Banco del Mutuo Soccorso - Banco del
Mutuo Soccorso
Dischi Ricordi
3 maggio 1972
Commento di Ale Dematteis (Musicshockworld)
Roma l’Antica, la Madre, La Culla, la
Sapiente, la Spavalda, la Strega, l’Egocentrica Dominatrice.
Visse e conquistò, conobbe la
tristezza nella sua favola sanguigna per poi, inevitabilmente, scomparire un
poco dal centro del mondo. Ma continuò a vivere.
Fu il fermento di anni fulgidi, di lividi, di cavalli che tornavano a correre tra le sue strade, di anime con fame e sete di coscienza in fase di aggiornamento a far sì che tornò soprattutto ad essere la madre risorta in quella Cultura che sembrava sfinita, in punto di morte.
Erano gli anni 60, la brina e la brillantina di giovani anime che incominciavano a creare un precedente: compattarsi, discutere, confrontarsi e scontrarsi, ma decisi a non lasciare agli adulti il tutto. Era stata determinata una serie di prese di posizioni.
E nel cuore della Divina Lupa nacque il Banco del Mutuo Soccorso, la band corsara, con il polso fermo, occhi dilatati a creare cerchi e a fare dei dubbi un generoso punto di partenza.
Arrivarono e sconquassarono la noia, le incapacità, la mediocre modestia qualitativa di anime dormienti e dettero impulsi nuovi, dirompenti, efficaci.
Usarono la forza dell’inventiva, della creatività, del trasporto emozionale e del pensiero per dare un calcio ai limiti. Non erano soli: nel mondo e in Italia questo fermento vibrante stava contagiando, senza far correre il rischio della morte bensì il suo esatto contrario, perché c’era un numero crescente di anime desiderose di veder esplorare e di esplorare anch’esse territori diversi.
La Musica come sommatoria di Arti e di studi, di fluidi in cerca di canali mentali con approcci diversi.
Il Banco fu un clamore così capace di stupire che fece crescere la convinzione che non fossero i miracoli, le belle canzoni, i begli album a dare un po’ di sollievo, ma piuttosto un impegno che si specificava nella sonda, nell’antenna, nella libertà di unire il tempo e la coscienza in un fluire di intuizioni, esercitazioni, di luoghi mentali e fisici da scoprire e da mostrare al mondo. La band Romana ha reso la musica una lente di ingrandimento, un manuale che esplicitava, espandeva e non un Bignami, una veloce e inutile sintesi: era giunto il tempo di ampliare i mezzi coscienti, per farli abbracciare con progetti dalla architettura complessa.
L’Italia dei primi anni 70 era bellissima, con i suoi giovani dai mille entusiasmi, le loro lotte, i loro campi da seminare e coltivare dentro delle menti lucide e capaci di accoglienza. La band aveva ottenuto l’interesse, il supporto di persone che studiavano i movimenti barocchi di musiche che cercavano quella nuova forma creativa di provenienza inglese: il Progressive.
Un matrimonio di saggezze varie più che un incrocio di stili musicali. La forma canzone, la prevedibilità, la fatica di quel ripetere un cliché ormai privo di grandi tensioni venne evitato per creare una proposta di classe, di gran classe, estremizzando ma senza per questo diventare futile. Anzi.
La ricchezza di quei voli entrò nella modalità di brani e di album dalla faccia tonda, ricca, gonfia di tesori pieni di senso, che arricchivano l’ascolto.
Venne il tempo di esordire, di lasciare all’eternità l’uso della propria creatività e il giudizio. Furono sei damigelle dagli abiti pieni di fiori, fango, con le loro storie trasversali, con le lenti pulite di un cannocchiale nuovo di zecca, a consegnare ufficialmente all’Italia una risorsa senza briglie.
Ancora oggi non esiste modo di sintetizzare l’abbondanza, di ridurre i ragionamenti, di poter fermare i sogni davanti a questo primo album che sempre insegna, getta sconforto e al contempo regala sorrisi rassicuranti.
Sei uomini per sei damigelle: universi e contorni a trovare contatto, suites a scoprire l’intensità e la validità di movimenti che si allontanavano dall’inizio del brano per consegnarci il cielo.
Un esempio di come la complessità abbisogna di un approccio lento, di un ascolto con gli occhi sopra la storia del mondo, di immagini che sembrano annebbiate ma che invece mostrano che la vera confusione era l’essere divenuti dei bambocci davanti alla banalità, che è il lato scomodo e fuorviante della semplicità.
Cavalcate e galoppate con sulla schiena personaggi affannati ma liberi, note e suoni a frantumare una fragile solidità che si era fatta pesante e priva di senso. I sei creano storie, linguaggi, messaggi da dover assorbire con respiri diversi in un caleidoscopio non del tutto prevedibile. Sono fiamme, scosse elettriche, tasti, rulli di tuoni, voci che tutte insieme offrono al sangue una linfa nuova, sconvolgente.
Il Progressive non andrebbe definito, il suo stile estetico non vuole parole che deviino dalla sua essenza. Si allarga e fugge dai perimetri, dalle forme geometriche, dalle sentenze. Mostra il fianco alla critica ma avanza, contro tutti e a volte anche contro sé stesso.
Questo album presenta cambi di ritmo, sezioni varie dentro gli stessi brani ma ciò che è importante è capirlo, non definirlo. E ancora oggi c’è da intendere cosa abbia dato origine a questa carrellata di gioielli senza tempo. Si evidenziano elementi metaforici, l’uso della fantasia come elettrodo, regalando scintille e punti di contatto tra situazioni spesso molto distanti tra loro. Tutto questo conduce alla presenza di elementi criptici che rendono complesso l’intendimento, ma senza per questo motivo annoiare o rendere impossibile il beneficio.
Questa è una musica che parte dalla testa per posizionarsi nel cielo, una musica che diviene fisica come conseguenza ma che non desidera rimanere terrena. Il disco contiene manciate di follia, riflessi di esagerazioni che trovano nello sviluppo un respiro che si gonfia di consapevolezze potenti.
Ascoltarlo è mettere la mente davanti
ad uno scompiglio necessario: malgrado una produzione non eccelsa, questo
diventa un pregio perché ci lascia il profumo degli anni 70, di una generazione
che sapeva creare una serie di bing-bang intellettuali che il tempo non ha
sconfitto, non ancora.
Lo studio, la versatilità,
l’intenzione di una sperimentazione sensata diede a questo lavoro modo di
conoscere mondi bisognosi di espressioni e ascolti. Una danza nella quale le
sei damigelle hanno giocato a mosca cieca, a nascondino, a rubare il fazzoletto
per far compiere all’album voli in assenza di gravità. Determinante, rilevante,
curò le ferite e diede spazio alla bellezza, creò uno specchio fedele delle
difficoltà umane del tempo.
È preziosissimo sin dalla sua
copertina: è un investimento nel quale continuare a mettere ciò che ha valore,
in cui inserire le monete dei nostri pensieri, atteggiamenti, modalità di
espressione, facendone l’unica banca che non sfrutta i risparmi.
Le atmosfere mostrano attività
ludiche e seriose, nella giostra dei gioielli seminascosti di cui Francesco Di
Giacomo dipinge parole sulla nostra pelle piena d’olio.
Musicisti eccelsi a innaffiare
l’indole di un insieme che genera dipendenza, trasporto, scuotimenti come
indagini del pensiero con la bocca spalancata.
Che dire? Non si può perdere
l’occasione di entrare nel giardino di questo mago con le sue damigelle e di
esplorarne i frutti…
Formazione
Francesco Di Giacomo - voce
Vittorio Nocenzi - organo Hammond,
clarino, voce
Gianni Nocenzi - pianoforte,
clarinetto piccolo mib, voce
Marcello Todaro - chitarra elettrica,
chitarra acustica, voce
Renato D'Angelo - basso
Pierluigi Calderoni - batteria
Canzone per Canzone
Il medioevo è il portatore sano di una damigella che si annuncia: l’inizio dona un brivido sinistro, dove Vittorio Nocenzi mostra la complessità del suo talento, creando un mantello dove il cavallo alato corre impetuoso. Un ingresso torbido che dà subito la misura di un album che scavalcherà la storia e gli stili, dove Astolfo deve decidere se ingannare con false immagini: non accadrà, perché sia queste che le prossime canzoni vivranno di immagini pure e vere.
Il cavallo ora corre sul rock del suo
tempo con il sudore che gronda dalle dita di Renato D’Angelo con il suo basso
facoltoso, la chitarra blues inglese di Marcello Todaro e gli schizzi
pianistici di Gianni Nocenzi. La voce di Francesco canta come un raggio di sole
con gli occhiali che vedono e descrivono la gloria e il sangue caduto per farlo
diventare brividi senza sosta. Si nuota dentro i pugnali che trovano le lance e
che feriscono: la musica è un calvario leggero, dai passi sognanti. La
malinconia, la forza, la dinamicità dei sei si amalgama in un lato descrittivo
immenso degno degli eroi di quel tempo, Led Zeppelin su tutti. C’è modo e
spazio per sconvolgere con il finale drammatico, applausi infiniti dentro il
Colosseo.
La Psichedelia succhia dal Barocco e
si tuffa sulla strada per lasciare il suo odore, in un breve passaggio di
settantotto secondi che scuote mentre i secoli si accoppiano su note angeliche
e un vocalizzo sacro tenuto quasi nascosto.
Il cielo si riempie di colori, la
quarta damigella balla, mentre tutto si fa sperimentale, in una pentola sonora
dove troviamo l’immensità del talento dei sei maghi a rapporto con la
strategia.
Dai Deep Purple, ai Led Zeppelin,
alle cantine buie di una Londra schizzata, arriviamo a un mappamondo scenico
che brilla di avamposti, di idee che fanno del ritmo il signore dalla voce
grossa e delle precipitazioni melodiche la scintilla di nuovi percorsi
possibili.
Un miracolo complesso che diventa qualcosa di più di grande di una canzone: una performance artistica di livello immenso, dove tutti si mostrano dotati di mani dai poteri incommensurabili, trame fuori dalla comprensione ma piene di logiche che avanzano ascolto dopo ascolto. Quattro movimenti, quattro praterie a guardarsi da vicino, dove le doti tecniche sono il presupposto di un bagliore che illumina il giardino del mago così indaffarato a creare stratagemmi e illusioni dalla pelle lucida. Il canto, il controcanto, la storia che scivola sulle orecchie incredule, la chitarra e il piano che si fanno spiare dal basso e dalla batteria che diventano complici sublimi: c’è tutto e di più qui. Raggiunta la perfezione, l’incanto diventa storia infinita: gli spazi incontrati sono comete in avvicinamento, le schegge di chitarra e i tasti del pianoforte visitano l’ignoto e si resta sgomenti, in un coma lucido, vigile, ma che non consente movimenti. Quanta preziosità, allora, in questa composizione che mette l’attualità sociale di fronte alla sua collega di qualche secolo prima, in un precisare meticoloso che rende tutto chiaro.
Meglio concludere la storia di un
clamoroso miracolo con una canzone che non rinneghi i minuti precedenti ma che
sia una sorta di memoria, un ribadire l’intensità usando la modalità di farlo
in due minuti. Riuscendoci perfettamente. L’impeto, la lezione di scorribande
piene di grazia di Paganini e la potenza evocativa di Beethoven fanno da
annunciatori a questi tuoni dai canti settecenteschi in una cascata tumultuosa,
torbida e magnifica.
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