MARCO
BERNARD: The boy who wouldn’t grow up
Seacrest Oy-2023-Multinazionale
Di Valentino Butti
Dopo anni come responsabile dei
numerosi “Colossus Project” (album a tema collegati alla fanzine finlandese
omonima), e altrettanti come membro fondatore dei “Samurai of Prog”, nonché,
ultimamente, collaboratore per gli album solisti di Kimmo Pörsti e di Rafael Pacha, finalmente il bassista italiano (da
tempo residente in Finlandia) Marco Bernard decide di pubblicare un album a proprio nome. “The boy who wouldn’t grow up” è il titolo del
lavoro appena pubblicato con la copertina curata sempre dal “fidato” Ed
Unitsky.
“Il ragazzo che non voleva crescere”
non è solo la storia di Peter Pan, ma, in fondo, pure quella di Bernard che,
attraverso i suoi mille progetti, continua a coltivare i suoi sogni di
gioventù. L’album, come tutti i precedenti che vedevano la presenza del
bassista, si avvale dell’ormai consolidato team di collaboratori di alto livello
che contribuiscono a confezionare i sette brani presenti. Eccezion fatta per “Ouverture”,
musicata da Octavio Stampalia tutti gli altri pezzi sono stati composti da
artisti italiani come Alessandro Di Benedetti (Inner Prospekt, Mad Crayon),
Mimmo Ferri, Andrea Pavoni (Green Wall), Marco Grieco e Oliviero Lacagnina
(Latte e Miele).
La presenza italiana è numerosa anche
a livello esecutivo con, tra gli altri, Carmine Capasso (chitarra elettrica),
Daniele Pomo e Riccardo Spilli (batteria) e Marco Vincini (Mr. Punch e
G.O.L.E.M. alla voce).
“Ouverture” (come da titolo) è l’ottima presentazione dell’opera: uno strumentale barocco ed enfatico caratterizzato, oltre che dalle tastiere di Stampalia, dal violino e dal flauto di Unruh e dal corno francese e dalla tromba di Marc Pepeghin, che conferiscono un’atmosfera solare al pezzo. Con “Never never land” entriamo nel vivo del lavoro con momenti acustici molto intensi (la chitarra di Ruben Alvarez e il flauto di Sara Traficante) e pervasi da una leggera malinconia. Un “signor” singer John Wilkinson (voce nel brano in oggetto), una ritmica robusta (il binomio Pörsti e Bernard), lunghe ed articolate frasi strumentali che talvolta sfiorano il jazz rock, senza dimenticare elementi più sinfonici ed epici, caratterizzano la seconda metà del brano. Scanzonata e decisamente new prog è (anche se molto riuscito è l’inserto jazzy sul finale, perfetto per il corno francese e la tromba di Pepeghin) “The lost boys” confezionata su misura per la voce di Marco Vincini e impreziosita dagli interventi di Beatrice Birardi allo xilofono. “The home under the ground” è una composizione di Andrea Pavoni concepita quasi come una pièce teatrale o un musical con Peter Pan (voce di Cam Blockland), Wendy (Audrey Lee Harper) e “i ragazzi perduti” (Steve Unruh) protagonisti del racconto. Un “botta e risposta” delle tre voci, molto divertente, su cui si appoggiano le musiche create da Pavoni. La splendida e un po’ inquietante voce di Mattew Parmenter (Discipline) ci accompagna in “The pirate ship (Hook or me)” frizzante composizione di Marco Grieco che furoreggia con il suo set di tastiere con ripetuti ed eccellenti “solos”. Importante, nel finale, il contributo del flauto di Sara Traficante, prima che la scena ritorni a concentrarsi sulla voce di Parmenter. Lo strumentale “The return home” di Lacagnina inizia sulle note del basso di Bernard per poi aprirsi alle tastiere dell’autore, ai dialoghi con il violino, ai “solo” di chitarra elettrica (Charles Plogman) e ai duetti chitarra classica, flauto e ancora violino. Si chiude con “Lunar boy (“Asylum” reloaded)” un vecchio brano degli Elektroshock (la band di Bernard degli anni ’70) rivisitata in chiave prog, da Grieco, in modo sgargiante. Insomma, cambiano i monicker, cambia qualche protagonista, ma la formula rodata di Bernard si dimostra ancora vincente e non possiamo che augurarci che lui e i suoi “Lost boys” continuino a deliziarci con questi lavori.
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