Stavo
guardando il film “Gli anni amari”, che racconta la vita di Mario Mieli,
attivista e fondatore del movimento di liberazione dei gay.
Tra
i brani della colonna sonora la piacevole sorpresa di ascoltare “Non mi
rompete”, del Banco del Mutuo Soccorso… un motivo in più per apprezzare il
film.
Lo
trovate su Rai Play.
Di
tutto un Pop…
Wazza
Gli
anni amari - Film (2019) - MYmovies.it
Al
di là di tutto, Gli anni amari ha il merito di rimettere al centro
dell’attenzione Mario Mieli, tanto determinante per la storia italiana quanto
oggi poco ricordato. Nel rimetterne in scena la turbolenta esistenza, va da sé
che Andrea Adriatico tratteggia anche un bignami storico del movimento
omosessuale nel nostro Paese (cosa rara per il cinema italiano), di cui Mieli
fu tra i pionieri.
Con
un avvicinamento alla materia biografico un po’ troppo agiografico, Gli anni
amari ne restituisce cronologicamente vita e opere. E cerca di trovare nella
linearità narrativa una chiave per trasmettere la complessità del soggetto.
Dell’autore
di Elementi di critica omosessuale, interpretato da Nicola Di Benedetto
(acerbo), Adriatico – che ha scritto il film con Grazia Verasani e Stefano Casi
(presenti in due cammei) – racconta il periodo compreso tra il 1969 e il 1983.
Quando, da rampollo ribelle di una famiglia di industriali ebrei, Mieli si
afferma come attivista, teorico, performer, scrittore, rivoluzionario.
Scopriamo,
così, tra pubblico e privato, le prime contestazioni tra liceo e famiglia,
l’attivismo a Londra, la militanza nel Fuori!, il festival di Re Nudo a Parco
Lambro, le partecipazioni televisive. E poi le violenze degli omofobi, gli
amori tormentati, i conflitti con il padre e il fratello, il rapporto con la
madre (Sandra Ceccarelli, esimia).
Non
mancano le contraddizioni tipiche di un uomo dalla curiosità vorace (le droghe
psichedeliche, la coprofagia) e la passione per l’alchimia e l’esoterismo.
Tematiche e suggestioni poi confluite nell’autobiografia Il risveglio dei
faraoni, testo di cui la famiglia, all’indomani del suicidio di Mieli, bloccò
la pubblicazione per anni.
Mieli
è stato un intellettuale che ha sfidato le convenzioni borghesi mettendo in
campo il proprio corpo, sia vestendosi da donna per contestare le categorie di
genere sia quando è vittima di ricoveri coatti per schizofrenia, subendo cure
che in realtà tali non erano.
In
fondo, la scelta di seguire le regole del classico biopic (non dissimile da una
tipica fiction del servizio pubblico) va incontro all’esigenza di far avvicinare
il pubblico a una figura di rottura. Tuttavia, una forma così ortodossa non
sembra quella più indicata per accordarsi allo stesso Mieli.
Ci
sono alcune soluzioni intriganti, certo, dal design minimalista della dimora
dei Mieli alle zie che non parlano mai. E non si può non apprezzare il Banco
del Mutuo Soccorso in colonna sonora. Ma, oltre all’interesse verso una storia
così importante, c’è poco altro.
"La strada dell'eccesso conduce
al palazzo della saggezza"
(W. Blake)
Della serie “forse non tutti sanno
che…” Il 31 agosto 1979, alla 36° edizione del Festival di Venezia venne
presentato il film “Org”, del
regista argentino Fernando Birri.
Film particolarissimo, non venne mai
distribuito nei cinematografi.
La curiosità riguarda Francesco Di
Giacomo, che fa una piccola e particolare apparizione nel ruolo dell’uccello
Phoenix.
Sotto il link di youtube (non so se è
il film completo o una parte), lo si può vedere al minuto 47.41.
Un modo per ricordare anche il padre
del nuovo cinema latino-americano.
Fernando Birri, Gabriel García
Márquez e Fidel Castro
Trama
Alcuni anni dopo l'esplosione di un
fungo atomico, un uomo bianco di nome Zohommm, uno nero chiamato Grrrr e una
donna, Shuick, sono protagonisti di un triangolo amoroso. Grrrr aiuta Zohommm a
conquistare l'amata Shuick. Ma tra legami di sangue, seduzione, e sospetto,
subentra la gelosia di Zohommm, il quale dopo aver scoperto che Shuick si è
concessa all'amico, si suicida decapitandosi. Grrrr, alla vista dell'amico
decapitato, decide di seguirne le sorti.
Quando Shuick li trova, tenta di
saltare da una scogliera, ma viene fermata da una Sibilla elettronica che
riporta in vita i due amici. A Shuick spetta il compito di ricollegare le
teste, ma queste vengono scambiate dai loro rispettivi corpi; da ciò nasce un
dibattito su chi debba stare con la donna, chi l'ha avuta col corpo o chi col
sentimento.
Fermo 1979, foto Giuseppe Saluzzi
L'uccello Phoenix, o Phoenix in
inglese, è un uccello mitico della mitologia greca, che è stato consumato
dall'azione del fuoco ogni 500 anni, ma poi è risorto dalle sue stesse ceneri.
Quando giunse il momento di morire,
creò un nido di spezie ed erbe aromatiche, depose un singolo uovo, che fece
schiudere per tre giorni e il terzo giorno bruciò. La Fenice bruciò
completamente e, quando ridotto in cenere, lo stesso uccello Fenice, sempre
unico ed eterno, riemerse dall'uovo. L'uccello Phoenix è molto forte, al punto
da trasportare persino elefanti.
Secondo il mito, possedeva vari doni,
come la virtù della guarigione delle sue lacrime. L'uccello Phoenix ha anche il
potere di trasformarsi in un uccello di fuoco, ed ha le dimensioni di un'aquila.
Con la sua morte in un modo diverso, l'uccello Phoenix è diventato un simbolo
di forza, purificazione, immortalità e rinascita fisica e spirituale, essendo
una delle grandi figure realizzate nei tatuaggi.
Si ritiene che l'uccello mitologico
sia apparso in Oriente, e in seguito fu adattato dai Greci. Secondo alcuni
miti, viveva in una regione che includeva la zona del Medio Oriente e
dell'India, raggiungendo l'Egitto, nel Nord Africa. Molto presente nella poesia
araba. Perfino la Chiesa cattolica ha una relazione con l'uccello della Fenice,
i cristiani credevano che l'uccello fosse un simbolo della risurrezione di
Cristo. Si diceva che le ceneri della Fenice fossero così potenti da poter
persino risuscitare i morti.
È stato presentato il 31 agosto 1979
alla 36ª edizione del Festival di Venezia.
Non è mai stato distribuito nei
cinematografi.
«Ho allestito un grande schermo
davanti all'ingresso del cinema. Questo non è mai stato destinato ad essere
proiettato in una sala cinematografica, ma come parte di qualcos'altro, parte
di un evento, quello che oggi si potrebbe chiamare un impianto. Così ho
installato questo maxischermo davanti all'ingresso del cinema e, con un grosso
coltello che avevo preso in India, alle tre in punto salgo una scala e comincio
a tagliare lo schermo, squarciandolo, in modo che il pubblico venisse
attraverso lo schermo. Il pubblico ha fatto da sfondo per il film. Invece di
collocare lo spettatore di fronte allo schermo come spettatore attivo, ho
voluto che entrasse nel film.»
Paese di produzione:Italia, Argentina
Anno:1979
Durata:177 min
Rapporto: 2,35:1
Genere: drammatico, fantascienza
Regia: Fernando Birri
Soggetto: Thomas Mann
Sceneggiatura: Fernando Birri
Produttore: Terence Hill
Fotografia: Mario Masini, Ugo Piccane, Mario
Vulpiani, Huston Simmons, Cesare Ferzi
Montaggio: Fernando Birri, Paolo Zamattio,
Giuliano Presutto
THE SAMURAI
OF PROG : The white snake and other Grimm tales II
Seacrestoy2021Multinazionale
Di Valentino Butti
Abbiamo appena finito di raccontare “The
lady and the lion and other Grimm tales I” che abbiamo già tra le mani “The white snake and other Grimm tales II” dell’instancabile
trio (allargato…) The Samurai Of Prog.
Una produzione copiosa che ha il
merito di non perdere in qualità, anche grazie alla struttura “aperta” dell’ensamble
che ha le sue colonne portanti nei soliti Marco Bernard (basso), Kimmo
Pörsti (batteria-percussioni) e Steve Unruh
(voce-violino e flauto).
La
seconda parte della serie dedicata alle fiabe dei due fratelli tedeschi è
incentrata su sei composizioni, delle quali tre interamente strumentali, per un’ora
circa di musica emozionante.
Numerosa
la presenza di artisti italiani, autori di tutte le musiche e delle liriche
presenti nell’album, ma anche protagonisti, con altri ospiti stranieri, delle
esecuzioni dei brani stessi.
“The tricky
fiddler” (musiche di Marco Grieco) è ispirata alla favola “Lo strano
violinista” e ha l’onore di aprire il lavoro. Protagonista assoluto o quasi il
violino di Unruh. Melodie da festa campestre rinascimentale di grande
suggestione, si confondono con l’afflato rock, fornito dalle chitarre di Marcel
Singor e Carmine Capasso e dalla ritmica del duo Bernard-Pörsti, e con
quello più soft delle tastiere dell’autore, senza tralasciare qualche
incursione nella classica.
Alessandro
Di Benedetti (Mad Crayon-Inner Prospekt) è l’autore di “Searching
for a fear” (tratta dalla fiaba “Storia di uno che se ne andò in cerca
della paura”), dieci minuti ad altissimo impatto emotivo, infarcita, com’è, di
saliscendi sonori di ottima fattura in cui si inseriscono i vocalizzi di Paula
Pörsti.
Mimmo
Ferri (tastiere e chitarre elettriche) è il compositore di “The devil
with the three golden hairs” (“I tre capelli d’oro del diavolo”), il primo
dei brani cantati… da ben quattro “singer” a cui sono affidati altrettanti
personaggi della fiaba. Unruh (il re), Daniel Fäldt (il diavolo), Marco
Vincini (il ragazzo) ed Elisa Montaldo (la madre). Il risultato è
ottimo: le quattro voci si integrano perfettamente ed il sound è un omaggio,
non solo al prog anni Settanta, ma anche (e forse di più…) a quello della “rinascita”
dei primi eighties, con la chitarra “romantica” di Capasso. Non manca qualche accenno
folk con gli immancabili interventi del violino e del flauto di Unruh e quelli
di Rafael Pacha al mandolino ed al saz baglama (un particolare strumento
a corde di origine turca).
“The
travelling musicians” (“I musicanti di Brema”) è il brano “offerto” da Luca
Scherani (tastiere, ovviamente). Anche qui i personaggi della fiaba hanno
altrettanti interpreti alla voce. Unruh impersona l’asino, “Lupo” Galifi
il cane; Elisa Montaldo il gatto; Alessio Calandriello il gallo; Daniel
Fäldt il primo ladro, mentre ad Alessandro Corvaglia è affidata la voce
del secondo ladro. Oltre a Bernard e Pörsti la line up del brano annovera anche
Marcella Arganese alle chitarre. Il brano è senza dubbio complesso ed il
“dare voce” ai vari personaggi, soprattutto se ora cantano in inglese, ora in
italiano, è una sfida non da poco, che però risulta vincente, riuscendo a
mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore lungo tutti gli undici minuti del pezzo.
La musica, poi, talvolta soffice ed in altri momenti più energica, riesce a far
risaltare al meglio le qualità dei vocalist impegnati.
Non
passa inosservata (e ci mancherebbe…) la lunga (oltre diciassette minuti) “The
white snake” opera “totale” di Oliviero Lacagnina con testi di Massimo
Gori. Divisa in cinque sezioni, si presenta subito alla grande con l’epica “Prologue”
che ricorda un poco le migliori “contorsioni” degli EL&P con, in aggiunta,
il violino di Unruh e la chitarra di Singor ad offrire un prezioso contributo.
Inizia poi la parte cantata con, pure qui, Unruh pronto a duettare stavolta con
Camilla Rinaldi, gradita sorpresa dell’album. La qualità musicale si
mantiene alta sia nei momenti acustici (splendida la quinta sezione “The wedding”)
sia in quelli più concitati con le tastiere dell’autore grandi protagoniste,
mentre l’impianto melodico talvolta risulta poco fluido. Ospite del brano anche
Rafael Pacha (flauto irlandese e chitarra acustica) e Marc Pepeghin
(corno francese e tromba).
La
reprise di “The trickly fiddler” chiude in maniera piuttosto enfatica
questa ennesima fatica dei tre samurai. Ancora una volta la band (seppur sui
generis) non tradisce le aspettative e la nostra fiducia. Il sound è sì
riconoscibilissimo ed i tratti distintivi ormai consolidati, ma la magia rimane
inalterata anche per la qualità che ogni ospite offre. Ed in fondo è questo ciò
che conta.
Francesco Di Giacomo – Alan King,
provetti calciatori
(Villa Ada –Roma 1978) foto archivio
Gianni Nocenzi
Racconti sottoBanco
In un mondo dove tutti pubblicano
“selfie” e sgomitano per apparire (senza raccontare nulla) è bello sentire
storie di “altri tempi”, fatte di passione vera e di amore per il Banco del
Mutuo Soccorso.
L’ex calciatore Sergio Mari racconta
il suo rapporto tra calcio e musica del Banco.
Wazza
Sergio Mari
Dai ricordi di Sergio Mari, ex
calciatore, scrittore ed artista.
"Soldi non ce n'erano, voglia di
vivere e curiosità tanta invece, specie se avevi tredici anni. Il mondo era
racchiuso in un pallone - super tele 70 lire e si giocava in venti - e nella
musica. Io e Teo una coppia perfetta, io con il pallone ci sapevo fare, lo
sentivo e infatti... e lui a scegliere dischi: Yes, Genesis, Jethro, V.d.G.G.,
Tangerin, ma anche Orme, Pfm e Bms. Ora lui il biglietto come cacchio l'aveva
avuto non lo so, perché il Banco sarebbe stato a suonare a Coperchia di Salerno
e io in quel campo sportivo ci avevo giocato, me lo sentivo mio. Quando però si
trattava di concerti io nel campo non ci entravo dall'ingresso giocatori ma
scavalcando il muro che lo cingeva tutto. Così fu. Suonarono che eravamo tutti
seduti a terra, nella polvere della terra battuta. "Adesso vi chiediamo
un momento di grande attenzione", disse Francesco al microfono. E
intonarono Traccia II. Il silenzio coprì il campo tutto, il mondo e la
fantasia del nostro futuro. Stavamo facendo, noi lì a terra e loro sul palco,
un gran gol. La partita, infatti, la vincemmo tutti: loro soddisfatti della
nostra attenzione, noi per quella musica da stipare in testa per sempre.
Teo ed io tornammo a casa un po’ più
adulti."
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"1987 Derthona- Centese: Ventura, il
mio allenatore, per dirmi in camera mia che sarei restato in panchina ci mise
45' e realizzai la cosa solo quando lo vidi avviarsi nel corridoio.
Allora mi sparai nell'orecchio Traccia
II con il mio walkman.
Della partita non fui dall'inizio, ma
entrai nei venti minuti finali e feci gol come Tardelli in Spagna.
Urlavo e gridavo viva il Banco, viva
il Banco!
Mi presero per pazzo, ma non feci
caso a ciò: ascoltare quei gruppi che Teo mi proponeva a 13 anni già mi aveva
precluso tante amicizie, anche di ragazzine.
Ma mai, io e Teo ci siamo sentiti
soli.
Per amici veri? Francesco e il
Banco."
Sergio Mari ha giocato nella Cavese
per 11 anni ma non consecutivi, poi Akragas con Scoglio allenatore, Centese due
anni con Specchia e Ventura, poi Fasano con Franzon, Juve Stabia con Brivio e Improta…
Francesco Di Giacomo, voce del Banco
del Mutuo Soccorso-Olio su tela
foto di Antonio Mottola
“Un uomo non muore mai se c’è
qualcuno che lo ricorda.”
(Ugo Foscolo)
21 agosto
Ci sarai sempre. Buon viaggio
Capitano!
Wazza
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Lui, dinoccolato, fermo nelle
immagini in bianco e nero, con una salopette ed una barba folta. Lui, voce
lirica, che rinnega l'estetica esteriore, ma è tremendamente bello dentro.
Nell'essere intellettuale acuto, nel disegnare con la voce traiettorie
improbabili, dove storie di importanza sociale e di amore si intersecano come
una tela piena di colori. "Un'idea che non puoi fermare", uno slogan
postumo dei reduci del Rock, degli ultimi Mohicani di un fiume carsico che
scorre, silenzioso, ma dirompente nella sua interiorità. Febbraio è il mese
della pausa, tra Carnevale, Ceneri e ripartenze, è il mese dell'oblìo,
dell'esaltazione e del castigo, ma la musica è dietro l'angolo dell'immaginario
collettivo. 25 febbraio 2012, data da segnare con evidenziatore sull'agenda
della storia musicale reggina. Banco del Mutuo Soccorso e Orme, la storia del
Rock Progressivo italiano, segnato dagli stilemi degli arrangiamenti di
Vittorio Nocenzi, dalla voce e dai testi classici di Francesco Di Giacomo, ma
anche dalla dirompenza veneziana, tra rock e melodia di Michi Dei Rossi delle
Orme. È immagine indelebile, il Teatro Cilea a Reggio Calabria che apre le
porte al Rock, con ogni ordine di posto pieno di gente, con madri, padri, figli
e nipoti, uniti dal sottile suono evocativo della musica e delle canzoni.
Dinoccolato, tra i grandi suoni della band, tra le luci, tra gli applausi,
entra sul palco, con la grazia dell'Essere Artista, tra le luci entra Lui, la
sua voce è come una dolce lama tagliente "Prima o poi un pensiero arriverà
a portarmi via, come un angelo nero mi confesserà che il cielo un sasso. Siamo
stati e saremo parole e gesti nel battito del cuore. Ma il giorno come vero
quello non arriva mai, ma arriverà, arriverà come una foglia, che non cade giù,
ma che non si pente, ma va più in su e buca il cielo, ogni storia è a sé, Dio
che ne sa se Dio credesse in me, se Dio credesse in me..." L'importanza
delle parole, l'amanuense ghirigoro sui fogli bianchi. La Musica è l'estensione
dell'Anima attraverso i suoni e le parole. Il tempo sembra fermarsi, tra i
Festival dei Controtendenza degli anni Settanta, il Rock che rompe gli schemi
del bel canto, il rinnovarsi di una "New Generation" che sogna
"Love and Peace", ma poi sembra fermarsi su sogni acidi, ricordando
decenni dopo, che ogni adrenalina è nel nostro cervello, nella nostra
interiorità. Le canzoni, le parole, le copertine dei dischi, un brand
"Banco del Mutuo Soccorso", tra storie di evoluzione in
"Darwin" o spezzoni di "Messeri", di romanticismo epico, di
strumentazioni da "Garofano Rosso" colonna originale di un film, di
prime timide storie di diverse identità sessuali, tenere e dolci in "Paolo
Pa". Tra periferie e giardini romani, tra sogni metaforici di "Moby
Dick", tra viaggi "on the road" sulle strade dell'America
Latina, tra prigioni e innocenti condannati da un’idea. È la grandezza dei suoni
e delle parole. il Banco del Mutuo
Soccorso, che negli anni Settanta viaggia oltre il tempo, con il Rock
Progressivo che contamina gli stili in Italia, ma si distingue da gruppi come
Orme e PFM per la personalità di Francesco Di Giacomo e per le musiche
classiche e gli arrangiamenti di Vittorio Nocenzi. Il viaggio nel tempo reale è
una variabile impazzita, che si schianta in una sera di febbraio, fermando la
voce di Francesco Di Giacomo, l'acuta intelligenza, l'umiltà dei Grandi. 21
febbraio 2014. Un forte impatto scuote l'anima e il cuore dei reduci del Rock,
degli ultimi Mohicani delle emozioni, di generazioni cresciute nell'interiorità
e negli scontri fisici ed ideali tra destra e sinistra, tra figurine Panini e
fumetti del "Male". Tempi dispersi, mai fermi, ma sempre scorrevoli
come fiumi carsici. Perchè il Rock,la Musica, l'Arte, sono fiumi carsici, che
implodono.
Fermo immagine al Teatro Cilea datato
25 febbraio 2012, senza nostalgie, ma con la consapevolezza di avere
distribuito emozioni, con la musica e le parole, perché "Ci sono tante
Rock band, ma un solo Banco del Mutuo Soccorso..." e Francesco Di Giacomo,
un anno dopo il suo viaggio verso il cielo, sorride beffardo, sul palco del
Cilea. Mani sui fianchi, cappello e salopette, è proprio vero l'emozione,
"è un'idea che non puoi fermare". E non ci fermiamo sulle strade del
Rock, noi reduci degli anni Settanta, disperse masse silenziose, fiumi carsici
e promotori di interiorità nascoste. Slow Motion su una figura di un uomo sul
palco con cappellino, salopette, lunga barba, sguardo tagliente e voce che si
alza verso il cielo. R.I.P. Francesco!!!
Un
tuono! Fortissimo. Se non fosse che ormai siamo geograficamente in Africa
settentrionale, avrei pensato di trovarmi nel bel mezzo di un downburst. Invece
questo immenso rombo di cielo altro non è che “The
Last Black”, il nuovo album dei savonesi Vanexa.
Uscito
il 10 luglio per la Black Widow Records (gloria sempre), rappresenta il
quinto lavoro in studio della prima heavy metal band italiana di sempre. Già,
perché i nostri iniziarono ad affilare i coltelli tra il 1978 e 1979,
diventando di fatto una delle realtà HM più importanti del nostro paese
(insieme a Vanadium, Death SS, Sabotage, ecc), tant’è che furono gli headliner.
al mitico festival di Certaldo del 1983. Certo, fra il loro primo “Vanexa”,
uscito nello stesso anno (dopo una serie di demo di livello) e questo “The Last
Black” sono passati parecchi anni, segno di un’attività in parte discontinua,
ma anche di una tenacia che ben pochi altri possono vantare. E il suono. Sì,
perché basta mettere la puntina sul vinile (dopo averlo attivato, mi raccomando,
voi dediti del triste mp3) per capire quanta passione e quanta forza (e tecnica)
i Vanexa dimostrino ancora oggi. Dico questo a ragion veduta, siccome la sezione
ritmica è ancora quella di un tempo e, come sappiamo tutti o quasi, è la base
di ogni gruppo che si rispetti; Sergio Pagnacco al basso e Silvano
Bottari alla batteria sono un motore senz’altro ben oliato, ma avente
un’energia che pochi ragazzi di 20 anni possono vantare. Gli altri membri sono Andrea
“Ranfa” Ranfagni alla voce (singer anche dei rinnovati The Trip, di cui ho
scritto pochissimo tempo fa), solido, versatile, ugola d’acciaio, e gli axe-men
Artan Selishta e Pier Gonella (già con Necrodeath e Labyrinth),
gemelli nell’interazione, sicuri, fantasiosi, spaccaossa, di indubbio gusto.
Il
gruppo, visto il grande lasso di tempo che ha attraversato, ha subito vari
cambi di formazione, comunque tenendosi sempre su cifre stilistiche di alto
valore, pubblicando, oltre al debutto omonimo sopracitato, “Back From The
Ruins” (1988), “Against The Sun” (1994), “Too Heavy To Fly” (2016), ma anche
“Metal City Live” del 2011 (dal vivo), la compilation “1979-1980”, tanti
singoli, e facendo parte delle più importanti raccolte di heavy metal nostrano.
Ed ora “The Last Black”, che rappresenta un’evoluzione del loro concetto
musicale, mescolando il loro storico orientamento NWOBHM con episodi più
rilassati, dando più importanza ai testi, di fatto evolvendosi verso terreni più
attuali. Non si parli di suono snaturato, ma piuttosto di crescita, di
progresso, di avanzamento di un’idea di heavy rock che non potrà mai morire,
grazie allo sviluppo e al miglioramento.
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Si parte
dalla prima traccia “The Last In Black”, un inno, non c’è che
dire, che fin da subito farebbe muovere il piedino e la testa anche a Lazzaro;
compiuta e di sicura presa, è innegabilmente un ottimo apripista.
Con “My
Grave” si passa a un grandioso esempio di deciso HM, sferzante nel giro
chitarristico, con una batteria martellante ma intelligente e avente nella voce
di Ranfa una granitica sicurezza.
“Earthquake”:
partenza soffusa, d’attesa, poi un’esplosione di inventiva che passa dalla
sospensione all’esplosione heavy prog della seconda parte. Un fragoroso
terremoto sonoro. Notevole.
“No
Salvation” è fin qui la traccia più in Vanexa-style. Fa specie il
sontuoso amalgama dimostrato. Grrrrreat!
Si
prosegue con “Perfect”, il pezzo che non ti aspetti: una ballad
di soave bellezza, tanto delicata nell’incedere quanto intensa
nell’interpretazione, che si trasforma grazie alle chitarre che ne fanno
un’opera.
Quando
tanti anni fa leggevo H/M e Metal Shock sognavo pezzi simili. Ve ne
innamorerete.
“Armless”
è il monolite del disco: otto minuti e mezzo di durata per una canzone che ha
le caratteristiche di una suite. Una crescita continua di emozioni, di
espressive svisate, di trovate armoniche che urlano quanta maturità e quanta
musicalità vivano nei Vanexa del 2021. Un castello dove i nostri ci conducono
con piglio sicuro in ognuna delle sue mille stanze. Qual è il contrario del
termine delusione? Ora ne avrete il significato.
“Dr.
Strange” torna a un ambito più classic, ma è il pezzo su cui è
impossibile star fermi, siccome il ritmo e il refrain ne fanno un tanto
divertente, quanto saldo episodio dove il termine heavy metal calza a pennello.
È lui. Con “Dead Man Walking” si viaggia in territorio amico ai
nostri, intraprendenti e sfidanti della propria formula. Anche così si vince.
“Like
A Mirage” ha nel roccioso incedere la bellezza tutta del rock: che sia
hard, come in questo caso, che sia soft, ma resta e resterà lo zenit del
sentire musicale, ossia spingere al massimo le proprie emozioni per raggiungere
quelle degli altri. Riuscitissimo.
“I
Don’t Care” è una dichiarazione d’intenti che fa (anche) dei Vanexa il
presente della musica italica, un qui e ora esportabile come non mai.
Lanciateli fuori da questi confini e manterranno le loro promesse.
Ultima
canzone di questo considerevole e rilevante album è “Hiroshima” e
si chiude con avvenenza; netta e senza fronzoli è il timbro che i nostri
mettono sopra la loro firma. Tesa e tirata, offre un emozionante lavoro
d’insieme che fa presa immediata.
I Vanexa
sono questi: nati in un altro tempo, viaggiatori mirabili ed ora, ancora, qui
per stupirci.
I due lavori precedenti di Shane Atkinson, deus ex machina
degli statunitensi Evership, mi avevano
favorevolmente impressionato con il loro prog che annoverava tra gli ispiratori
(storici) principali i connazionali Styx, gli Yes, ma anche i Queen.
Confermata la line up del precedente “Evership II”, la band
con il recente “The uncrowned king Act 1”,
sembra aver confezionato il lavoro sinora più ambizioso e maturo: un concept
album (a cui seguirà l’Act II) basato su un’opera dello scrittore Harold Bell
Wright, del 1910, dal titolo omonimo.
La partenza, fulminea, è affidata a “The pilgrimage”
(malgrado i primi due minuti siano quasi… new age…) con synth ridondanti che
profumano di Styx, ma anche di Yes (West…), soluzioni sinfoniche, arpeggi di
chitarra che accompagnano la splendida voce di Beau West, le note soffuse del
piano… insomma, uno zibaldone sonoro molto, ma molto gradevole.
L’atmosfera cambia decisamente con la cupa “The voice
of the wave”, introdotta dal cinguettino di uccellini e basata sulla
voce “distorta” di West.
Segue un’altra mini-suite, “Crownshine/Allthetime”,
anch’essa infarcita di vibranti tastiere (di Shane Atkinson) e da qualche
importante contributo della chitarra di John Rose (su “Crownshine”) e di James
Atkinson (su “Allthetime”). Cori magistrali, sempre in modalità Styx/Kansas,
arricchiscono il tutto di melodia ed energia.
I dieci minuti di “The tower” sono anche quelli
più convenzionali e mainstream e, forse, i meno appetibili per il pubblico dei “die-hard”
fans prog.
“The voice of the evening wind”, interpretata
da Poem Atkinson, ci riporta alle atmosfere rarefatte e piuttosto oscure di “The
voice of the wave”.
Seguono “Yettocome/Itmightbe” di oltre sedici minuti:
la prima quasi un “out-take” di un brano degli Styx se il compositore fosse
stato Dennis De Young trattandosi di una ballata sinfonica con anche chitarre
acustiche e piano. Più rock, la seconda, come se la direzione fosse passata al
duo Young/Shaw.
Chiusura, sottotono, con la sciapa e piuttosto banale “Wait”
che, solo qualche gradevole coro, riesce a farle raggiungere la sufficienza.
L’album, nella sua interezza, è comunque decisamente
gradevole e riuscito e potrebbe accontentare quella fascia di progsters meno “cerebrali”
e più “fisici” …
Ci
sono periodi della vita in cui è necessario fermarsi, riflettere, ascoltarsi ed
ascoltare.
Il
difficile periodo che, noi tutti, stiamo vivendo oramai da quasi due anni, ci
ha logorato, messo a dura prova il nostro vivere quotidiano.
Allora
quale modo migliore che affidarsi alla buona musica, quella che ti fa viaggiare
col pensiero e con l’anima?
Il
disco che desidero proporvi ci dà tutto questo. Sto parlando del terzo lavoro
dei torinesi Glad Treedal titolo “Bambù”.
Nati
nel 2013 dall’incontro di Marcello Capra, chitarrista attivo già nei ’70
con i Procession - ma già prima coi suoi Flash - con Lanfranco Costanza,
flautista, armonicista di lunga esperienza.
L’idea
è quella di creare una musica che possa fondere Oriente e Occidente, spirituale
e libera come si faceva una volta.
Con
questi ingredienti esce “Onda Luminosa” (2015) col percussionista
indiano Kamod Raj a completare la formazione.
Il
disco riscuote ottimi consensi sia di pubblico che di critica spronando i Nostri
a proseguire col progetto.
Il
secondo capitolo, “Ostinatoblu”, esce due anni dopo e ha un taglio più
folk blues, sempre di grande impatto emotivo e sempre suonato con gran maestria
dalla band.
In
questo progetto è presente alle tastiere Mario Bruno, vecchio amico di Marcello.
Anche
per questo lavoro, inutile dirlo, gli apprezzamenti non si contano.
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Eccoci
al nuovo “Bambù”, uscito da poco per la prestigiosa etichetta Radici
Music Records di Aldo Coppola Neri.
“Le otto tracce di Bambù, nascono dopo sensazioni in luoghi
naturali come foreste, laghi, altipiani, prati e isole vere o immaginarie”.
Per
questo nuovo lavoro il trio si presenta con Marcello Capra alle chitarre e alla
composizione, Lanfranco Costanza al flauto, armonica e voce, Massimiliano Andreo
ad una miriade di percussioni.
L’album
si apre proprio con la tittle track ed è subito grande musica, una fusione di
stili con il Brasile protagonista. La chitarra si occupa perfettamente del
tappeto melodico ed il flauto svolazza soave tra le trame percussive del brano.
“Funky
Sister” accelera il ritmo e, oltre alla grande perizia strumentale dei
tre, possiamo apprezzare la voce di Lanfranco Costanza. Qui si respira aria
fresca su un bel ritmo funky, come suggerisce il titolo.
Si
prosegue con “Giro Di Boa”, bellissimo brano accarezzato da una
dolce malinconia ma che poi cresce in intensità. Chitarra sempre molto presente
(bello il solo nella parte centrale) e perfetta a lanciare i solo di flauto con
le percussioni che sembrano una vera batteria. Gran pezzo!
“Memoris”,
inizio arrembante ma poi addolcito dal flauto... si apprezza anche l’armonica
che da un tocco americano al tutto.
Una
splendida chitarra introduce “Mongolian Knight”, grande esempio
di world music dove le spezie asiatiche incontrano una certa psichedelia anni
‘60 di stampo anglosassone.
Chiudete
gli occhi e fatevi trasportare da questi incantevoli suoni.
Ancora
oriente nella splendida “Onda Luminosa”, un viaggio mistico tra
chitarre, percussioni e flauto: da ascoltare più volte e ad occhi chiusi.
L’album
si chiude con le altrettanto belle “Prateria” - delicato pastello
sonoro che ci porta lungo immense distese verdi - e “Viaggio All’Isola Di
Tinder”, con un bel intro di chitarra molto delicato a cui fanno
seguito le percussioni ed il flauto.
La
stupenda immagine di copertina (un dipinto) è opera di Lanfranco Costanza.
Il
disco è una autoproduzione del gruppo ed è stato stampato per l’etichetta
Radici Music Records
Accendete
il vostro stereo, mettetevi comodi sul vostro divano magari con un calice di
buon vino, e preparatevi per questo viaggio emozionale... la musica di questo
splendido trio vi porterà lontano e, ne sono sicuro, quando finirà l’ultima
traccia del disco vi alzerete e schiaccerete il play un’altra volta.
Una
promessa. Chi è uomo vero la mantiene. Pino Sinnone è fra questi.
Raggiunto Joe Vescovi durante i giorni della sua grave malattia (che purtroppo
lo portò alla morte nel 2014), durante un profondo dialogo che sapeva di
commiato, Pino, dietro richiesta dello stesso Joe, promise di portare avanti la
musica dei Trip.
Promessa
fa rima anche con scommessa; già, perché come unico membro vivente della
storica e ineguagliabile band del nostro amato Prog sapeva benissimo che
avrebbe dovuto reclutare nuovi musicisti che fossero all’altezza almeno tecnica
dei loro predecessori, ma senza la necessità/volontà di farne paragone (inutile
il solo pensiero); sapeva che avrebbe dovuto rimettersi in pista per, di fatto,
creare una nuova band che suonasse in modo smagliante il proprio repertorio;
sapeva benissimo che il proprio onore e il proprio orgoglio lo avrebbero
aiutato in quest’impresa, perché tale rimane. Una grande responsabilità,
insomma.
Dopo
una fase di rodaggio dei componenti tramite varie e tante prove,
successivamente al cambio di alcuni i essi, The New Trip furono pronti
per tornare ai concerti, cioè la classica prova del nove.
Puntiglioso
e preciso come il proprio drumming, Pino Sinnone si dichiarò soddisfatto e
felice della nuova esperienza (vi rimando all’intervista che gli feci per
MAT2020 di qualche tempo fa), anche al cospetto di alcuni malpensanti che
volevano inquadrare (sbagliando) quest’avventura come una mera operazione
nostalgia. Questi signori, ora e per sempre, dovrebbero tacere visto che nel
2022 i Trip usciranno col loro nuovo disco, costituito da materiale
completamente nuovo. Wegg, Joe e Billy sorrideranno sicuramente da
lassù, in segno di approvazione per questa fatica che Pino, a 79 anni, tramuta
in gioia quotidiana con la sua straordinaria solarità e la sua immarcescibile
tenacia.
Prima
The New Trip, ora e ancora e finalmente The Trip.
Nel frattempo, però, c’è spazio anche per una commemorazione: i primi 50 anni
di “Caronte”, ossia il loro secondo, immenso, meraviglioso disco, uscito
nell’anno di grazia 1971. Quindi, perché limitarsi a riproporlo live (cosa che
sta già avvenendo, Porto Antico Prog Fest a Genova già effettuato e 2Days Prog
+ 1 Festival a Veruno ad attenderli, più altre date)? Perché incensarlo senza
metterci del proprio per rinverdirlo e ricolorarlo di gioventù? Ecco, quindi,
il progetto dal titolo “Caronte – 50 years later”,
ossia l’intero album risuonato dagli attuali Trip, con in aggiunta una nuova
composizione e la riproposizione di due canzoni alle quali Pino è
particolarmente legato.
Uscito
pochi giorni fa per la Ma.Ra.Cash records, registrato durante il
lockdown in vari home recordings, mixato e masterizzato da Alberto Callegari
all’Elfo Studio di Tavernago (PC), avente una davvero intensa copertina pensata
e realizzata da Max Marchini (deus ex machina della Dark Companion
records) insieme alla grafica Lidia Grillo (autrice del notevole
libretto interno), fin dal primo ascolto colpisce per la freschezza dei suoni,
dalla professionalità col quale è stato voluto e realizzato, dalla perizia
tecnica e bravura con la quale è stato suonato.
Non è
molto facile avvicinarsi ad un monumento della musica tutta (non solo italiana,
of course), carpirne i segreti e rivestirlo di nuovi abiti: non dimenticatelo.
Per cui, i Trip capitanati dal grande Pino alla batteria, Tony Alemanno
al basso e cori, Carmine Capasso alla chitarra, sitar, theremin e cori, Andrea
D’Avino alle tastiere e cori, Andrea Ranfa alla voce, hanno dato una
profonda e granitica prova di sé stessi, senza dimenticarci di Christian
“Kri” Sinnone alla batteria negli ultimi due pezzi del disco. C’è anche
spazio per il padre di Carmine, Antonio Capasso al rombo della sua
Harley Davidson in “Two Brothers”!
Il
disco si apre con “Acheronte”, potente ed evocativo intro, il cui
compito è proporre l’immagine del fiume che separa la vita dagli inferi, una
dark song che vuole accompagnare l’ascoltatore sulle sue rive in attesa della
barca che trasporta le anime maledette verso l’eterna sofferenza. Caronte il
traghettatore e simbolo di questo capolavoro, che ovviamente prese spunto
dall’opera dantesca, è quindi musicato da “Caronte I”, senza
dubbi una delle migliori composizioni che il Prog abbia espresso a vari
livelli. Ricordo ancora con nostalgia le chiacchierate a casa di Joe Vescovi,
quando abitava a Salsomaggiore Terme (PR), quindi dalla mie parti, in cui mi
sottolineava l’importanza che i Vanilla Fudge ebbero sul suo stile compositivo,
“la prima band Prog in assoluto, ben prima dei King Crimson”, mi diceva; io, in
aggiunta, lo investivo col mio entusiasmo proprio (e anche) per questa canzone,
che, a mio modo di vedere e sentire, è sensazionale e che, a ben sentire il
risultato su questo nuovo lavoro, non ha perso un grammo di virtuosismo, di
magia, di psichedelia. Joe, abbracciandomi, mi ringraziava, facendomi
emozionare. Evidenziando il grandioso suono ricavato da Callegari, si può
tranquillamente affermare che gli attuali Trip hanno raggiunto un amalgama
notevole, grazie al duro lavoro di preparazione cui si sono sottoposti.
Ravvivato lo stile Trip, senza dubbio alcuno.
“Two
Brothers”, suite di rara bellezza, propone in primis la rara vocalità
di Ranfa, che può tanto, raggiungendo picchi di feeling difficili per tanti
altri. La capacità compositiva di Joe e Billy insieme bastonava tantissime band
dell’epoca, non ce n’era (quasi) per nessuno, e qui bisogna solo inchinarsi al
loro cospetto. La band, ora, gira a mille, Pino suona come se il tempo non
fosse passato, ma dominandolo in maniera impeccabile.
“Little
Janie” era l’unica forma-canzone del disco dell’epoca, dedicata all’amata
Janis Joplin, a un anno dalla sua scomparsa. Deliziosa.
“Ultima
Ora e Ode a Jimi Hendrix” è un altro monolite della storia del Prog,
qui affrontato dai nostri con estrema solerzia. Capasso è un asso della
chitarra e qui lo dimostra appieno; in ogni caso questi dieci minuti di suite
offrono a tutti i componenti del gruppo la possibilità di esprimersi ai massimi
livelli, perché solo così si può (e si deve) confrontarsi con l’originale.
“Caronte
II”, che chiudeva l’LP originale, è un saggio delle originali doti che
i Trip avevano in fase compositiva; in “Caronte – 50 years later” i Trip
evidenziano quanta competenza e buon gusto possono aggiungere a quanto ancora
è.
Gli
ultimi due brani del disco sono “Una Pietra Colorata”, che
fa parte del primo omonimo lavoro dei Trip, del 1970: una canzone piacevole cui
Pino tiene molto, e si sente. Risuonata con piglio notevole, è qui portata a un
livello di attualità pieno di profumi di gioventù.
Chiude
“Fantasia”, uno dei momenti salienti dei concerti dell’epoca e di
quelli attuali, dove la band dimostra una coesione di inconsueto e speciale
spessore.
La
vita si costruisce con la vitalità. Promessa mantenuta. Scommessa vinta.