Terminato il tour mondiale come “supporter” dei Jethro Tull (con visita alle cascate del Niagara...) i Gentle Giant, il 1° dicembre 1972 pubblicano l’ennesimo capolavoro, “Octopus”.
Di tutto un Pop…
Wazza
Quarto degli undici album di studio pubblicati dal Gigante Gentile, tutti entro la decade 1970/1980, “Octopus” è l’opera più nota, diffusa, celebrata e ricordata qui in Italia, a simbolo del loro momento magico presso di noi, quando se la giocavano alla pari con Pink Floyd, Yes, Emerson Lake & Palmer e Genesis da una parte (tutti in procinto di diventare ricchi e famosi) e Van Der Graaf Generator e King Crimson dall’altra (invece con un futuro, similmente a loro, circoscritto a semplice culto per appassionati e palati fini). Il progressive al tempo tirava da matti e quest’album stava dunque in cima alle classifiche italiane di vendita accanto a quelli, che so, di Lucio Battisti e Deep Purple, mentre la migliore formazione italiana dell’epoca, la Premiata Forneria Marconi, era in sostanza una devota combinazione fra loro ed i King Crimson…
Tempi irripetibili, ma “Octopus” riesce ad avvincere ancor oggi buona parte dell’ala più sofisticata e colta dei consumatori di musica. L’incontro e l’adattamento reciproco fra i sei musicisti che costituiscono la formazione ha dell’incredibile e dell’irripetuto, costituendo la peculiarità indubbia del suono Gentle Giant: avvenne a fine anni sessanta che tre fratelli dediti al rhythm&blues (Phil, Derek e Ray Shulman), ai quali si erano aggregati un chitarrista blues ed un batterista jazz (rispettivamente Gary Green e Martin Smith) sostanzialmente si misero nelle mani di un talentuosissimo compositore e multistrumentista di stretta educazione classica (Kerry Minnear), ben addentro anche alle cose del jazz ma piuttosto a digiuno di pop, rock e simili. Soprattutto, in possesso di preparazione ed inclinazione smisurate per il contrappunto, la poliritmia e la polifonia, applicati indifferentemente a strumenti, percussioni e voci.
Il fenomenale Kerry (in verità aiutato da Ray Shulman, in possesso a sua volta di ottimo talento compositivo) era una fucina di articolate e colte partiture melodiche, armoniche e ritmiche, di buon grado assimilate dai compagni, pur provenienti da contesti assai più popolari e “grezzi”. Questo grazie innanzitutto alla condivisa, generale apertura mentale ma non secondariamente a indispensabili, copiose doti di “orecchio”, fluidità e precisione esecutiva.
La proposta dei Gentle Giant prevedeva la piena azione di ben quattro voci e decine di strumenti (veri strumenti a corda, ad ancia, a tastiera e a percussione, in tempi in cui coi sintetizzatori si era ancora agli inizi e ci si tiravano fuori pochi suoni). Il solo Minnear era in grado di allungare le mani su pianoforte elettrico e acustico, organo, vibrafono e xilofono, mellotron, sintetizzatore, clavicembalo e clavinet, violoncello, flauto, oboe, percussioni… ma in concerto non si faceva scrupoli ad imbracciare anche una Fender Stratocaster, od a sostituire sporadicamente Ray Shulman al basso quando quest’ultimo era alle prese con violino, chitarra o tromba…
Del tutto peculiare anche il discorso sulle voci: arrangiate spesso e volentieri in contrappunto né più né meno come gli strumenti, costituiscono una caratteristica pressoché unica nella storia della popular music occidentale, che ci ha abituati da sempre a parti corali armonizzate grosso modo per terze e quinte, quasi sempre all’unisono o al più organizzate a botta e risposta. Non può che stupire, oggi più che mai, l’immersione nel lussureggiante canto contrappuntistico del Gigante Gentile, dove i cosiddetti “cori” sono spesso e volentieri un trafficato guazzabuglio di temi ad incastro con melodia, accento e divisione in battute autonomi, ciclicamente a convergere in improvvisi “nodi” per poi subito di nuovo divergere, per un effetto finale di sublime dinamica, vero cibo per le orecchie dell’appassionato.
Chiunque si sia limitato a considerare l’inserto operistico architettato da Freddie Mercury nel celebre brano dei Queen “Bohemian Rapsody” come il massimo del virtuosismo corale applicato al rock, dovrebbe rivedere i suoi convincimenti anche solo dopo l’ascolto di “Knots”, quarta traccia di quest’album e ottimo esempio dell’estro e dell’eccellenza vocale della formazione: quattro voci a stratificarsi ed inseguirsi, prima a cappella e poi con preziosi intarsi di xilofono, violino, percussioni, basso, chitarra... Del tutto spettacolari, in particolare, i borbottii ad inseguimento sfocianti in un unico, distensivo, appagante corale; un vero caos organizzato coi quattro cantanti che riescono a tenere ciascuno la propria partitura e giungere a tempo al “nodo” finale, senza fuorviarsi l’uno con l’altro (beninteso, il brano era una delle colonne imprescindibili delle loro esibizioni dal vivo, nelle quali era riproposto pedissequamente e senza alcun problema).
Delle ugole a disposizione del gruppo, quella di Derek Shulman era la principale, la più potente ed estesa (ed anche la meno condizionata, specie sul palco, da contemporanei, complessi impegni strumentali), ma la più bella in assoluto resta quella di Minnear: un timbro che viene da altre epoche, elisabettiano, barocco, sorprendentemente lontano da qualsiasi stereotipo del nostro tempo. Zero swing, zero blues, zero rock, zero jazz in uno stile invece madrigalesco, rinascimentale, delicato e massimamente evocativo.
Il disco si apre proprio colla voce
d’altri tempi del tastierista, che nel prologo della magnifica “The Advent of
Panurge” va a descrivere un’ampia melodia e poi a raddoppiarla, a turno
contrappuntandola o armonizzandola in un tripudio di quarte, seste e none
d’alta scuola. Il brano prende poi consistenza strumentale e va ad appoggiarsi
su di un pianoforte sincopato e veemente che detta la strada, comanda gli
stop&go, stabilisce un’atmosfera carica di tensione e potenza, prende a
duettare con una chitarra altrettanto risoluta. Si sta infatti rappresentando
il gigante Gargantua, di Rabelaisiano estro, ed il suo incontro con il futuro
amico della vita, Panurge. Tra continui cambi d’atmosfera, intarsi di tromba,
pause distensive affidate ai corali, la canzone gode di una ricchezza e
contemporaneamente di un equilibrio immani, il tutto in nemmeno cinque minuti
di durata.
Due sono le ragioni principali del salto di qualità, in termini di riscontro critico e commerciale, fatto al tempo dal Gigante Gentile con questo quarto album: la prima è l’essere riusciti a contenere in otto canzoni di durata normale, eccezionalmente ben arrangiate, varie ed equilibrate, la loro proposta progressive invero sofisticata e impegnativa. La seconda è il cambio di batterista: fra tanti fini dicitori e arzigogolate esecuzioni, l’intuizione di affidarsi ad un solidissimo e pulito pestatore rock (John Weathers, appunto al suo esordio in quest’album e poi con i Giant fino al loro scioglimento), dopo un paio di batteristi molto bravi ma con molta meno “spinta”, fu ottima idea. Weathers rende il tutto molto più lineare, potente, definito, in definitiva meglio “digeribile” ed efficace per il pubblico del rock.
Beh… a riflettere ulteriormente, anche la vistosa copertina giocò un buon ruolo nella diffusione del disco. È indubbiamente una delle opere che meglio si ricordano dell’immaginifico Roger Dean, artista al tempo ricercatissimo dai discografici per dare valore aggiunto alle registrazioni degli artisti sotto contratto. Alle prese, come il solito, con aerografo e pennelli (niente computers al tempo), ma per una volta con una creatura perfettamente terrestre (e non la classica via di mezzo fra mitologia e fantascienza, come a lui d’uso) Roger, ispirato logicamente dal titolo dell’album, tira fuori una magnifica rappresentazione del curioso animaletto provvisto di otto tentacoli, una per ciascuna delle canzoni dell’album. Un grande, Roger Dean… spero per inciso che gli stiano arrivando parecchi diritti d’autore sia per le montagne sospese che per buona parte della flora e fauna aliena, in bella mostra nel kolossal “Avatar”: tutta farina esclusiva del suo sacco, farina degli anni settanta, riciclata in quest’epoca tecnologica ma stitica, nella quale un gruppo geniale, originale, brillante e sofisticato come i Gentle Giant possiamo sognarcelo, o meglio rimpiangerlo mentre ci ascoltiamo per la centesima volta “Octopus”.
di
Pier Paolo Farina
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