenti arrangiamenti orchestrali che forniscono un tocco unico e
fondamentale all’opera. Un grande musicista, il compianto e mai abbastanza
riconosciuto Ronson, in grado qui di scrivere partiture di intensità wagneriana
e caricare il disco di decadente e intensa musicalità.
Il nascente gusto glam si avverte già nel timbro alterato della voce di David (filtri equalizzatori…o magari il nastro rallentato in fase di incisione…), assai più acuta e chioccia che nella realtà. E’ già la voce del futuro Ziggy Stardust, alle prese con una scaletta quasi tutta di ballate, per lo più pianistiche, di grande e variegata ispirazione, talché agli episodi molto spumeggianti e teatrali (“Oh You Pretty Things”, “Changes”, però sempre con testi tutt’altro che leggeri, e la cover “Fill Your Heart”) vengono intercalati a rancorose tiritere iperdylaniane (“Song For Bob Dylan” un vero e proprio omaggio, al di là della critica alle ultime cose del menestrello americano) oppure ad abissali sprofondamenti nel malessere personale (“The Bewlay Brothers”, riferita al fratello di Bowie ed ai suoi problemi psichici e allora magari anche a Syd Barrett, tesa e drammatica, vera superstite delle atmosfere del disco precedente… e bellissima).
Ci si stupisce ancora con tante altre e diverse cose, a cominciare da una bella presa in giro di Andy Warhol, con una ballata a lui intitolata e solcata dalla potente chitarra acustica a 12 corde del fido Ronson, e poi lo schizzo newyorkese di “Queen Bitch”, assolutamente a’la Velvet Underground, ma con a stretto seguito la tenerissima “Kooks”, una ninnananna dedicata al figlioletto, nella quale la fantastica voce di David assume convincenti toni paterni e protettivi.
Ed a proposito di voce, vi sono alfine in questo disco due fulgidi capolavori che dispiegano a tutta forza il grande talento esecutivo, oltre che compositivo, dell’artista. Il primo è celeberrimo e s’intitola “Life On Mars?”: molto di diverso che un episodio di fantascienza, è invece una straziante messa in scena di un’ordinaria fuga dalla realtà di una persona, che preferisce rifugiarsi in mondi paralleli e fittizi. La melodia è indimenticabile, Bowie la canta da padreterno, Ronson ci mette un’orchestra bella pesante, che comunque si ferma un attimo prima di risultare ridondante, ed insomma siamo al cospetto di quello che, per parecchia gente, è il suo capolavoro assoluto.
Il secondo gioiello è molto meno noto, ma ugualmente sfavillante. “Quicksand” possiede la perfezione formale e l’intensità ispirativa delle grandi e migliori ballate, con Bowie alle prese con le proprie incertezze e paure, con il suo/nostro inquietante lato oscuro.
Un’opera intensa e scorrevole, leggera e inquietante, ispirata, simbolo di un periodo in cui a Bowie riusciva proprio tutto, stava sbocciando compiutamente a livello artistico e si avviava a non avere rivali nel genere. Lo dimostrerà definitivamente col disco seguente, ma anche quest’album è fra gli indispensabili del rock, manifesto musicale di un artista fuoriclasse, in piena fase di messa a fuoco delle sue voglie e delle sue possibilità.
di Pier Paolo Farina
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