Aerostation – Rethink
(2025)
di Alberto Sgarlato
Negli anni ‘70, fu coniato un termine che poi
divenne una vera e propria espressione-chiave nel mondo della musica:
“Supergruppi”. Con questa parola composta venivano indicate tutte quelle band
formate da musicisti già ampiamente noti e apprezzati in altre formazioni. Da
questo punto di vista, forse, l’esempio più emblematico consegnato alla storia
fu quello degli Emerson, Lake & Palmer, con il tastierista Keith Emerson
ormai già celebre per il lavoro svolto con The Nice, il cantante Greg Lake
appena fuoriuscito dai King Crimson e il batterista Carl Palmer che si era
distinto per il pregevole contributo dato agli Atomic Rooster di Vincent Crane.
Alla fine di quel decennio, un altro supergruppo emblematico fu quello degli
UK, con John Wetton alla voce e al basso dal curriculum impressionante (Mogul
Trash, Family, King Crimson tra gli altri), Bill Bruford (già in Yes, King
Crimson e con una fugace comparsata in un tour dei Genesis) alla batteria,
Eddie Jobson (Curved Air, Roxy Music, Frank Zappa) violino e tastiere e il
chitarrista Allan Holdsworth (Gong e Soft Machine tra gli altri). Con la
separazione da Holdsworth e Bruford, gli UK proseguirono come un trio, con
Wetton, Jobson e l’ex-batterista di Frank Zappa, Terry Bozzio.
Ma perché, tra innumerevoli supergruppi che
hanno affollato la storia della musica, abbiamo citato proprio questi due
esempi? Perché è proprio di un power-trio keyboard-oriented, come gli ELP e gli
UK post-Holdsworth, che siamo qui a parlare.
Esattamente: vista la straordinaria vivacità
della scena musicale italiana attuale (sia essa progressive, o metal, o
alternative), per questa band non è sprecato né eccessivo il termine di
“Supergruppo”, proprio come quelli nati negli anni ‘70.
Loro si chiamano Aerostation
e vi troviamo, infatti, all’interno il tastierista Alex Carpani, già
leader della sua Alex Carpani Band (che vanta al suo interno collaborazioni di
svariati grandissimi nomi della scena prog italiana e internazionale); Gigi
Cavalli Cocchi, batterista che nel rock progressivo è noto per i progetti
Mangala Vallis e CCLR (Cavalli Cocchi, Lanzetti, Roversi), nel mondo del
cantautorato ha suonato con Ligabue in diversi dei suoi album più celebri e al
Campovolo davanti a 100mila persone, nell’alternative rock ha fatto parte dei
CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti); Jacopo Rossi, bassista di
rilievo nella scena metal italiana, che milita o ha militato in band quali
Antropofagus, Dark Lunacy, Morgana e svariate altre.
Con coordinate di partenza del genere, è
facile capire che è arduo “ingabbiare” gli Aerostation in un genere preciso.
Dopo un album d’esordio omonimo, pubblicato
nel 2018, la band in questo settembre 2025 consegna alle stampe Rethink, un titolo che già di per sé un
manifesto programmatico: un invito a ripensare il concetto di musica stessa.
Tutto ciò è molto ben espresso non soltanto dal sound, ma anche dalla bella
estetica curata da Gigi Cavalli Cocchi, che oltre a suonare sviluppa la parte
grafica e visuale della band.
La prima cosa che colpisce di “Rethink” sta
nel fatto di trovarsi di fronte a un linguaggio “teso”, asciutto, ben poco
incline a vacue prolissità o inutili autocompiacimenti: 11 tracce di durata
oscillante mediamente fra i 3 e i 5 minuti.
Dopo la fulminea introduzione di “The Dive”
(meno di un minuto di impalpabili rarefazioni), si parte con la deflagrazione
di “A distant cry”, che prende le mosse dall’esile tappeto dell’introduzione
precedente per trasformarlo in un riff poderoso. Ne scaturisce un brano
energico ma melodioso e cantabile, a cavallo tra new-prog, metal-prog e AOR.
“Life is calling”, con le sue linee di basso
in primissimo piano, non può fare a meno di richiamare alla mente persino certi
Rush (nella fase più anni ‘80 e ‘90 della loro carriera), o gli Yes delle
formazioni guidate da Rabin, quelle più inclini al gusto estetico
d’Oltreoceano.
“Meet me at the end of the World” coniuga
riff di chiara estrazione metal (esatto: la cifra stilistica che attraversa
tutto l’album è racchiusa nel messaggio che si può fare dell’ottimo metal senza
chitarra) con ritmiche che non è blasfemo definire “ballabili”.
“The wait is over”, introdotta da un
inquietante ticchettìo, si sposta sulle coordinate a cavallo tra alternative
rock, psichedelia e post-prog care ai Porcupine Tree.
“Drive my soul” torna a spostare la lancetta
della band su territori più vicini al metal, ma sempre con questo gusto
post-rock fatto di momenti più arpeggiati, altri più eterei e, soprattutto,
sempre con un grandissimo lavoro basso/batteria che determina il groove del
brano.
“Life is too short” invece colpisce per
l’eccellente lavoro vocale (ancora una volta di matrice Yes) e per la sua
squisita “cantabilità”. Una caratteristica dell’intero progetto è proprio
quella di avere melodie e ritornelli deliziosamente “catchy”.
“Fly over me” conferisce una ulteriore
sterzata al sound, con tastiere algide di gusto quasi new-wave, a riprova
dell’estrema poliedricità dei musicisti coinvolti nel progetto (ma del resto
non avevamo alcun dubbio in merito).
Ci pensa subito “Soulshine” a riportarci a
una certa cupezza affine a certo nu-metal, mentre “Run as the sun goes down”
abbraccia, ancora una volta per contrasto, stilemi cari all’hard rock più
melodico (e ancora una volta con più di una strizzata d’occhio alle melodie dei
Porcupine Tree).
La band si congeda con “Messiah”, unica
traccia dell’intero lotto a sforare oltre la soglia dei 5 minuti di durata e,
in un certo senso, un po’ incaricata del ruolo di “summa” stilistica
dell’intero album, tra momenti più impalpabili, crescendo più sinfonici,
situazioni più drammatiche e altre più solari, sempre in bilico tra quel mix di
dark e di cantabilità, di classico e di moderno che rende unici e davvero
notevoli gli Aerostation.