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mercoledì 4 dicembre 2024

Frank Zappa il 4 dicembre del 1993

Il 4 dicembre 1993 se ne andava Frank Zappa, “genio” della musica e non solo.

A seguire sono elencate le sue “massime” e le sue “minime”.

Per non dimenticare…

Wazza

LE MASSIME E LE MINIME DI FRANK ZAPPA

MUSICA

I musicisti classici vanno al Conservatorio. Quelli rock, nei garage"

(al programma Nightflite della Radio Svedese, 1980)


INFORMAZIONE E MUSICA

“Informazione non è conoscenza, conoscenza non è saggezza, saggezza non è verità, verità non è bellezza, bellezza non è amore, amore non è musica. La musica è il meglio”. “Senza la musica per decorarlo, il tempo sarebbe solo una noiosa sequela di scadenze produttive e di date in cui pagare le bollette”.

SUL SERIO

È davvero una tragedia quando la gente prende le cose sul serio, è una tale assurdità farlo, in qualsiasi caso. Io ho fatto l'onesto tentativo di non prendere niente sul serio: sto lavorando su questo atteggiamento da quando ho diciott'anni".

(da "No Commercial Potential: The Saga of Frank Zappa", di David Walley, 1972)

 

MUSICA CLASSICA

"Ve la spiego io la musica classica, nel caso non lo sappiate: la musica classica è musica scritta da un sacco di tizi morti tanto tempo fa. È un formato musicale, proprio come la musica da alta classifica. Perché un pezzo sia considerato di musica classica deve essere conforme agli standard accademici vigenti quando è stato scritto. Credo che la gente abbia il diritto di divertirsi: nel caso veda differenze rispetto agli standard classici, credo che sia solo un bene, per la sua sanità mentale".

(da "Cocaine Decisions", 1983)

 

LA VERDURA PREFERITA

"La mia verdura preferita? Il tabacco"

(al Today Show della NBC, 1993)


NOSTALGIA

“Non è necessario immaginare che saranno il fuoco o il ghiaccio a por fine al mondo. Ci sono altre due possibilità: una è la burocrazia, l’altra la nostalgia”.

 

ARRANGIAMENTO

“Ogni stecca ripetuta due volte è l’inizio di un arrangiamento”.

 

GIORNALISMO MUSICALE

Il giornalismo musicale?

“Buona parte del giornalismo rock è gente che non sa scrivere, che intervista gente che non sa parlare, per gente che non sa leggere”. “Scrivere di musica è come ballare di architettura”.

(in un'intervista alla rivista inglese Mojo,1993)

CATTIVI MAESTRI

“Se passi una vita noiosa e miserabile perché hai ascoltato tua madre, tuo padre, il tuo insegnante, il tuo prete o qualche tizio in TV che ti diceva come farti gli affari tuoi, allora te lo meriti”.

PROGRESSO

“Senza deviazione dalla norma, il progresso non è possibile”.


GOVERNI SOCIALISTI

"Qualsiasi tipo di governo socialista produce brutta arte, inerzia sociale, gente molto triste, ed è più repressivo di qualsiasi altra forma di governo".

(da "My Afternoon with Frank Zappa", Larry Rogak, 1983)

 

IGNORANZA

Non siamo troppo severi nei confronti della nostra ignoranza: è quella che ha reso grande l'America!" (al Tonight Show, 1988)


MOTTO

“Il mio motto è: ‘Qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, per un motivo qualsiasi”.


DROGA

“La droga non è cattiva. La droga è un composto chimico. Il problema è quando quelli che prendono droga la considerano una licenza per comportarsi come teste di cazzo”.

 

APPLAUSI

“Sono stanco di suonare davanti a gente che applaude per il motivo sbagliato”.

 

BIRRA

“Un Paese è veramente un Paese quando ha una compagnia aerea e una birra. E alla fine è di una bella birra che si ha più bisogno”.


JAZZ

“Il jazz non è morto, ha solo un odore un po’ curioso”.

 

MONDO

“Nella lotta tra te e il mondo, stai dalla parte del mondo”.

 

STUPIDITA'

“Alcuni scienziati affermano che l’idrogeno, proprio perché così abbondante, è il mattone fondamentale dell’universo. Io dico che nell’universo c’è più stupidità che idrogeno, e ha una durata di vita maggiore”.


MAGGIORANZA SILENZIOSA

 “A tutti i fighetti del mondo e a quelli carini voglio dire una cosa: ci sono più brutti figli di puttana come noi che persone come voi!”.

 

CIBO

“Dio abbia misericordia degli inglesi per il cibo orribile che questa gente deve mangiare”.

 

FRANCIA

“Non esiste l’inferno. Esiste la Francia”.

 

ROCK AND ROLL

“Il rock’n’roll era quell’orribile specie di hillbilly suonato da Elvis Presley. A me piacevano Howlin’ Wolf e Jimmy Reed e tutto quel genere di roba”

 

DISCO MUSIC

“La disco music è adatta allo scopo per il quale è stata progettata. Fornire un accompagnamento ritmico alle attività delle persone che desiderano avere accesso agli altri per una potenziale futura attività riproduttiva”.


GROUPIES

“Sono l’avvocato del diavolo. Noi abbiamo le nostre adoratrici che vengono chiamate ‘groupies’. Ragazze che offrono i loro corpi alle rockstar, come si offrirebbe un sacrificio ad un dio”.

CRISTIANESIMO

“L’essenza del cristianesimo ci è illustrata dalla storia del Giardino dell’Eden. Il frutto che era proibito raccogliere si trovava sull’albero della Conoscenza. Il significato è che tutte le sofferenze sono dovute al tuo desiderio di capire com’è che vanno le cose. Saresti potuto rimanere nel Giardino dell’Eden se solo avessi tenuto chiusa quella cazzo di bocca e non avessi fatto alcuna domanda”.

(da un'intervista a Playboy, 1993)

 

IL ROCK AND ROLL E LA MUSICA SERIA

"Il mondo del rock and roll è del tutto assurdo, ma quello della musica seria è decisamente peggio" (intervista a "London Plus", 1984)

 

NECROLOGIO

Frank Zappa: 'Non me ne frega un cazzo se si ricorderanno di me'.

(intervista a Nationwide,1983)

 




martedì 3 dicembre 2024

Gérald Massois: “Demain à l’aube”: commento di Alberto Sgarlato


 

Gérald Massois: “Demain à l’aube”

(Autoproduzione, 1° dicembre 2024)

di Alberto Sgarlato


Demain à l’aube”, autoproduzione consegnata al grande pubblico a partire dal 1° dicembre 2024, è il nuovo album di Gérald Massois, raffinato e brillante polistrumentista, compositore e arrangiatore francese. Quest’opera si pone come secondo capitolo di una trilogia, iniziata sette anni fa con il precedente lavoro, intitolato “Le vol erratique d’un papillon”.

Tema centrale di “Demain à l’aube” è la guerra civile spagnola: la scrittura di Massois è prepotentemente biografica, dal momento che nella stesura della trama l’autore ha attinto molto dalle vicende vissute dal nonno. La maggior parte del lavoro, dunque, sia in composizione, sia in esecuzione, grava su Massois, ma con una serie di collaborazioni decisamente di prestigio nella scena musicale progressiva francese: troviamo infatti Maxx Gillard (già precedentemente a fianco di Massois) alla batteria, Jonathan Tavan al basso, il co-produttore e co-arrangiatore Nicolas Gardel, che esegue alcune parti pianistiche e ai sintetizzatori, oltre a firmare con Massois l’unico brano scritto “a quattro mani” del disco, cioè “La bataille de l’Ebre, Pt. 2”; e poi ancora, sempre in questa stessa traccia, Gionatan Caradonna dei Profusion al pianoforte. E la lista di ospiti prosegue con Sarah Tanguy (violoncello), Pierre-Emmanuel Gillet (chitarra), Yohann Gros al piano.

Il concept si apre con “1939”: gli struggenti archi che introducono la breve traccia determinano già l’intensità emotiva che percorrerà tutto l’album, con un incipit degno della colonna sonora di un “kolossal” della cinematografia. Archi caldi e avvolgenti si intrecciano con il suono più acido e agrodolce del Mellotron, mentre chitarre acustiche e pianoforte punteggiano il tutto con tocchi sapienti. Ma è forse dalla seconda traccia, con la deflagrazione della chitarra di Massois, al tempo stesso aggressiva, lancinante, ma anche languida, che si entra nel vivo della vicenda: “Les ennemies d’hier” è una grande prova di hard-prog sinfonico, con un cantato teatrale che narra la vicenda, mentre chitarre e tastiere sembrano duellare tra loro.

I due brani intitolati “La bataille de l’Ebre” e catalogati come “Part 1” e “Part 2” vanno di fatto a formare un’unica suite da oltre un quarto d’ora di durata. La prima delle due tracce fa da introduzione strumentale alla successiva, in un turbinante alternarsi di momenti acustici e metallici, sinfonici e rarefatti, tra riff di chitarra incandescenti e, ancora una volta, melodie chitarristiche capaci di arrivare al cuore. La seconda parte invece inizia con il cantato e il pianoforte. Mentre il primo dei due momenti trasmette attraverso le note le reali sensazioni della battaglia, l’inizio struggente della “Part 2” evoca la conta dei defunti nelle trincee e dei dispersi sul campo, vittime di un destino impietoso e implacabile. Grandi prodezze chitarristiche e tastieristiche nell’alternarsi di momenti ora più cupi, ora più intensi, disseminati negli oltre 10 minuti della traccia.

Les trains d’ombres”, pur con i suoi crescendo e i suoi riff, conserva la delicatezza di uno dei momenti più intimisti e malinconici dell’intera opera, con un finale epico ed emozionante.

Une colline sans nom” prende forma gradualmente, tra piccoli tocchi di pianoforte, effetti sonori ambientali e rumorismo, fino a delinearsi in un efficace riff sorretto da solidi tappeti di tastiere. Siamo di fronte a un’altra suite di circa un quarto d’ora di durata, nella quale si può apprezzare in modo particolare il grandissimo lavoro di cesello effettuato dalla solida sezione basso/batteria nel congiungere i vari momenti del brano. Suggestioni arabeggianti evocate da sonorità simili a liuti, chitarre acustiche dal sapore di flamenco, orchestrazioni maestose e splendidi temi chitarristici e tastieristici che svettano su contorni sinfonici sono gli ingredienti di questo lungo e articolato brano, interamente strumentale.

L’encre dex maux” è uno dei momenti del disco, invece, più incentrati sulla classica forma-canzone, sorretto dal canto su un accompagnamento di chitarra acustica, accanto alla quale si innestano lievi tocchi di tastiere.

La quiete prima della tempesta, si potrebbe dire, visto che la title-track è di nuovo una lunga suite, introdotta dalle note cupe del violoncello, affiancate per contrasto da accenti scintillanti del pianoforte.

Il canto, inizialmente sorretto solo dal piano, si fa via via più intenso e drammatico e con esso l’energico arrangiamento che lo circonda, tra tastiere sinfoniche e corali.

Verso la metà il brano assume i contorni del metal-prog, con scontri furiosi tra chitarra e organo Hammond distorto e un ottimo supporto di basso e batteria, che tracciano linee armonico/ritmiche brillanti.

Nelle liriche di questa traccia si snodano i destini dei due fratelli protagonisti del concept-album, separati dagli orrori della guerra, mentre la musica ci guida verso un gran finale di forte intensità emotiva.

La chiosa, con il suono delle onde del mare, è affidata a “Les passagers du vent”, un’altra malinconica ballad inizialmente guidata da chitarra acustica, pianoforte e voce, con gli altri strumenti che gradualmente si inseriscono fino al finale affidato al solo di chitarra, che termina sfumando.

Potrebbero venire alla mente tre paragoni illustri, ascoltando questo album: “The snow goose” dei Camel, in quanto si tratta di un altro concept incentrato sulla guerra (in quel caso la battaglia di Dunkirk); “The Wall” dei Pink Floyd per il senso di amarezza e desolazione che pervade le varie tracce; “Octavarium” dei Dream Theater per il perfetto equilibrio tra sonorità energiche e orchestrazioni sinfoniche. Il tutto, però, mutuato attraverso la grande sensibilità francese per un rock teatrale e drammatico, che passa attraverso nomi storici come Ange, Atoll e Mona Lisa.

Album consigliatissimo, nel quale tutti gli ingredienti sono perfettamente soppesati ed equilibrati, dalle parti acustiche a quelle elettriche, dai momenti più rarefatti a quelli più maestosi.

Concludiamo ricordando che Gérald Massois ha anche curato la grafica dell’album, con la foto di copertina realizzata da Anke Sundermeier.


Tracklist: 

1. 1939 (3:01)

2. Les ennemis d’hier (4 :33)

3. La bataille de l’Ebre PT1 (5:22)

4. La bataille de l’Ebre PT2 (10:41)

5. Les trains d’ombres (5:51)

6. Une colline sans nom (14 :33)

7. L’encre des maux (4:46)

8. Demain à l’aube (13:39)

9. Les passagers du vent (5 :14)






lunedì 2 dicembre 2024

2 dicembre del 2012: i Led Zeppelin alla Casa Bianca


Per favore, non devastate la Casa Bianca


Con questa scherzosa frase il presidente americano Barack Obama riceve i Led Zeppelin il 2 dicembre 2012 alla Casa Bianca, per conferire loro il “Kennedy Center Honors” per meriti artistici.

Quando il gruppo delle Hearts - con Jason Bonham alla batteria - esegue “Starway to Heaven”, Robert Plant non riesce a trattenere le lacrime.

Di tutto un Pop

Wazza

Il 2 dicembre del 2012, l’allora Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ospitò i Led Zeppelin alla Casa Bianca in occasione della trentacinquesima cerimonia dei Kennedy Center Honors. Cinema, televisione, musica e danza furono i protagonisti dell’evento; atto a premiare i massimi esponenti dell’arte dello spettacolo. Tra i premiati di quell’edizione ci furono: il presentatore David Letterman, l’attore Dustin Hoffman, Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones, la ballerina russa Natalia Makarova ed il leggendario bluesman Buddy Guy.

La cerimonia si sviluppò nel corso di quel week end. I vincitori presero parte ad una cena di gala presieduta da Barack Obama alla Casa Bianca, alla quale vennero invitati anche il segretario di Stato Hillary Clinton ed il marito Bill. Il giorno seguente, i festeggiamenti vennero spostati al Kennedy Center; dove i premiati vennero omaggiati da star dello spettacolo come: Meryl Streep, Robert De Niro, Morgan Freeman, Lenny Kravitz, Foo Fighters, Kid Rock, Heart ed altri grandi artisti.


Nel corso della serata, il presidente degli Stati Uniti, non si è riservato dal fare qualche battuta sugli invitati; sottolineando la bellezza del momento e, quanto fosse stato per lui importante riunire persone fondamentali per la storia, non solo del paese, ma soprattutto della cultura moderna, sullo stesso palco, senza un apparente motivo che li accomunasse.


LE PAROLE DI BARACK OBAMA PER I LED ZEPPELIN

Quando i Led Zeppelin hanno calcato la soglia dei primi palchi al tramonto degli anni ’60, il mondo dimostrò di non essere ancora pronto a tutta quella potenza. C’era un cantante che riuscì a far innamorare le platee come nessun altro con il suo carisma e la sua poderosa voce. Un prodigio della chitarra che mandava il pubblico in visibilio, un bassista versatile che si sentiva a casa con qualsiasi strumento e un batterista che suonava come se la sua vita dipendesse solo dalla forza della sua musica”.


Sappiamo che la musica dei Led Zeppelin ha salvato un’intera generazione dalla tirannia dei propri avi; ma ciò che più mi sconvolge e mi rende orgoglioso, è il fatto che, nonostante John Bonham sia ormai tragicamente scomparso da molti anni, lo spirito dei Led Zeppelin continui ad ardere indomito. Ognuno di noi – aggiunge – ricorderà sicuramente, almeno un momento in cui queste persone hanno toccato la nostra vita. Questi artisti ci hanno permesso di vedere le cose in modo diverso, ascoltare in modo differente ed apprezzare tutta la bellezza che la vita offre”.


Il presidente concluse il suo discorso in maniera scherzosa, ringraziando la band per aver reso la serata magnifica con la sua presenza e pregando gli Zeppelin di non distruggere le camere della Casa Bianca come il gruppo era solito fare negli alberghi in cui erano ospiti nel corso dei loro tour all’insegna degli eccessi e della dissolutezza.




Blacksmith Tales - "Pathway to Hamlet’s Mill", di Luca Paoli

 


 

Blacksmith Tales - Pathway to Hamlet’s Mill

8 brani, 45.46 min.

Aereostella | Immaginifica | Self (distr. fisica), Pirames (distr. digitale) 

Di Luca Paoli


A tre anni dall’ottimo esordio progressive sinfonico “The Dark Presence”, i Blacksmith Tales pubblicano “Pathway to Hamlet’s Mill” tramite Aereostella | Immaginifica, album pensato e composto dal pianista e leader del gruppo David Del Fabro.

Le radici della band risalgono agli anni ’90, quando Del Fabbro scrive quasi tutte le basi del concept per quello che sarà l’esordio “The Dark Presence”, ispirato dalle sue numerose letture del periodo, ma che vedrà la luce solo nel 2021 dopo anni di esperienza in cover band dei Rush, Genesis, Pink Floyd, Kansas, Gentle Giant.

La band oggi vede, oltre a David Del Fabbro al pianoforte ed al controcanto, Stefano Sbrignadello alla voce solista e controcanto, Beatrice Demori alla voce solista e controcanto, Marco Falanga alle chitarre, Simone Morettin alla batteria, Luca Zanon al pianoforte, al moog.

L'album trae ispirazione dal libro Hamlet's Mill di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, un'opera che indaga il mito come mezzo per tramandare la conoscenza degli antichi e comprendere la struttura del tempo. In un certo modo, la narrazione si evolve e il percorso avviato con The Dark Presence trova una naturale prosecuzione in Pathway to Hamlet's Mill.

La musica di Pathway to Hamlet’s Mill mantiene un'impronta ricercata, con composizioni e arrangiamenti curati magistralmente da David Del Fabro, un artista che dimostra una profonda padronanza della propria arte e le liriche si incastonano perfettamente nel tessuto musicale, ottimamente interpretate dalle voci di Sbrignadello e della Demori.

Tra le novità del disco spicca il brano “C’è casa a trenta miglia”, una ballata in italiano in cui l’autore rievoca con nostalgia l’infanzia ormai lontana, intrecciandola a immagini di un futuro ancora da immaginare … brano che non mi stanco mai d’ascoltare e che dimostra tutta la qualità compositiva ed esecutiva della band.

Il lavoro richiama fortemente il prog degli anni '70, ma lo reinterpreta con una visione moderna che lo proietta nel presente, dimostrando come questo genere possa ancora evolversi e raccontare nuove storie, senza restare intrappolato nelle ombre di ciò che è stato creato oltre cinquant’anni fa.

A conferma di quanto detto, è sufficiente immergersi nell'ascolto della traccia di apertura, "Hamlet’s Mill Overture", per essere catapultati in un vortice di tastiere e chitarre. Il brano, fedele alla migliore tradizione prog, si trasforma continuamente nel suo sviluppo, mettendo in luce anche una sezione ritmica capace di alternare colpi decisi a tocchi più delicati … un plauso alla voce di Stefano Sbrignadello che ottimamente si inserisce nelle trame musicali marchiando a fuoco il brano.

Non posso non citare “The Flame Within”, altro esempio di prog moderno con potenti riff di chitarra che si alternano a momenti estremamente coinvolgenti con la stupenda voce della Demori a condurre le danze … signori questo è prog degli anni 2000!

Ancora chitarre, tastiere e sezione ritmica a mostrare i muscoli in “Descend Of God” dove si apprezzano anche le armonie vocali ed i continui stacchi di organo e chitarra.

Ma il brano che mi ha toccato più nel profondo è “Dance Of The Stars” dove il folk anglosassone incrocia il prog … melodia meravigliosa, arrangiamenti che ci trasportano nelle terre del nord … la voce femminile poi è una carezza al cuore.

Signori questo è il prog che avanza e non indietreggia come purtroppo a volte mi è capitato di ascoltare.

L’ingrediente, oltre la bravura dei singoli elementi è che hanno osato, si sono messi in gioco ed hanno prodotto un disco che trasuda passione, amore e grande qualità tecnica.

Non esitate ad entrare nel mondo di Pathway to Hamlet’s Mill, perché sono certo che, una volta varcata la soglia, non vorrete più uscirne.


domenica 1 dicembre 2024

Gérald Massois - "Demain à l'aube" : commentaire Alberto Sgarlato


 

Gérald Massois: “Demain à l’aube”

(Autoproduction, 1er décembre 2024)

par Alberto Sgarlato


«Demain à l'aube», une autoproduction livrée au grand public à partir du 1er décembre 2024, est le nouvel album de Gérald Massois, multi-instrumentiste, compositeur et arrangeur français raffiné et brillant. Cet ouvrage constitue le deuxième chapitre d'une trilogie, commencée il y a sept ans avec l'ouvrage précédent, intitulé «Le vol erratique d'un papillon».

Le thème central de "Demain à l'aube" est la guerre civile espagnole: l'écriture de Massois est essentiellement biographique, car en écrivant l'intrigue, l'auteur s'est beaucoup inspiré des événements vécus par son grand-père. L'essentiel du travail, tant dans la composition que dans l'exécution, pèse donc sur Massois, mais avec une série de collaborations décidément prestigieuses sur la scène musicale progressive française: en effet, on retrouve Maxx Gillard (précédemment aux côtés de Massois) à la batterie, Jonathan Tavan à la basse, le coproducteur et co-arrangeur Nicolas Gardel, qui interprète quelques parties de piano et de synthétiseurs,  ainsi que la signature avec Massois de la seule chanson écrite "à quatre mains" sur l'album, à savoir "La bataille de l'Èbre, Pt. 2" ; et puis encore, toujours dans ce même morceau, Gionatan Caradonna de Profusion au piano. Et la liste des invités se poursuit avec Sarah Tanguy (violoncelle), Pierre-Emmanuel Gillet (guitare), Yohann Gros au piano.

Le concept s'ouvre avec "1939": les cordes poignantes qui introduisent le court titre déterminent déjà l'intensité émotionnelle qui traversera l'ensemble de l'album, avec un incipit digne de la bande originale d'un "blockbuster" de la cinématographie. Des cordes chaudes et enveloppantes s'entremêlent au son plus acide et doux-amer du Mellotron, tandis que les guitares acoustiques et le piano ponctuent le tout de touches habiles. Mais c'est peut-être dès le deuxième morceau, avec l'explosion de la guitare de Massois, à la fois agressive, atroce, mais aussi langoureuse, que l'on entre dans le vif du sujet: "Les ennemies d'hier" est une belle mise à l'épreuve du hard-prog symphonique, avec un chant théâtral qui raconte l'histoire, alors que guitares et claviers semblent se battre en duel.

Les deux pièces intitulées "La bataille de l'Èbre" et cataloguées sous les numéros "Partie 1" et "Partie 2" forment une seule suite de plus d'un quart d'heure. Le premier des deux morceaux sert d'introduction instrumentale au suivant, dans une alternance tourbillonnante d'acoustique et de métallique, de moments symphoniques et raréfiés, entre des riffs de guitare incandescents et, une fois de plus, des mélodies de guitare capables d'atteindre le cœur. La deuxième partie commence par le chant et le piano. Alors que le premier des deux moments transmet les sensations réelles de la bataille à travers les notes, le début poignant de "Part 2" évoque le décompte des morts dans les tranchées et des disparus sur le terrain, victimes d'un destin impitoyable et implacable. De belles prouesses à la guitare et au clavier dans l'alternance de moments tantôt plus sombres, tantôt plus intenses, disséminés tout au long des plus de 10 minutes du morceau.

"Les trains d'ombres", même avec ses crescendos et ses riffs, conserve la délicatesse de l'un des moments les plus intimes et mélancoliques de tout l'opéra, avec un final épique et émouvant.

"Une colline sans nom" prend forme progressivement, entre petites touches de piano, bruits ambiants et bruits, jusqu'à prendre forme dans un riff efficace soutenu par de solides tapis de clavier. Nous sommes face à une autre suite d'environ un quart d'heure, dans laquelle on peut particulièrement apprécier le grand travail de ciseau effectué par la solide section basse/batterie en joignant les différents moments de la chanson. Des suggestions arabes évoquées par des sonorités de luth, des guitares acoustiques à saveur flamenco, des orchestrations majestueuses et de splendides thèmes de guitare et de clavier qui se détachent sur des contours symphoniques sont les ingrédients de cette pièce longue et articulée, entièrement instrumentale.

"L'encre dex maux" est l'un des moments de l'album, en revanche, plus axé sur la forme classique de la chanson, soutenu par le chant sur un accompagnement de guitare acoustique, à côté duquel de légères touches de claviers se greffent.

Le calme avant la tempête, pourrait-on dire, puisque la pièce-titre est à nouveau une longue suite, introduite par les notes sombres du violoncelle, flanquée de contrastes par les accents étincelants du piano.

Le chant, initialement soutenu uniquement par le piano, devient progressivement plus intense et dramatique et avec lui l'arrangement énergique qui l'entoure, entre claviers symphoniques et choraux.

Vers le milieu, la chanson prend les contours du metal-prog, avec des affrontements furieux entre guitare et orgue Hammond distordu et un excellent support de basse et de batterie, qui tracent de brillantes lignes harmoniques/rythmiques.

Dans les paroles de ce morceau, les destins des deux frères protagonistes de l'album-concept se déroulent, séparés par les horreurs de la guerre, tandis que la musique nous guide vers un grand final d'une forte intensité émotionnelle.

La conclusion, avec le bruit des vagues de la mer, est confiée à "Les passagers du vent", une autre ballade mélancolique initialement menée par guitare acoustique, piano et voix, les autres instruments s'insérant progressivement jusqu'au final confié au solo de guitare, qui finit par s'estomper.

Trois comparaisons illustres pourraient venir à l'esprit à l'écoute de cet album :"The Snow Goose" de Camel, car il s'agit d'un autre concept centré sur la guerre (en l'occurrence la bataille de Dunkerque); "The Wall" de Pink Floyd pour le sentiment d'amertume et de désolation qui imprègne les différents morceaux; "Octavarium" de Dream Theater pour l'équilibre parfait entre sonorités énergiques et orchestrations symphoniques. Tout cela, cependant, emprunté à travers la grande sensibilité française pour le rock théâtral et dramatique, qui passe par des noms historiques tels que l'Ange, l'Atoll et Mona Lisa.

Album hautement recommandé, dans lequel tous les ingrédients sont parfaitement pesés et équilibrés, des parties acoustiques aux parties électriques, des moments les plus raréfiés aux plus majestueux.

Nous concluons en rappelant que Gérald Massois s'est également occupé du graphisme de l'album, avec la photo de couverture prise par Anke Sundermeier.


Tracklist: 

1. 1939 (3:01)

2. Les ennemis d’hier (4 :33)

3. La bataille de l’Ebre PT1 (5:22)

4. La bataille de l’Ebre PT2 (10:41)

5. Les trains d’ombres (5:51)

6. Une colline sans nom (14 :33)

7. L’encre des maux (4:46)

8. Demain à l’aube (13:39)

9. Les passagers du vent (5 :14)






Gentle Giant: il 1° dicembre 1972 usciva “Octopus”

The boys at Niagara Falls, 1972

Terminato il tour mondiale come “supporter” dei Jethro Tull (con visita alle cascate del Niagara...) i Gentle Giant, il 1° dicembre 1972 pubblicano l’ennesimo capolavoro, “Octopus”.

Di tutto un Pop…

Wazza

Quarto degli undici album di studio pubblicati dal Gigante Gentile, tutti entro la decade 1970/1980, “Octopus” è l’opera più nota, diffusa, celebrata e ricordata qui in Italia, a simbolo del loro momento magico presso di noi, quando se la giocavano alla pari con Pink Floyd, Yes, Emerson Lake & Palmer e Genesis da una parte (tutti in procinto di diventare ricchi e famosi) e Van Der Graaf Generator e King Crimson dall’altra (invece con un futuro, similmente a loro, circoscritto a semplice culto per appassionati e palati fini). Il progressive al tempo tirava da matti e quest’album stava dunque in cima alle classifiche italiane di vendita accanto a quelli, che so, di Lucio Battisti e Deep Purple, mentre la migliore formazione italiana dell’epoca, la Premiata Forneria Marconi, era in sostanza una devota combinazione fra loro ed i King Crimson…

Tempi irripetibili, ma “Octopus” riesce ad avvincere ancor oggi buona parte dell’ala più sofisticata e colta dei consumatori di musica. L’incontro e l’adattamento reciproco fra i sei musicisti che costituiscono la formazione ha dell’incredibile e dell’irripetuto, costituendo la peculiarità indubbia del suono Gentle Giant: avvenne a fine anni sessanta che tre fratelli dediti al rhythm&blues (Phil, Derek e Ray Shulman), ai quali si erano aggregati un chitarrista blues ed un batterista jazz (rispettivamente Gary Green e Martin Smith) sostanzialmente si misero nelle mani di un talentuosissimo compositore e multistrumentista di stretta educazione classica (Kerry Minnear), ben addentro anche alle cose del jazz ma piuttosto a digiuno di pop, rock e simili. Soprattutto, in possesso di preparazione ed inclinazione smisurate per il contrappunto, la poliritmia e la polifonia, applicati indifferentemente a strumenti, percussioni e voci.

Il fenomenale Kerry (in verità aiutato da Ray Shulman, in possesso a sua volta di ottimo talento compositivo) era una fucina di articolate e colte partiture melodiche, armoniche e ritmiche, di buon grado assimilate dai compagni, pur provenienti da contesti assai più popolari e “grezzi”. Questo grazie innanzitutto alla condivisa, generale apertura mentale ma non secondariamente a indispensabili, copiose doti di “orecchio”, fluidità e precisione esecutiva.

La proposta dei Gentle Giant prevedeva la piena azione di ben quattro voci e decine di strumenti (veri strumenti a corda, ad ancia, a tastiera e a percussione, in tempi in cui coi sintetizzatori si era ancora agli inizi e ci si tiravano fuori pochi suoni). Il solo Minnear era in grado di allungare le mani su pianoforte elettrico e acustico, organo, vibrafono e xilofono, mellotron, sintetizzatore, clavicembalo e clavinet, violoncello, flauto, oboe, percussioni… ma in concerto non si faceva scrupoli ad imbracciare anche una Fender Stratocaster, od a sostituire sporadicamente Ray Shulman al basso quando quest’ultimo era alle prese con violino, chitarra o tromba…

Del tutto peculiare anche il discorso sulle voci: arrangiate spesso e volentieri in contrappunto né più né meno come gli strumenti, costituiscono una caratteristica pressoché unica nella storia della popular music occidentale, che ci ha abituati da sempre a parti corali armonizzate grosso modo per terze e quinte, quasi sempre all’unisono o al più organizzate a botta e risposta. Non può che stupire, oggi più che mai, l’immersione nel lussureggiante canto contrappuntistico del Gigante Gentile, dove i cosiddetti “cori” sono spesso e volentieri un trafficato guazzabuglio di temi ad incastro con melodia, accento e divisione in battute autonomi, ciclicamente a convergere in improvvisi “nodi” per poi subito di nuovo divergere, per un effetto finale di sublime dinamica, vero cibo per le orecchie dell’appassionato.


Derek Shulman - Gentle Giant 1972

Chiunque si sia limitato a considerare l’inserto operistico architettato da Freddie Mercury nel celebre brano dei Queen “Bohemian Rapsody” come il massimo del virtuosismo corale applicato al rock, dovrebbe rivedere i suoi convincimenti anche solo dopo l’ascolto di “Knots”, quarta traccia di quest’album e ottimo esempio dell’estro e dell’eccellenza vocale della formazione: quattro voci a stratificarsi ed inseguirsi, prima a cappella e poi con preziosi intarsi di xilofono, violino, percussioni, basso, chitarra... Del tutto spettacolari, in particolare, i borbottii ad inseguimento sfocianti in un unico, distensivo, appagante corale; un vero caos organizzato coi quattro cantanti che riescono a tenere ciascuno la propria partitura e giungere a tempo al “nodo” finale, senza fuorviarsi l’uno con l’altro (beninteso, il brano era una delle colonne imprescindibili delle loro esibizioni dal vivo, nelle quali era riproposto pedissequamente e senza alcun problema).

Delle ugole a disposizione del gruppo, quella di Derek Shulman era la principale, la più potente ed estesa (ed anche la meno condizionata, specie sul palco, da contemporanei, complessi impegni strumentali), ma la più bella in assoluto resta quella di Minnear: un timbro che viene da altre epoche, elisabettiano, barocco, sorprendentemente lontano da qualsiasi stereotipo del nostro tempo. Zero swing, zero blues, zero rock, zero jazz in uno stile invece madrigalesco, rinascimentale, delicato e massimamente evocativo.

Il disco si apre proprio colla voce d’altri tempi del tastierista, che nel prologo della magnifica “The Advent of Panurge” va a descrivere un’ampia melodia e poi a raddoppiarla, a turno contrappuntandola o armonizzandola in un tripudio di quarte, seste e none d’alta scuola. Il brano prende poi consistenza strumentale e va ad appoggiarsi su di un pianoforte sincopato e veemente che detta la strada, comanda gli stop&go, stabilisce un’atmosfera carica di tensione e potenza, prende a duettare con una chitarra altrettanto risoluta. Si sta infatti rappresentando il gigante Gargantua, di Rabelaisiano estro, ed il suo incontro con il futuro amico della vita, Panurge. Tra continui cambi d’atmosfera, intarsi di tromba, pause distensive affidate ai corali, la canzone gode di una ricchezza e contemporaneamente di un equilibrio immani, il tutto in nemmeno cinque minuti di durata.



GENTLE GIANT - CIAO 2001 - MARZO 1972


Il mio brano favorito dell’album si è rivelato comunque essere, con l’andar degli anni, “Dog’s Life”, in virtù di una bellissima melodia (intonata da Phil Shulman ed appoggiantesi sulle sapienti chitarre acustiche di Green e di Ray Shulman) che riesce a non stancarmi mai: tre minuti magici, senza la complessità strutturale e ritmica degli altri episodi adiacenti, eppure di classe immensa grazie anche alla voce di Phil, ben distinguibile da quella degli altri per la sua precipua carica ironica. Altro episodio abbastanza lineare è “Think of Me With Kindness”, delicatissimo lento quasi solo pianoforte e voce (ancora di Minnear, più eterea e rarefatta che mai) in stile tutto sommato tradizionale, da ballata quasi pop, vicina grosso modo ai Genesis. Al suo esatto opposto, il vorticosissimo strumentale “The Boys in the Band”, una prova d’eccellenza dell’abilità strumentale del gruppo (arrangiativa, esecutiva e comunicativa, a partire dal prologo con la ripresa di una monetina gettata su di un tavolo e fatta vorticare fino a fermarsi).

“Raconteur Troubadour”, infine, può essere presa a buon esempio della capacità metamorfica del gruppo, in grado di passare dall’allestimento rock a quello cameristico anche più volte nella stessa canzone: con Ray Shulman al violino, Minnear al violoncello o all’harpsicord simulante un clavicembalo, Phil al flauto o a qualcun altro dei suoi fiati, più qualche leggera percussione al contorno, il Gigante Gentile ci ha lasciato bellissime pagine musicali molto più vicine alla concezione classica che a quella rock, facendo in particolare svettare in questi frangenti il violino di Ray Shulman (strumentista superbo, ancor di più al basso elettrico, senz’altro partecipante anch’esso al festival del contrappunto, con linee melodiche intricatissime e malgrado questo un’immutata, miracolosa potenza ritmica).



Due sono le ragioni principali del salto di qualità, in termini di riscontro critico e commerciale, fatto al tempo dal Gigante Gentile con questo quarto album: la prima è l’essere riusciti a contenere in otto canzoni di durata normale, eccezionalmente ben arrangiate, varie ed equilibrate, la loro proposta progressive invero sofisticata e impegnativa. La seconda è il cambio di batterista: fra tanti fini dicitori e arzigogolate esecuzioni, l’intuizione di affidarsi ad un solidissimo e pulito pestatore rock (John Weathers, appunto al suo esordio in quest’album e poi con i Giant fino al loro scioglimento), dopo un paio di batteristi molto bravi ma con molta meno “spinta”, fu ottima idea. Weathers rende il tutto molto più lineare, potente, definito, in definitiva meglio “digeribile” ed efficace per il pubblico del rock.

Beh… a riflettere ulteriormente, anche la vistosa copertina giocò un buon ruolo nella diffusione del disco. È indubbiamente una delle opere che meglio si ricordano dell’immaginifico Roger Dean, artista al tempo ricercatissimo dai discografici per dare valore aggiunto alle registrazioni degli artisti sotto contratto. Alle prese, come il solito, con aerografo e pennelli (niente computers al tempo), ma per una volta con una creatura perfettamente terrestre (e non la classica via di mezzo fra mitologia e fantascienza, come a lui d’uso) Roger, ispirato logicamente dal titolo dell’album, tira fuori una magnifica rappresentazione del curioso animaletto provvisto di otto tentacoli, una per ciascuna delle canzoni dell’album. Un grande, Roger Dean… spero per inciso che gli stiano arrivando parecchi diritti d’autore sia per le montagne sospese che per buona parte della flora e fauna aliena, in bella mostra nel kolossal “Avatar”: tutta farina esclusiva del suo sacco, farina degli anni settanta, riciclata in quest’epoca tecnologica ma stitica, nella quale un gruppo geniale, originale, brillante e sofisticato come i Gentle Giant possiamo sognarcelo, o meglio rimpiangerlo mentre ci ascoltiamo per la centesima volta “Octopus”. 

di Pier Paolo Farina

 


Nasceva il 1° dicembre del 1951 Jaco Pastorius


Nasceva il 1° dicembre del 1951 Jaco Pastorius: è stato un bassista, compositore e produttore discografico statunitense di jazz, fusion e funk, annoverato tra i più grandi bassisti di tutti i tempi e tra le figure simbolo del genere fusion.


Suonava generalmente un basso elettrico fretless, sul palco aveva anche un basso provvisto di tasti. Nonostante la brevità della sua carriera, ha determinato una rivoluzione totale per quanto riguarda il suo strumento: con il suo stile particolare è riuscito a caratterizzare il basso come solista e ridefinire il ruolo del basso elettrico nella musica, suonando simultaneamente melodie, accordi, armonici ed effetti percussivi. Per numerosi bassisti anche non inerenti al jazz (dal pop al rock) è un importante punto di riferimento.


La sera dell'11 settembre 1987 Pastorius si trovava al Sunrise Musical Theatre di Fort Lauderdale al concerto dell'amico Carlos Santana. Durante l'esibizione, dopo un assolo del suo collega Alphonso Johnson, Pastorius salì sul palco e sollevò la mano del bassista alla maniera degli arbitri di pugilato quando decretano il vincitore di un incontro. Fu però accompagnato all'uscita dagli addetti alla sicurezza, che non lo riconobbero. Pastorius si diresse quindi al Midnight Bottle Club, un locale nella periferia della città.



A causa del suo evidente stato di ebbrezza gli venne negato l'ingresso nel locale da parte del buttafuori esperto di arti marziali Luc Havan, un rifugiato vietnamita. Scoppiò una rissa e quando alle quattro del mattino arrivò la polizia, Jaco era steso a terra privo di sensi con il viso rivolto verso la pozza del suo stesso sangue. Havan, il buttafuori, sostenne di aver spinto Jaco, il quale era caduto battendo la testa. Il verbale della polizia riporta la perdita di conoscenza per un violento trauma cranico.

Fu immediatamente trasportato al Broward County General Medical Center, dove rimase in coma fino al 19 settembre, quando un importante vaso sanguigno del cervello si ruppe causandogli la morte cerebrale. Il 21 settembre i familiari decisero di interrompere il funzionamento dei macchinari che mantenevano il corpo in vita. Il battito durò per altre tre ore, fino alle 21:25, orario in cui venne dichiarato il decesso. Il funerale si tenne il 24 settembre a Fort Lauderdale. Havan venne accusato di percosse aggravate e pagando una cauzione di cinquantamila dollari venne rilasciato. (Wikipedia)