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venerdì 20 dicembre 2024

WHITE CIRCLE PROJECT – “CLOSE YOUR EYES AND SEE YOUR GHOSTS”-Commento di Evandro Piantelli

 


WHITE CIRCLE PROJECT – “CLOSE YOUR EYES AND SEE YOUR GHOSTS” (2024)

Di Evandro Piantelli

 

White Circle Project era inizialmente il nome del progetto musicale del pianista e compositore Paolo Pagnani, ma da qualche anno è diventato un gruppo vero e proprio. La lavorazione di questo album (dal titolo veramente azzeccato perché, diciamocelo francamente, ognuno di noi ha i suoi spettri che lo tormentano) è iniziata nel 2020, ma è stata poi interrotta per i noti motivi legati alla pandemia. È stata ripresa ed ultimata nel 2024, con qualche cambiamento nella formazione (che vedremo più avanti). Il disco è stato pubblicato lo scorso mese di ottobre.

Inserire la musica dei WCP in un genere preciso è difficile, considerate le diverse fonti di ispirazione della band che, partendo dalla musica classica, incrociano il prog e la canzone d’autore, ottenendo così un prodotto decisamente originale. La formazione attuale del gruppo vede Paolo Pagnani al pianoforte, Claudia Liucci alla voce, Alfonso Mocerino alla batteria e Raffaele Sorrentino al violoncello. Al basso c’è un ospite: Roberto Giangrande.

L’ascolto dell’album mi ha piacevolmente sorpreso perché, pur in presenza di un lavoro autoprodotto e suonato prevalentemente con strumenti acustici, si rivela un album fresco, piacevole da ascoltare e in qualche modo innovativo.

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Si parte con Shadows (5.13), un pezzo dolce e sognante, dove su un pianoforte decisamente marillioniano (mi si passi il termine) si innestano prima il violoncello e poi la voce d Claudia Liucci con le sue interessanti escursioni vocali.

Ma già col secondo pezzo si cambia registro, perché Cathedral on fire (4.25), pur mantenendo una base classicheggiante, vira su sponde chiaramente più pop.

Il terzo brano, Tra il letto e l’orologio (6.29), è cantato in italiano e vede alla voce principale il cantautore napoletano Zorama (al secolo Mariano Rongo Zora, classe 1973). È una canzone che parla dell’incalzare del tempo nella nostra vita.

Il pezzo successivo, probabilmente, è stato realizzato prima della pandemia perché vede alla voce Nicoletta Rosellini e al basso Alessandro Jacobi. Si tratta di Strange signal (4.09), in cui ancora una volta prevale la componente pop con un bel ritornello che entra in testa e non ti lascia più. 

Anche la successiva Tulpa’s dream, (6.16) è più pop che prog, con un’ottima prova vocale di Claudia Liucci.

Veniamo ora a quello che secondo il mio parere è il brano più convincente dell’intero lavoro, cioè La maschera (4.57). Siamo di fronte ad un pezzo, ancora una volta cantato in italiano, dove la musica dei WCP incontra un testo poetico ed immaginifico, dove un burattinaio racconta ai suoi pupazzi la storia del suo amore perduto.

Ancora dolcezza a piene mani in Connect with me (5.21).

L’album termina con un pezzo interamente strumentale dal titolo Romantic Ending Scene (6.14) dove il pianoforte di Paolo Pagnani intesse le trame di un racconto musicale che farà felici gli amanti del prog (in particolare chi apprezza lo stile di Tony Banks).

Il mio giudizio complessivo su “Close your eyes and see your ghosts” è decisamente positivo. Si tratta di un lavoro molto originale e poetico, prodotto da ottimi musicisti che ci hanno regalato brani che ci fanno sognare e pensare. Certo, qualche limite legato all’autoproduzione si sente, ma è secondario rispetto al valore complessivo dell’opera. Ricordo che questo lavoro è disponibile, per ora, solo in formato digitale sulla piattaforma Bandcamp ma, molto probabilmente verrà presto stampato in vinile.


Credits 

Tracklist:

1 Shadows

2 Cathedral on fire

3 Tra il letto e l’orologio

4 Strange Signal

5 Tulpa’s Dream

6 La Maschera

7 Connect with me

8 Romantic Ending Scene 

La band:

Paolo Pagnani : Pianoforte

Claudia Liucci : Voice

Alfonso Mocerino: Drums

Raffaele Sorrentino: Violoncello 

Guests:

Roberto Giangrande: Basso (tutti i brani esclusa traccia 4)

Nicoletta Rosellini: Voce (traccia 4)

Zorama: Voce (traccia 3)

Alessandro Jacobi: Basso (traccia 4) 

Circle Coir:

Marisa Portolano, Claudia Liucci, Eric Mormile, Angelo Florio, Paolo Rescigno.  

Musica e testi di Paolo Pagnani eccetto “Strange Signal” (P. Pagnani, N.Rosellini) e “Tulpa’s Dream (P.Pagnani, A.Pacella). 

Registrazione, mixaggio e mastering: Studio 52 (Napoli)

Ingegnere del suono: Paolo Rescigno

Foto copertina: Paolo Liggeri

Grafica: Studio 52




Nel dicembre del 1969 i Fairport Convention pubblicavano “Liege & Lief”



Magical Fairport Convention 1969, backstage at Top Of The Pops. Dave Swarbrick, RT, Dave Mattacks, Ashley Hutchings, Simon Nicol, Sandy Denny.

 

Nel dicembre del 1969 usciva uno dei capolavori del folk-rock inglese, “Liege & Lief” dei Fairport Convention.

Ascoltare per credere…

Wazza


Il folk revival inglese fu un movimento che ebbe un breve periodo di luce tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo; un periodo breve ma che brillò di una luce fulgida.

Come per il blues – che prendeva le mosse dalla musica rurale degli afroamericani rielaborata con gli strumenti urbani inglesi –, il fenomeno si basava sul folk tradizionale celtico, attualizzato con l’introduzione della tipica sezione ritmica del rock e facendo convivere strumenti classici come flauto e violino con la chitarra elettrica.

Il folk rock ebbe inizialmente grande successo oltreoceano, con gli esperimenti dei Byrds che – riarrangiando i successi di Bob Dylan in chiave elettrica – aprirono la strada allo stesso folksinger di Duluth che, dal 1965 in poi, passò alla strumentazione più moderna, scioccando i puristi del genere. Va tuttavia fatta una distinzione tra il folk rock americano e quello inglese; se il fil rouge che lega il primo alla tradizione passa attraverso il country di Woody Guhtrie, il bluegrass e la musica degli hobo e dei cowboy in generale, il folk rock inglese affonda le radici molto più in profondità, nelle canzoni e musiche tradizionali celtiche e nelle ataviche gighe suonate con la cornamusa e altri strumenti antichi. Siamo quindi in presenza di una musica basata su ancestrali melodie e su tematiche spesso esoteriche e inerenti a fatti di sangue o storie soprannaturali legate alle leggende del piccolo popolo.

Due furono le figure che inizialmente si distinsero nel movimento e che diedero vita ad altrettanti gruppi: Richard Thompson coi suoi Fairport Convention e John Renbourn coi Pentangle. Le due band rimangono a tutt’oggi i più fulgidi esempi di folk revival inglese, autrici di alcuni capolavori che resero il movimento leggendario; le radici del folk celtico, tuttavia, hanno influenzato e dato grande lustro anche a molte opere di solisti come Nick Drake e John Martyn e di band come Jethro Tull, Led Zeppelin e Traffic, oltre ad aver influenzato – per musica e tematiche – molti complessi di rock progressivo.

I Fairport Convention si formarono inizialmente nel 1967, esibendosi per la prima volta in una chiesa del nord di Londra; ne fanno parte Asheley Hutchings, bassista e cantante, Richard Thompson alla chitarra solista e Simon Nicol a quella ritmica, e il batterista Shaun Frater, presto sostituito da Martin Lamble. Il nome della band nasce dalla casa di Nicol – Fairport, appunto – dove i quattro si incontrano per provare. Al principio i ragazzi suonano cover della west coast americana, da Dylan a Joni Mitchell; una volta messi sotto contratto dalla Island e aggiunte le voci di Judy Dyble e Iain Matthews, i Fairport Convention esordiscono con l’opera prima, che porta il loro nome come titolo.


La band viene subito etichettata come una sorta di clone inglese dei Jefferson Airplane, band di folk rock psichedelico allora di gran voga a San Francisco; il 1969 è l’anno della svolta per la band, nel bene e nel male, con l’ingresso in formazione della portentosa vocalist Sandy Denny che esordisce in “What We Did on Our Holidays”. La Denny porta in dotazione la sua voce, dal timbro peculiare e assai suggestivo, dalla grana nebbiosa, quasi a evocare la brughiera e i tipici paesaggi britannici, e la propria passione per le radici del folk tradizionale; sicuramente debitrice al folklore e alla grande lezione di Shirley Collins, Sandy Denny riesce comunque a lasciare la sua impronta personale e a diventare il personaggio più iconico del folk revival. L’album, molto buono, si pone a metà tra le derivazioni west coast e i primi aneliti celtici.

Matthews abbandona, lasciando a Sandy campo libero come vocalist e si aggiunge Dave Swarbrick, mandolinista e soprattutto violinista di limpida classe. Esce “Unhalfbricking”, secondo dei tre album dell’anno e primo capolavoro folk del gruppo. Purtroppo – come si dice in questi casi – il destino è in agguato: un terribile incidente del pullman su cui la band si sposta, costa la vita a Lamble e a Jeannie Franklyn, la fidanzata di Richard Thompson. Gli altri componenti si feriscono in modo più o meno grave e meditano di abbandonare le scene, svuotati dalla drammatica vicenda. Il manager Joe Boyd, che crede molto nel progetto, invita i giovani a non prendere decisioni a caldo, e affitta loro una dimora vittoriana nelle campagne dell’Hampshire, nei pressi di Winchester. La quiete del luogo, l’immersione nella vita della campagna e degli splendidi boschi locali, unità al consolidamento dei rapporti e all’ispirazione quasi trascendentale di Sandy Denny verso la musica tradizionale fanno il miracolo. Il compless Pin on ROCK MUSIC SOLDIERSo ne esce rinfrancato e, in preda a un sentimento quasi mistico, registra il capolavoro della propria discografia: “Liege & Liefe”.

L’Album si compone di otto brani, di cui ben cinque sono riarrangiamenti di canzoni folk le cui origini si perdono tra le pieghe del tempo. Non basta, i tre pezzi originali suonano ancora più attinenti alle regole del genere rispetto alle cover, a testimonianza del genuino trasporto dei musicisti verso quelle musiche. Il disco si apre con “Come all ye”, pezzo originale composto in collaborazione dalla Denny e dal bassista Ashely Hutchings; siamo subito di fronte a una sarabanda di suoni e atmosfere fiabesche, rotte da un ritornello che contiene ancora qualche assonanza col country rock americano. Un brano travolgente che oltre a mettere in luce le straordinarie qualità vocali di Sandy Denny, offre un assaggio dei duelli tra chitarra e violino che caratterizzeranno il suono dei “nuovi” Fairport Convention.

“Reynardine” offre subito un cambio di registro importante; la voce di Sandy si fa solenne, da vera sacerdotessa del folk rock, declamando i versi sul bordone di viola di Swarbrick, solo a tratti punteggiato dagli altri strumenti. L’atmosfera è quella di un qualche rito druidico, magari tra le rovine di Stonehenge all’alba; lo sappiamo, sono stereotipi del genere, eppure è difficile non abbandonarsi alle suggestioni fiabesche dei Fairport Convention, e l’ispirazione di Sandy Denny in questo lavoro ha davvero contorni mistici. Quattro minuti di pura magia.

“Matty Groves”, a seguire, è forse il pezzo più celebre della band e quasi un manifesto programmatico dell’intero movimento. Il brano, un tipico traditional sul tema dell’adulterio, affonda le radici forse nella Scozia del ‘600 e fu importato negli Stati Uniti proprio dagli immigrati scozzesi in USA e in Canada, dove è conosciuto anche col titolo di “Little Musgrave and the Lady Barnard”. La versione che ne danno i Fairport Convention è archetipica del loro approccio al folk e di come riuscivano a portare nella realtà evoluta del 1969 le antiche radici musicali di cui erano appassionati: la base è fortemente ritmica, col basso e la batteria di Dave Mattacks che pompano come uno stantuffo; i cambi di registro vocale di Sandy Denny sono impressionanti nel rendere la drammaticità della storia, mentre il violino di Swarbrick e la chitarra di Richard Thompson si prendono a turno la scena. La durata di otto minuti permette una serie di evoluzioni strumentali che paiono quasi anticipare i cambi di ritmo che saranno tipici del prog; a un certo punto l’incedere si fa più veloce e, su quella che sembra quasi una giga scozzese, Thompson e Swarbrick si producono in una serie di fraseggi che allora erano qualcosa di totalmente nuovo. Nessuna assonanza né col jazz e tantomeno col blues, all’epoca fonti uniche di ispirazione degli assoli rock. La chitarra di Thompson a tratti anticipa quasi – in modo molto più pulito e ortodosso – lo stile di Ritchie Blackmore, peraltro a sua volta grande cultore della tradizione celtica. Un incredibile tour de force che riesce nel miracolo di far sposare rock e folk celtico.

Con la successiva “Farewell, Farewell” si tira un po’ il fiato. Il brano – quasi una ninna nanna – è un originale di Richard Thompson, condotto dal dolce arpeggio della sua sei corde elettrica e dalla voce mai così estatica e improntata ai registri più alti di Sandy Denny. Una splendida melodia completa il bozzetto: un brano molto più breve degli altri ma perfetto nel rendere ulteriormente le atmosfere fiabesche del lavoro. La successiva “Deserter” prosegue sulle stesse suggestioni degli altri brani, anche se, in mezzo a un tale numero di brani capolavoro, risulta forse leggermente più evanescente; non è così di certo per la successiva “Medley”. Come da titolo, il brano è una sorta di minisuite che unisce quattro melodie tradizionali, partendo da una scatenata giga guidata dal violino di Swarbrick; ed è proprio il nobile strumento del buon Dave a menare le danze per i quattro minuti del medley – totalmente strumentale – rendendo bene l’idea di quanto le radici folk britanniche fossero rispettate dal complesso.

La successiva “Tam Lin” è di nuovo un brano tradizionale che riporta però alla guida la chitarra di Richard Thompson. Il chitarrista si prende la scena con un arrangiamento ai limiti dell’hard rock, il più duro della raccolta, e un assolo che riprende le radici psichedeliche da west coast della band. Anche la parte vocale di Sandy Denny non sfigurerebbe a confronto con la migliore Grace Slick, a testimonianza di una duttilità del suo timbro vocale che avrà pochi eguali. La storia narra le peripezie di Janet a Carterhaugh, una fiaba che coinvolge il mondo delle fate e che deriva dalla tradizione scozzese.

A un album come “Liege & Lief” manca solo una degna conclusione, e “Crazy Man Michael” è in questo senso perfetta. Il brano è originale, composto da Swarbrick e Thompson, ma sembra quasi impossibile credere che non sia un pezzo tradizionale. L’arrangiamento, l’andamento e la melodia sembrano uscire dall’ennesima leggenda medievale narrata da qualche trovatore, eppure la canzone è stata scritta nel 1969.

Si giunge alla fine dell’album quasi trasalendo; la sensazione è quella di essere stati immersi in una realtà parallela per i quaranta minuti del disco: una realtà fatata che è quasi difficile abbandonare.

“Liege & Lief” è uno di quei piccoli miracoli della musica rock, l’espressione perfetta di una band in stato di grazia. Un equilibrio trovato per qualche mese tra una tragedia che aveva scosso e – paradossalmente – legato i giovani musicisti, prima che il successo e le ambizioni personali portassero all’inevitabile divisione. Hutchings abbandona la formazione per formare gli Steeleye Span, e Sandy Denny fa lo stesso per dare vita ai Fotheringay prima e per dedicarsi alla carriera solista poi (celebre il duetto con Robert Plant in “The Battle Of Evermore”, da “Led Zeppelin IV”); di lì a poco anche Thompson lascerà e, nel giro di qualche album, rimarrà il solo Swarbrick.

Tra alti e bassi la storia dei Fairport Convention va avanti ancora oggi, con uno zoccolo duro di appassionati che li segue quasi maniacalmente e con periodiche impennate d’interesse verso una sorta di revival del revival. Attorno al 2010, bande come Circulus, Espers, Eralnd & The Carnival e Midlake, ebbero una breve stagione di gloria rifacendosi a quei suoni.

Diversa e tragica la sorte di Sandy Denny, che morirà nel 1978 dopo una caduta dalle scale; ma questa – come sempre – è un’altra storia.

Andrea La Rovere





giovedì 19 dicembre 2024

Genesis, dicembre 1973: l'audio del concerto al Roxy Theater di Los Angeles e qualche immagine

  
Il 18 dicembre 1973 i Genesis, in tour per la prima volta in USA, ottengono uno strepitoso successo suonando al Roxy Theater di Los Angeles.
Per festeggiare l'evento, dopo il concerto, si tiene un ricevimento all’Hollywood Restaurant (vedi photogallery)
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Wazza






Collins e Rutherford sul Ciao 2001 del 19 dicembre 1982


Su Ciao 2001 del 19 dicembre 1982, articolo "singolo" sull'uscita in contemporanea dei due dischi solisti di Phil Collins e Mike Rutherford dei Genesis.
Il primo pubblica "Hello A Must Be Going", che con la cover delle Supremes "You Can'y Hurry Love", sbanca le classifiche dei singoli  .
Il tiolo dell'album è preso da una canzone dei Fratelli Marx, del 1930!
Anche per "Pluto" Rutherford si tratta del secondo album "Acting Very Strange", tra i musicisti il batterista dei Police Stewart Copeland.
Di tutto un Pop!
Wazza


mercoledì 18 dicembre 2024

LE ORME su Ciao 2001 nel dicembre 1973

LE ORME su Ciao 2001 nel dicembre 1973, anno in cui uscì “Felona e Sorona”, concept album imperniato su una storia assai fantasiosa, quella di due pianeti immaginari, contrapposti e complementari, chiamati "Felona" e "Sorona". Mentre Felona viene illuminato dalla luce del sole, Sorona è immerso nelle tenebre.

A conferma dell'importanza del disco per la carriera del gruppo, si ricorda che a distanza di quasi quarant'anni l'album rientrò in classifica alla posizione numero 79 della classifica ufficiale FIMI.




 




Il compleanno di Billy Gibbons

Ha compiuto gli anni il 16 dicembre, Billy Gibbons, chitarrista, cantante, compositore, noto soprattutto per essere la chitarra solista dei ZZ Top, micidiale trio texano, rock-blues...

Un predestinato: nel 1969 Hendrix, intuendo la sua bravura, gli regalò la chitarra; un'altra se la fece costruire con il legno della casa di Muddy Waters perché, a suo dire, era "impregnata di blues"!

Spesso appare come attore: oltre che su "Ritorno al futuro III", ha partecipato ad alcuni episodi del telefim "Bones".

Se non avete la "puzza sotto al naso" ascoltatelo, è veramente un gran chitarrista.

Happy Birthday Billy!

Wazza








martedì 17 dicembre 2024

Luca Paoli ha recensito uno dei dischi meno convenzionali e travolgenti del 2024: Prank + Giorgio Li Calzi!

 


PRANK + GIORGIO LI CALZI 

 (Machiavelli Music, 2024)

Di Luca Paoli


L’album omonimo di Prank + Giorgio Li Calzi, recentemente uscito per Machiavelli Music, rappresenta un esempio di straordinaria audacia compositiva e innovazione musicale. Con sette tracce che uniscono sperimentazione sonora e influenze radicate nel jazz e nel rock, il disco offre circa 30 minuti di ascolto, durante i quali emergono soluzioni sonore che sfidano le convenzioni. L’album si distingue per l'equilibrio tra l'esplorazione di nuovi linguaggi musicali e il richiamo a tradizioni consolidate, creando un'esperienza coinvolgente e unica.

Il quartetto, formato da Enrico Degani alla chitarra elettrica, Federico Marchesano al basso, Dario Bruna alla batteria e Giorgio Li Calzi alla tromba elettrica, si caratterizza per la capacità di fondere stili diversi. Le influenze spaziano dal rock progressivo di King Crimson al jazz più contemporaneo, fino agli echi della new wave degli anni '80, dando vita a un linguaggio musicale che sfida ogni etichetta. La musica, pur mantenendo una tensione tra energia viscerale e momenti di raffinata introspezione, riesce a delineare un'identità sonora straordinaria e avvolgente.

Un aspetto fondamentale di quest'album è la sua capacità di amalgamare influenze apparentemente distanti, come il minimalismo americano, il postcore e la world music, trasformandole in un'esperienza sonora originale e difficilmente replicabile. Non si tratta solo di una serie di brani, ma di un viaggio sonoro che invita l'ascoltatore a immergersi in un flusso musicale ricco di autenticità e di idee innovative.

Tra le tracce che mi hanno particolarmente colpito, spicca sicuramente Fat Man vs. Bodybuilder, che apre l'album con un riff di chitarra deciso e una sezione ritmica potente. 

La tromba elettrica di Li Calzi si fa audace e dinamica, rendendo evidente lo scontro tra forza e agilità musicale che il titolo suggerisce. La traccia invita l’ascoltatore a esplorare territori sonori inaspettati, spingendolo oltre i confini tradizionali.

Un altro brano che trovo molto interessante è Ghost Rider, caratterizzato dal suo ritmo serrato e incalzante (ottimo lavoro di basso e batteria). L’uso sapiente di elettronica, chitarra e tromba creano un’ambientazione ricca di contrasti, mentre il vocoder aggiunge una dimensione quasi surreale al pezzo. La musica sembra correre veloce, come un viaggio solitario e frenetico, pur mantenendo un sottile equilibrio tra tensione e ritmo.

Arriviamo poi a Ulrich Seidl, dove una melodia luminosa e delicata irrompe, trasportando l’ascoltatore in un'atmosfera di serenità. La dolcezza delle melodie evoca immagini di umanità e gentilezza, creando un contrasto affascinante con il resto dell’album. L'intensità emotiva del brano emerge senza mai sacrificare la sua essenza melodica.

Infine, concludo questo percorso attraverso i brani che reputo più significativi con Touching Hands, che si distingue per la sua atmosfera riflessiva e sognante. Le linee melodiche di chitarra e tromba si intrecciano in modo fluido, creando un momento di profonda intimità che invita l’ascoltatore a perdersi nella quiete e nella contemplazione.

Prank + Giorgio Li Calzi è un album che merita un'attenzione particolare per la sua capacità di abbattere i confini tra i generi e proporre una visione unica del jazz contemporaneo. Un’opera che offre un'esperienza sonora imprevedibile e coinvolgente, perfetta per chi cerca nuove sfide musicali e orizzonti inaspettati.

Buon ascolto.

 

 ASCOLTO IN STREAMING

 

 

Era il 17 dicembre del 1976: "Wind and Wuthering" vedeva la luce...


Usciva il 17 dicembre 1976 "Wind and Wuthering", ultimo album dei Genesis con Steve Hackett. Il titolo sembra che sia stato preso da un brano di Hackett, "The house of four wind", e dal titolo del romanzo "Wuthering Heights".

Registrato nei Paesi Bassi, per problemi di defiscalizzazione, nonostante fosse uscito in pieno periodo "punk" superò le vendite del precedente.
La copertina disegnata da Colin Elgie rimarrà l'ultima in stile nostalgico e autunnale nella futura produzione della band.


All'epoca fu considerato un prodotto di secondo piano rispetto ai capolavori che lo avevano preceduto, maa distanza di anni rimane un grande e nostalgico lavoro… consapevole di quello che sarebbe accaduto dopo!
Wazza 

Riascoltiamolo...







David Bowie: il 17 dicembre 1971 usciva “Hunky Dory

Usciva il 17 dicembre 1971 Hunky Dory”, quarto album di David Bowie, il disco che l’ha fatto conoscere in tutto il mondo. 

Di tutto un Pop!

Wazza

David Bowie photographed by Brian Ward, London, 1971

“Hunky Dory” sta per “Tutto OK” ed è il quarto album di un allora ventitreenne David Robert Jones, in arte Bowie, in cerca di celebrazione, ma anche di primo affrancamento, dalla Swinging London e i suoi eroi vicini e lontani (Syd Barrett, Bob Dylan, Iggy Pop, Velvet Underground…), nonché ancora alle prese con giovanili sfoggi di ambiguità sessuale (lui che è già padre di famiglia e futuro, ben corrisposto donnaiolo, altro che la posa da bionda Greta Garbo che ci ammannisce in copertina…). Vi riuscirà compiutamente nell’album successivo, il suo capolavoro “Ziggy Stardust”, sdoganando appieno un nuovo genere di rock, il glam, pregno di tutte le influenze di cui sopra, eppure brillantemente nuovo di zecca.

Ma se quest’opera non gode ancora della compattezza, della personalità, dell’alchimia perfetta di quella che seguirà, risulta essere per certo un’esimia raccolta di canzoni molto varie, quasi uniche nella loro incisiva profondità, talvolta imbellettata di lustrini e talvolta no, coniuganti il pop più esuberante e scintillante ad alcune tematiche urticanti e drammatiche, omaggianti Dylan, Reed, Warhol in una forma che brilla di luce propria e di sostanza musicale che travalicano gli stessi ispiratori, ancora senza un vero approdo autonomo, ma in ogni caso pregna di sostanza musicale e lirica.

La deviazione dal precedente lavoro “The Man Who Sold The World” è decisa. Le stesse tematiche, spesso e volentieri claustrofobiche ed oscure in quel disco, gli stessi disagi allora resi attraverso un chitarrismo elettroacustico asciutto e violento, qui vengono rivestiti di una irresistibile ed intelligente patina poppettara, che ha nel pianoforte di un versatile e agile Rick Wakeman lo strumento base. Il chitarrista di Bowie Mick Ronson, dominante e massimamente rumoroso nel precedente disco, è qui “retrocesso” ad interventi misurati e secondari, ma si rifà ampiamente grazie alla sua versatilità e preparazione musicale, curando i magniloquenti arrangiamenti orchestrali che forniscono un tocco unico e fondamentale all’opera. Un grande musicista, il compianto e mai abbastanza riconosciuto Ronson, in grado qui di scrivere partiture di intensità wagneriana e caricare il disco di decadente e intensa musicalità.

Il nascente gusto glam si avverte già nel timbro alterato della voce di David (filtri equalizzatori…o magari il nastro rallentato in fase di incisione…), assai più acuta e chioccia che nella realtà. E’ già la voce del futuro Ziggy Stardust, alle prese con una scaletta quasi tutta di ballate, per lo più pianistiche, di grande e variegata ispirazione, talché agli episodi molto spumeggianti e teatrali (“Oh You Pretty Things”, “Changes”, però sempre con testi tutt’altro che leggeri, e la cover “Fill Your Heart”) vengono intercalati a rancorose tiritere iperdylaniane (“Song For Bob Dylan” un vero e proprio omaggio, al di là della critica alle ultime cose del menestrello americano) oppure ad abissali sprofondamenti nel malessere personale (“The Bewlay Brothers”, riferita al fratello di Bowie ed ai suoi problemi psichici e allora magari anche a Syd Barrett, tesa e drammatica, vera superstite delle atmosfere del disco precedente… e bellissima).


Ci si stupisce ancora con tante altre e diverse cose, a cominciare da una bella presa in giro di Andy Warhol, con una ballata a lui intitolata e solcata dalla potente chitarra acustica a 12 corde del fido Ronson, e poi lo schizzo newyorkese di “Queen Bitch”, assolutamente a’la Velvet Underground, ma con a stretto seguito la tenerissima “Kooks”, una ninnananna dedicata al figlioletto, nella quale la fantastica voce di David assume convincenti toni paterni e protettivi.

Ed a proposito di voce, vi sono alfine in questo disco due fulgidi capolavori che dispiegano a tutta forza il grande talento esecutivo, oltre che compositivo, dell’artista. Il primo è celeberrimo e s’intitola “Life On Mars?”: molto di diverso che un episodio di fantascienza, è invece una straziante messa in scena di un’ordinaria fuga dalla realtà di una persona, che preferisce rifugiarsi in mondi paralleli e fittizi. La melodia è indimenticabile, Bowie la canta da padreterno, Ronson ci mette un’orchestra bella pesante, che comunque si ferma un attimo prima di risultare ridondante, ed insomma siamo al cospetto di quello che, per parecchia gente, è il suo capolavoro assoluto.

Il secondo gioiello è molto meno noto, ma ugualmente sfavillante. “Quicksand” possiede la perfezione formale e l’intensità ispirativa delle grandi e migliori ballate, con Bowie alle prese con le proprie incertezze e paure, con il suo/nostro inquietante lato oscuro.

Un’opera intensa e scorrevole, leggera e inquietante, ispirata, simbolo di un periodo in cui a Bowie riusciva proprio tutto, stava sbocciando compiutamente a livello artistico e si avviava a non avere rivali nel genere. Lo dimostrerà definitivamente col disco seguente, ma anche quest’album è fra gli indispensabili del rock, manifesto musicale di un artista fuoriclasse, in piena fase di messa a fuoco delle sue voglie e delle sue possibilità.

di Pier Paolo Farina










lunedì 16 dicembre 2024

I Traffic nel dicembre 1967

Nel dicembre 1967 esce “Mr. Fantasy”, primo album dei Traffic.

La band - composta da Steve Winwood, Jim Capaldi, Chris Wood e Dave Mason - avrà un inizio turbulento, visto il confronto di forti personalità come quelle di Winwood e Mason.

Il disco è una specie di raccolta di singoli, più uno dei brani simbolo della band, e della generazione anni ’60, “Dear Mr.Fantasy”… sarà l’inizio della storia di una delle band più importati del rock!

Di tutto un Pop…

Wazza










AREA ad Avellino il 16 dicembre del 1975...


Il 16 dicembre 1975 gli Area in tour approdano ad Avellino... ricordarli è un dovere!
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Wazza



16 Yes- Rainbow Theatre 14-16 dicembre 1972

Rick Wakeman-Keyboard player Rick Wakeman performing with English progressive rock group Yes at the Rainbow Theatre, London, 17th December 1972

Dal 14 al 16 dicembre 1972 gli Yes tengono tre concerti al Raimbow Theatre di Londra, dopo l’uscita di “Close to the Edge” e l’abbandono di Bill Bruford, sostituito da Alan White. Le date del 15 e 16 furono registrate. Fu realizzato un film che usci molti anni dopo, prima in VHS e poi in DVD, intitolato “Yessongs”.

Il gruppo “spalla” erano i “Badger”, capitanati dall’ex tastierista Tony Kaye e da David Foster (ex bassista del gruppo Tomorrow dove suonava anche Jon Anderson...). Anche loro registrarono un album live in quelle date, “One Live Badger”, prodotto dall’amico Jon Anderson.

Di tutto un Pop

Wazza



Badger

Roy Dyke - drums

Dave Foster - bass, vocals

Tony Kaye - keyboards, Mellotron (YES)

Brian Parrish - electric guitar, vocals

Kim Gardner - bass

Jackie Lomax - rhythm guitar, vocals

Paul Pilnick - lead guitar

Fu registrato al mitico London Rainbow Theatre il 15 e 16 dicembre 1972 durante il tour del non meno leggendario "Close to the Edge".

Ecco il datasheet: 

Dal vivo al Rainbow Theatre, Londra, Regno Unito

15-16 dicembre 1972 (tour "Close to the Edge")

Regista: Peter Neal

Produttori: Brian Lane e David Speechley

Editore: Philip Howe 

Musicisti: 

Jon Anderson - Voce principale e percussioni

Chris Squire - Basso e cori

Steve Howe - Chitarre e cori

Rick Wakeman - Tastiere, sintetizzatore, organo

Alan White – Batteria





domenica 15 dicembre 2024

Cavern, Maltese e Di Giacomo: era il 15 dicembre del 1990


Era il 15 dicembre 1990 quando il duo Maltese/Di Giacomo ospiti dei Cavern (Beatles Tribute Band) si esibirono a Torino, in un concerto dedicato ai Fab Four…

Per non dimenticare!
Wazza