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lunedì 1 settembre 2025

Aerostation – "Rethink": commento di Alberto Sgarlato

 


Aerostation – Rethink (2025) 

di Alberto Sgarlato

Negli anni ‘70, fu coniato un termine che poi divenne una vera e propria espressione-chiave nel mondo della musica: “Supergruppi”. Con questa parola composta venivano indicate tutte quelle band formate da musicisti già ampiamente noti e apprezzati in altre formazioni. Da questo punto di vista, forse, l’esempio più emblematico consegnato alla storia fu quello degli Emerson, Lake & Palmer, con il tastierista Keith Emerson ormai già celebre per il lavoro svolto con The Nice, il cantante Greg Lake appena fuoriuscito dai King Crimson e il batterista Carl Palmer che si era distinto per il pregevole contributo dato agli Atomic Rooster di Vincent Crane. Alla fine di quel decennio, un altro supergruppo emblematico fu quello degli UK, con John Wetton alla voce e al basso dal curriculum impressionante (Mogul Trash, Family, King Crimson tra gli altri), Bill Bruford (già in Yes, King Crimson e con una fugace comparsata in un tour dei Genesis) alla batteria, Eddie Jobson (Curved Air, Roxy Music, Frank Zappa) violino e tastiere e il chitarrista Allan Holdsworth (Gong e Soft Machine tra gli altri). Con la separazione da Holdsworth e Bruford, gli UK proseguirono come un trio, con Wetton, Jobson e l’ex-batterista di Frank Zappa, Terry Bozzio.

Ma perché, tra innumerevoli supergruppi che hanno affollato la storia della musica, abbiamo citato proprio questi due esempi? Perché è proprio di un power-trio keyboard-oriented, come gli ELP e gli UK post-Holdsworth, che siamo qui a parlare.

Esattamente: vista la straordinaria vivacità della scena musicale italiana attuale (sia essa progressive, o metal, o alternative), per questa band non è sprecato né eccessivo il termine di “Supergruppo”, proprio come quelli nati negli anni ‘70.

Loro si chiamano Aerostation e vi troviamo, infatti, all’interno il tastierista Alex Carpani, già leader della sua Alex Carpani Band (che vanta al suo interno collaborazioni di svariati grandissimi nomi della scena prog italiana e internazionale); Gigi Cavalli Cocchi, batterista che nel rock progressivo è noto per i progetti Mangala Vallis e CCLR (Cavalli Cocchi, Lanzetti, Roversi), nel mondo del cantautorato ha suonato con Ligabue in diversi dei suoi album più celebri e al Campovolo davanti a 100mila persone, nell’alternative rock ha fatto parte dei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti); Jacopo Rossi, bassista di rilievo nella scena metal italiana, che milita o ha militato in band quali Antropofagus, Dark Lunacy, Morgana e svariate altre.

Con coordinate di partenza del genere, è facile capire che è arduo “ingabbiare” gli Aerostation in un genere preciso.

Dopo un album d’esordio omonimo, pubblicato nel 2018, la band in questo settembre 2025 consegna alle stampe Rethink, un titolo che già di per sé un manifesto programmatico: un invito a ripensare il concetto di musica stessa. Tutto ciò è molto ben espresso non soltanto dal sound, ma anche dalla bella estetica curata da Gigi Cavalli Cocchi, che oltre a suonare sviluppa la parte grafica e visuale della band.

La prima cosa che colpisce di “Rethink” sta nel fatto di trovarsi di fronte a un linguaggio “teso”, asciutto, ben poco incline a vacue prolissità o inutili autocompiacimenti: 11 tracce di durata oscillante mediamente fra i 3 e i 5 minuti.

Dopo la fulminea introduzione di “The Dive” (meno di un minuto di impalpabili rarefazioni), si parte con la deflagrazione di “A distant cry”, che prende le mosse dall’esile tappeto dell’introduzione precedente per trasformarlo in un riff poderoso. Ne scaturisce un brano energico ma melodioso e cantabile, a cavallo tra new-prog, metal-prog e AOR.

Life is calling”, con le sue linee di basso in primissimo piano, non può fare a meno di richiamare alla mente persino certi Rush (nella fase più anni ‘80 e ‘90 della loro carriera), o gli Yes delle formazioni guidate da Rabin, quelle più inclini al gusto estetico d’Oltreoceano.

Meet me at the end of the World” coniuga riff di chiara estrazione metal (esatto: la cifra stilistica che attraversa tutto l’album è racchiusa nel messaggio che si può fare dell’ottimo metal senza chitarra) con ritmiche che non è blasfemo definire “ballabili”.

The wait is over”, introdotta da un inquietante ticchettìo, si sposta sulle coordinate a cavallo tra alternative rock, psichedelia e post-prog care ai Porcupine Tree.

Drive my soul” torna a spostare la lancetta della band su territori più vicini al metal, ma sempre con questo gusto post-rock fatto di momenti più arpeggiati, altri più eterei e, soprattutto, sempre con un grandissimo lavoro basso/batteria che determina il groove del brano.

Life is too short” invece colpisce per l’eccellente lavoro vocale (ancora una volta di matrice Yes) e per la sua squisita “cantabilità”. Una caratteristica dell’intero progetto è proprio quella di avere melodie e ritornelli deliziosamente “catchy”.

Fly over me” conferisce una ulteriore sterzata al sound, con tastiere algide di gusto quasi new-wave, a riprova dell’estrema poliedricità dei musicisti coinvolti nel progetto (ma del resto non avevamo alcun dubbio in merito).

Ci pensa subito “Soulshine” a riportarci a una certa cupezza affine a certo nu-metal, mentre “Run as the sun goes down” abbraccia, ancora una volta per contrasto, stilemi cari all’hard rock più melodico (e ancora una volta con più di una strizzata d’occhio alle melodie dei Porcupine Tree).

La band si congeda con “Messiah”, unica traccia dell’intero lotto a sforare oltre la soglia dei 5 minuti di durata e, in un certo senso, un po’ incaricata del ruolo di “summa” stilistica dell’intero album, tra momenti più impalpabili, crescendo più sinfonici, situazioni più drammatiche e altre più solari, sempre in bilico tra quel mix di dark e di cantabilità, di classico e di moderno che rende unici e davvero notevoli gli Aerostation.