Usciva il 5 settembre 1975 l'album
"Minstrel in the Gallery", grandissimo lavoro dei Jethro Tull
(punto).
Wazza
di Brionia Meriggi
Quasi ogni opera dei Jethro Tull, dal
primo apparire, divenne suo malgrado l’epicentro di diatribe sollevate da una
critica perennemente controversa, smaniosa di bollare la band come appartenente
o meno alla corrente prog tout court: ansie che Ian Anderson non tardò a
placare, di album in album, sottraendosi alle rigide e sterili etichette,
musicalmente ribadendo come i Jethro Tull fossero una realtà a sé stante,
originale nella personalissima fusione di generi diversi, dalla classica al
folk, dall’hardrock al prog fino al jazz. Puntualizzazione che si concretizzò
in un sound ed uno stile peculiare e ascrivibile a loro stessi soltanto.
Ed in errore erano coloro che li
avevano impietosamente e prematuramente destinati, dopo il successo di “Thick
as a brick”, ad un’”aurea mediocritas”: fu “Minstrel in the Gallery” a sfatare
questa convinzione. Più complesso e meno fruibile dei precedenti nell’audace
combinazione di rock ( hard o prog ma indiscutibilmente rock), musica
sinfonica, folk e acustica, dal punto di vista delle liriche l’album è forse il
più introspettivo (quando non diventa autobiografico) dell’intera produzione
del gruppo, o sarebbe più corretto dire di Anderson stesso, menestrello
accentratore che ne divenne l’indiscusso sovrano dall’uscita di “Aqualung” in
poi.
Registrato quasi interamente nella
“Maison Rouge Mobile”, bizzarro mezzo di trasporto attrezzato a studio di
registrazione ambulante con tanto di violinisti e violoncellisti al seguito,
nel corso di un lungo viaggio dall’Inghilterra a Monaco, l’Lp si apre col brano
eponimo, ottimo ensemble di chitarra acustica, flauto ed archi in un’amalgama
(di tanto in tanto un po’ eccessivo e ridondante) di arrangiamenti hard e prog.
Ma sono in brani atti a formare quasi un unico capitolo come “Cold wind to
Valhalla”, escursione nella mitologia nordica e “Black satin dancer”, sommessa
e velata descrizione di un amplesso, che il talento compositivo di Anderson si
esplica al meglio nell’abilità di coniugare elementi acustico-orchestrali con
strutture folk prog, in un’equilibrata e camaleontica diversificazione
melodica.
”Requiem”, struggente ballata
acustico-classicheggiante, tenero e amaro flash-back della fine di un amore che
protrae la finezza delle scelte stilistiche e la delicatezza delle liriche
nell’ulteriore ballad “One White Duck/Nothing at all”, composizioni dal sapore
folk-cantautoriale, pause intimiste e meditative che si faranno da parte per
lasciare che la suite quadripartita “Baker Street Muse” ( Pig me and the
whore,Nice Little Tune,Crash-Barrier Walzer, Mother England Reverie) dipinga
senza troppo candore né indulgenza, squallidi e grotteschi tabloid di vita
metropolitana.
Ma protagonista è comunque la
maestria del colorito tocco di Ian Anderson disilluso ed ironico ritrattista
che capta in variegate sovrapposizioni armonico-stilistiche, miserie e
mediocrità umane, disinvoltura e talento capaci di emergere anche in brevi
attimi di poesia in note, come gli squisiti 50 secondi di “Grace”, garbato
epilogo del lavoro di una band che non ha mai ripetuto sé stessa, istrionica a
dispetto dei sentimenti e delle reazioni contrapposte che l’hanno sempre
accompagnata, magari più affievolita in taluni paragrafi della sua carriera ma
tuttavia personalissima e sui generis nel panorama musicale moderno.
L’esibizione live a Montecarlo sancì
la versione definitiva di “Minstrel in the Gallery” nonché la dipartita del
bassista Jeffrey Hammond-Hammond riacceso dalla fiamma per la sua antica
passione e attività: la pittura. E a lui Anderson ha voluto dedicare l’edizione
rimasterizzata dell’album che nel 2002 ha vissuto una seconda rinascita negli
storici Abbey Road Studios e arricchito di ottime bonus-tracks (“Summerday
Sands”, “March the Mad scientist, Pan dance e due registrazioni live di
“Minstrel in the Gallery”e “Cold Wind to Valhalla”).
CIAO VISITATORI
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