Introduzione a “Pensieri sotto la mattonella”
Di Michele Caprini
Qualche giorno fa, lasciando la splendida Biblioteca Universitaria che aveva ospitato “1973, l’anno cruciale della musica”, attraversavo il centro storico cittadino in compagnia di un amico, Mauro Costa, tra gli organizzatori dell’evento.
I temi lasciati in sospeso erano ben più ampi e importanti del tempo in cui erano stati forzatamente circoscritti. Roba da parlarne per dei giorni, naturalmente, e si discuteva della domanda proposta, poco prima, alla platea: che ne sarebbe di “Dark Side of the Moon”, se fosse pubblicato oggi. A partire da qui, ogni riflessione generazionale è quasi obbligatoria, e di questo si parlava: cosa, della musica di allora, è durato nel tempo, per quanto e per chi, oltre il culto di chi l’ha vissuta.
Proprio mentre scendevamo verso il Porto Antico, attraverso i nostri caruggi, ci è venuto spontaneo pensare a Fabrizio De Andrè, che di questi è sempre l’icona del risarcimento morale e gode di una popolarità uguale, se non più larga, a quella che iniziò a raccogliere nei Sessanta. Tra le tante cose proposte ai miei figli, della piccola, ma non irrilevante, parte che ne è stata accettata – il perché, tutto sommato, è evidente – proprio Faber è il più importante. Forse ha vinto il genitore, come diceva Mauro, forse il linguaggio, come pensa invece un altro amico musicista, Massimo Gori, che ha partecipato “1973…”, oppure ancora l’uno e l’altro e non solo. Alla fine, comunque, inevitabile richiamarmi a quanto avevo scritto nel decennale della sua morte, nel 2009. Non ne cambierei una virgola, e non me ne stupisco: Faber è passato tra gli anni come il coltello nel burro, e il mio ricordo con lui.
La canzone - Ho un bellissimo ricordo
delle “risse” furibonde
che, ai tempi dell’università,
partecipavo con altri sulla lettura delle canzoni. "Il pescatore" di
De Andrè ne fu il classico esempio.
Metafora dell'eucarestia; no, il pescatore è Dio; ma cosa dici, il pescatore
è morto; ma non dire belinate;
e allora, cos'è la specie di sorriso,
se non la prova di un omicidio? Ma quale omicidio, somaro, l'assassino e il pescatore
si conoscevano da prima, forse in prigione.
Mai una sintesi decente a comporre la diatriba e, più probabilmente, non era la sintesi a interessarci.
Pensieri sotto
la mattonella
gennaio 2009
di Michele Caprini
Diciamola tutta, poche volte Genova ha trovato modo di dividere qualcuno con l’Italia o il mondo intero, e questo qualcuno non è quasi mai stato profeta in patria. Se fosse stato per la mia città, Colombo se ne sarebbe rimasto a casa, e te la do io l’America. Poi, però, i miei concittadini si arrabbiano se oltre oceano pensano che il Navigatore sia Cristobal e non Cristoforo.
Fabrizio De André non è andato a convincere nessuna regina di Spagna della bontà dei suoi progetti, ché nessuno gli credeva neppure in famiglia e certo sarebbe stato cacciato a pedate, ma ha comunque pensato bene di andarsene da Genova, “la città che ti manca appena sei finalmente riuscito a lasciarla”, per vivere in Sardegna e lavorare a Milano. Inoltre, per motivi ai più incomprensibili, l’organizzazione, lo studio e la diffusione del suo ricordo e del suo patrimonio artistico, resi istituzionali nella fondazione a lui intitolata, sono affare dell’Università di Siena.
Nulla di cui stupirsi, quindi, se a Pegli non si trova una via dedicata a Faber come in altri luoghi d’Italia e ci si deve accontentare di una graziosa e piccola mattonella che, apposta al muro del palazzo di Via De Nicolay 12, recita:
” Qui è nato Fabrizio De Andrè. Pegli lo ricorda per il suo talento, per il suo spirito solidale, per avere dato risalto universale alla lingua di Genova.
14 luglio 2001”
a ricordare che lì, il 18 febbraio del ’40, venne al mondo un poeta e un musicista tra i più grandi del nostro novecento. Fabrizio Cristiano De Andrè, “Bicio” all’inizio della sua vita, solo “Fabrizio” quando incominciò a stupirci, e “Faber” in ultimo (nonostante il nomignolo gli fosse stato confezionato molto tempo prima da Paolo Villaggio), quando l’autobus su cui viaggiava già stava andando verso la rimessa.
Quella mattonella segna il posto in cui vivo, al punto di diventare un riferimento imprescindibile per le prime mappe della delegazione (Pegli non è un quartiere di Genova perché fino al ventennio faceva comune a sé) costruite da mia figlia, che a otto anni la prende a misura delle distanze dal lungomare, dal parco dei suoi giochi, dalla casa di una sua compagna di scuola. La mattonella di De Andrè. Non una via, non il supermercato lì vicino, né l’adiacente piccolo ponte sulla ferrovia.
Tre mesi fa, circa, mentre
scendevo per Via De Nicolay ho incontrato due giovani, lui e lei, impegnati a fotografare la mattonella. Abbiamo
iniziato a scambiare due parole, e
lui (divertito dalla diversità del luogo rispetto a ciò che immaginava:
"ti aspettavi la casa di Via Del
Campo?" gli ho chiesto) mi ha confidato che stava scrivendo la sua tesi di laurea sull'estetica di De Andrè. Consolante, ho pensato.
Faber era evidentemente nel mio destino, confezionato dal caso che mi volle bambino a cento metri da quella mattonella, quando questa ancora non esisteva e lui era solo un giovane cantautore genovese, abbastanza sospetto. Eppure, il mio viaggio nella musica, che avevo appena iniziato masticando i quarantacinque giri dei Beatles portati in casa da mia sorella, fu irrimediabilmente segnato dalla sua "Guerra di Piero", ascoltata ossessivamente quando ancora dovevo compiere dieci anni e lui era lontano dalla celebrità degli anni successivi.
Da allora, tre ricordi si stagliano netti sugli altri: lo stupore e l'orgoglio di trovarlo più volte materia di studio e di programma per gli alunni di mia madre, insegnante di lettere al liceo (a duecento metri dalla mattonella che sarebbe stata), il retro della busta di "Non al denaro, né all'amore, né al cielo", con l'intervista a Fernanda Pivano, nel 1971, e la prima volta che ascoltai le note di Creuza de mä in un lungo viaggio di lavoro, lontano da Genova, nel 1984.
Mi capita di pensarci quando passo davanti a quella mattonella. E, spesso, guardando il mare subito sotto, sono tentato dal pensare che la genesi di quel capolavoro appena citato fosse proprio in quel luogo in cui Faber venne al mondo. Questo perché, a circa trecento metri verso ponente, poche parole incise su una pietra austera ricordano i pescatori che, centinaia d’anni fa, da Pegli partirono per fondare le “colonie” del Mediterraneo: tra queste, Carloforte sull’isola di San Pietro, nelle propaggini di sud-ovest della Sardegna.
Il luogo merita l’attenzione del naturalista e del glottologo. Sarà quest’ultimo a introdurre il visitatore alla lingua locale che a me, per quanto ne fossi ben avvertito, risultò quanto di più strano si potesse ascoltare così lontano da casa: il dialetto genovese pronunciato con la cadenza sarda. “Contaminazione”, vorrebbe la vulgata odierna, per me invece ben di più, la lingua e forse la vita universale indicata dagli anonimi, inconsapevoli marinai di "Creuza de Ma’".
Condivido con Faber alcuni luoghi e situazioni: ho fatto il suo stesso liceo 15 anni dopo di lui, e spesso me ne è stato raccontato da chi gli viveva accanto tutti i giorni. Io e lui abbiamo condiviso, credo con una contraddittorietà di sentimenti molto simile, lo stesso professore di religione, uomo di chiesa tra i pochi per cui mi levai il cappello, che assunse per entrambi la stessa coraggiosa difesa.
Prima, alla fine degli anni Cinquanta, salvò il giovane, lavativo De Andrè dalle furie del padre - così per lo meno mi fu raccontato - per la sua non impeccabile applicazione agli studi, che Fabrizio peraltro continuò a tradire anche nel periodo universitario (Medicina, Lettere, Giurisprudenza prima della resa, se mai da parte sua vi fu battaglia). Poi, si mise in mezzo, in compagnia di un’altra professoressa di pari coraggio o incoscienza, tra il sottoscritto ed il consiglio d'istituto, non perfettamente convinto della compatibilità tra l’austerità dell’insegnamento classico e la mia ostinata convinzione che i destini del paese e del pianeta non si giocassero lì, ma altrove.
Tutto questo avvenne senza che mai io gli avessi lasciato intuire la possibilità di un credito anche minimo alla fede che informava la sua vita. Né, penso, che lui avesse maggiori speranze sulla rettitudine di Faber: partite perse in partenza, proprio quelle giudicate imperdibili da un prete come lui, preoccupato della redenzione più che del castigo. Uno di quelli, insomma, che non potevano non piacere a chi fece del “cristianesimo non credente” premessa del suo scrivere e musicare.
Il liceo “Cristoforo Colombo” è appena sopra la città vecchia, quella, per capirci, dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi, teatro di alcune tra le figure che hanno consegnato a De Andrè il credito illimitato dei suoi primi successi. Se uscivo da scuola prima del dovuto, o non ci entravo affatto, chiunque fossero i miei compagni del momento non veniva mai messo in discussione l’obbligo morale della focaccia in Via del Campo, a non più di trenta metri dal portone della “graziosa” della canzone. Sia detto, tra l’altro, che costei in realtà sulla carta d’identità faceva di nome Giuseppe, come raccontò poi lo stesso De Andrè ma, si sa, ad andare tra Via del Campo, Piazzetta dei Fregoso e Vico Croce Bianca, questa è la sorpresa minima da mettere in preventivo, oggi come allora.
Il profumo della focaccia riusciva ad imporsi a quello dei coloniali venduti nella bottega immediatamente a fianco e ad altre arie decisamente meno nobili, ed arrivava da un forno molto vicino al negozio di dischi del compianto Gianni Tassio che, per alcuni anni dopo la morte di Faber, ne fece un museo aperto a chiunque volesse ritrovare tracce della vita del suo amico. Tracce magari sfuggite ai tanti biografi, ufficiali e no, che dal ’99 cercano di dare forma finita ad un profilo troppo complesso per poter essere ricondotto ad alcuni apparentemente saggi e definitivi punti fermi.
Tra questi, i più diffusi riguardano il tentativo, dichiarato o meno, di sublimare in una omnicomprensiva e polivalente “umanità” qualsiasi tratto della vita e del lavoro di Faber, cosa che non condivido. L'agiografia non riesce mai a spiegarti compiutamente un personaggio, tantomeno uno della sua complessità.
Nel caso di Faber, non ho mai compreso il superficiale e per molti versi sciocco bisogno di beatificazione di cui lui stesso, ne sono sicuro, avrebbe riso fino a non poterne più. Credo invece che un’interpretazione corretta dell’opera di un grande, e lui lo è, abbia bisogno a supporto tanto delle positività che solitamente finiscono per caratterizzare il suo ricordo quanto delle contraddizioni e ambiguità, perché proprio quelle hanno dato frutti impagabili.
La sua trasversalità, ad esempio. Mia moglie partecipò con altri amici al suo funerale - io purtroppo ero dall’altra parte d’Italia - e lo ricorda come una delle cose più "trasversali" a cui abbia mai assistito. Tutte le età, tutte le classi, le provenienze più lontane, i gruppi sociali più disparati (dall'alta borghesia ai disperati delle sue ballate), etnie assortite (tra cui indio americani, gitani, immigrati di ogni sorta), musicisti apparentemente inconciliabili (trallalero genovesi, vocalisti sardi, esponenti del conservatorio e della musica colta, rockers, cantautori, chissà cos'altro ancora), gente di teatro e una moltitudine di chissà chi.
Di solito, da chi partecipa ad un funerale anche un passante può immaginare qualcosa della vita di chi se ne è andato. La trasversalità che ho citato avrebbe invece indotto alla confusione chiunque, se non si fosse trattato di Faber. Ora, sono molti ad affermare la trasversalità come certificazione della grandezza del personaggio, e si spingono più in là, chiedendosi se questa non sia stato il frutto irripetibile delle idee di Fabrizio e del suo modo di metterle in musica.
Dico che è vero, ma solo in parte: le cose che ha cantato erano grandi e profonde, ma lui poteva dirle, quando ad altri non sarebbero state perdonate. Dipende dal valore, obietterebbero alcuni. Vero, ma posso assicurare che il suo ambiente originario, la borghesia cittadina, ha sempre considerato benevolmente le sue mattane, che per molti erano il classico dei classici della jeunesse dorée: la voglia trasgressiva di scendere agli inferi (qui a Genova il centro storico, epicentro cittadino del peccato) per offendere i genitori (di solito), per curiosità giovanile verso altri modelli sociali, per fare qualcosa di più divertente o emozionante che in certe famiglie proprio non è dato.
Di solito, questa fase rientra dopo qualche anno, e molti miei compagni del nostro stesso liceo erano esattamente così. Forse erano già vecchi a 18 anni, perché la follia giovanile che avrebbe caratterizzato una piccola parte della loro vita era inevitabile, quanto il rientro nei ranghi dopo la maturità.
È gioventù con il freno a mano tirato, perché non ne hai a prerogativa il rischio e l’incognita. La grande differenza tra Faber e i tanti sta proprio qui: queste mattane - normalmente “a scadenza” - per lui sono state invece viatico e premessa alla comprensione di mondi e persone a lui teoricamente inibiti, diventando maturazione definitiva e codice artistico che avrebbe caratterizzato tutta la sua carriera.
Da “impunito” come tanti altri (è sufficiente leggere le sue biografie per accorgersi, tra testimonianze dirette e le sue divertite, se non orgogliose, ammissioni, che era proprio così) al gigante che conosciamo. E credo che Faber ne fosse ben cosciente e ci giocasse sopra.
Da trent’anni a questa parte ho fatto da tramite a Faber per molti amici, parlandone o scrivendone. Nel tempo, ho guardato con attenzione proprio al suo pubblico, perché una parte di questo appartiene ed è funzionale alla sua lirica.
I tanti motivi positivi della sua trasversalità li conosciamo tutti, è così anche per le contraddizioni? Credo di no: Faber assegna la sua poesia ad una persona/emblema, a volte calata in tempi e luoghi diversi e lontani, e spesso non cosciente dell’origine dei suoi guai e di ciò che rappresenta nella società. È lui a conoscere i suoi rapitori, quando questi non sanno nulla di sé. Ritratti unici, da completarsi con l’intelligenza e l’onestà di chi ascolta, traducendo le valenze senza tempo nel nostro tempo. Ma, qui, la sua grandezza diviene trasversale non solo per ciò che è in sé, ma anche perché alcuni la possono cauterizzare, chi non capendo, chi adattandola al proprio bisogno.
Una buona parte dell’ambiente originario di Fabrizio può infatti continuare a godere della sua opera senza troppe contraddizioni, recuperando un anarchico romantico ed elegante, non un gruppo scomodo. Chi mai potrebbe avere paura di Marinella, di Piero, di Miché, di Andrea? Nessuno, sono personaggi ai margini del nostro vivere, sui quali esercitare una naturale compassione. Non così per altri autori della canzone italiana e internazionale, per i quali mancano a volte i nomi e i cognomi ma gli eroi e le situazioni del nostro triste presente sono riconoscibili uno ad uno.
Faber non lo avrebbe mai fatto, avrebbe decontestualizzato tutto e utilizzato qualcuna delle sue geniali astrazioni poetiche per chiamarsi fuori, parlando delle stesse cose. Non per opportunismo, ma semplicemente perché la sua trasversalità gli consentiva solo la via morale e non lo schieramento di campo. E per fortuna, mi viene da pensare: non avesse fatto così, magari non sarebbe stato lo stesso.
Sulla grandezza della “naturale” ambiguità di Faber ci sarebbe da scrivere per dei mesi: la sua valenza è sempre multipla - la quantità di anime che può riconoscersi nelle sue canzoni è enorme - ed è spontanea, non costruita. È nel suo modo d'essere, nel suo ambiente, nei suoi testi. Lui non sta truffando nessuno, lui è quello. Scrive e canta da anarchico e laico in un quadro ripetutamente cristiano, ad esempio (chi ricorda la discussione eterna sull’identità de Il Pescatore? Io in facoltà, una volta, ci feci notte con non meno di venti assatanati e le maledizioni del custode).
Ma non per questo la giudico negativamente: anzi, con il tramite di quella ambiguità lui riesce a vedere cose e figure che a nessun altro, o quasi, è dato di vedere. Il suo respiro è diverso, e permette un'identificazione più agevole ai molti. Se poi aggiungiamo chi ha voluto vicino a sé (Reverberi, Piovani, De Gregori, Bubola, Pagani, solo a citare i primi che occorrono alla mente) a indirizzarlo su strade musicali a lui sconosciute o di difficile declinazione, la distribuzione della sua opera ha toccato anche gruppi di ascoltatori che con le sue sole metriche non sarebbe riuscito a raggiungere.
Questo è un altro dei motivi per cui penso che Faber non sia semplicemente un’individualità di valore adatta a sensibilità e preferenze diverse, ma un vero ecosistema artistico che ha integrato in un’espressione unica moltissime componenti “altre”. Questo ha finito per penalizzare proprio i suoi collaboratori, che a buon diritto potevano vantare, in alcuni casi, meriti maggiori del dovere accettare il solo nome suo sulla copertina del disco. Integrandone e valorizzandone, però, le diverse eccellenze in un risultato irripetibile.
Dieci anni fa, tra le sette e mezza e le otto del mattino, la telefonata di un amico mi raggiungeva, mentre ero in viaggio, per informarmi della morte di Fabrizio. Di solito vivo la morte delle celebrità con il naturale distacco verso persone con le quali la tua vita nulla condivide e spesso con il sospetto delle sciocchezze e degli inganni tipici del culto della figura. Credo di non essere il solo a farlo.
Ma se succede, non ci sono spiegazioni diverse al fatto che il loro lavoro ha inevitabilmente toccato qualcosa che già sei, anche senza di loro, ma che da loro ti arriva più forte, più chiaro, arricchito dalla narrazione, dalla musica, dalla recitazione. Fino ad assumere un valore universale che tu partecipi, lieto che non sia più soltanto tuo e, anzi, nobilitato dalla condivisione di molti.
Pochi giorni fa sono passato sotto la mattonella e mi sono avviato al battello che mi porta in centro. Sono sceso al porto antico, ho attraversato la piazza dove una volta venivano caricate le merci da parte di qualche strano, incomprensibile figlio di puttana che lui avrà certo cantato, e prima di arrivare in ufficio ho incrociato Via del Campo.
Chissà se qualcuna di quelle graziose, attive già dal mattino forse a recuperare una notte povera, ha mai sentito parlare di lui. Dieci anni dopo, mi manca più di prima, ho pensato. Dieci anni dopo, però, io sono ancora uno tra i tantissimi che pensano a ciò che ha scritto come una delle misure possibili del proprio sentire.
Genova Pegli, 11 gennaio 2009
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