21 aprile 2016
"Voglio solo dire una cosa, lo dico dopo
trent’anni… e senza nessuna retorica. il rock è pieno di rock star, tante rock
star, ma di un solo Banco del Mutuo Soccorso".
(Francesco di Giacomo
- Roma 6 luglio 2002)
Ci sarai sempre... Buon
viaggio Capitano !
WK
Il racconto di Giorgio Montebello…
La parola “Banco” ha
sempre rievocato in me numerosi e differenti immagini, persone, oggetti, tutte
sparse nella memoria di una vita, a formare qualcosa di estremamente variegato,
denso. Banco è per me sinonimo assonante di “babbo”. Fu proprio lui, il mio
babbo, a parlarmi con entusiasmo, fin da quando ero piccolo, di questo gruppo,
divenuto simbolo, per me, di tutto il buono che c’era negli Anni Settanta, a
livello umano, oltre che musicale, e che dagli Anni Settanta si è protratto
fino a questo giorno improvvisamente divenuto così triste. “Banco” era, ed è
ancora, soprattutto il sinonimo di un ometto e un omone insieme, dall’aria così
innocente, pura, la cui fisionomia da sola, probabilmente bastò per far breccia
e trovare un posto anche nel cuore di Fellini.
Francesco di Giacomo
era un uomo di una bellezza poetica innata, tanto da calzare, con la sua
imponente presenza artistica, più di un personaggio dell’immaginario felliniano.
Un uomo che ha fatto della poesia uno stile di vita, che ha saputo con la sua
voce tenorile, unica ed inconfondibile, elevare la sua stessa poesia, il suo
messaggio, fino a scolpirlo nelle menti di tutti noi. Un uomo che cantava,
sognava e parlava al pubblico, di una libertà che si manifesta innanzitutto
nella musica, un uomo che con ogni parola cantata o detta, rammentava al
pubblico quanto fosse importante la memoria, la memoria di quello che è stato
l’uomo, la memoria di quello che ha fatto l’uomo, e la memoria di cosa sia in
effetti l’uomo. Io ricordo di quello strano personaggio, così buffo, in
quell’orologio da taschino, lo ricordo come l’autore della più grande canzone
sull’amore (e non d’amore), il poeta, il sognatore, il sogno stesso, che si fa
voce e diventa la voce della ragione, della libertà, della pace, la voce della
poesia. La voce che c’ha ricordato anche come il tempo, che cambia
inesorabilmente le cose, non impedisca alla storia di ripetersi.
“Cerco di cogliere il
cammino dei pensieri belli, ma selvaggi. Le parole hanno tutte un loro suono e
il problema nasce quando vuoi mettere le parole in musica. Può darsi che ti
colpisca particolarmente un ghiacciolo amaranto e ti viene voglia di scriverci
sopra: viviamo tra sospiri e sospensioni, e quando si scrive, come nella vita,
non dobbiamo cercare sempre e costantemente il momento più alto del volo, ma
almeno proviamo a saltellare. Non scrivo mai cose che non amo: se non amo le
rose rosse non le scrivo. Le parole sono cose che stanno dentro di te e quando
devo uscire fuori, quello che dico deve suonare bene. Bisogna servirsi della
metrica ma va anche corroborata da ciò che si ha in testa. Nella stesura di un
testo è importante mettere a fuoco la ritmicità delle parole: il ritmo è qualcosa
da penetrare. Poi io ho il terrore dello stile: quando mi è stato chiesto di
scrivere un testo, io ne ho scritti e proposti tre tutti con delle varianti che
per chi li leggeva erano impercettibili, ma per me no.”
Disse, al concerto, di
“far propri, quel momento, quella frase, quel concerto”, e così abbiamo fatto,
io e la mia ragazza, e altrettanto fece, quarant’anni fa, il mio vecchio, nel
’74, allo stesso concerto in cui probabilmente si trovavano anche i genitori
della mia ragazza. Francesco fa parte del legame fra me e mio padre, fra
generazioni intere, fra me e la storia da cui tutti dovremmo imparare. Mi ha
insegnato come fosse stato un padre lui stesso. La sua musica mi ha insegnato
tutto ciò che c’è da sapere dalla vita
Giorgio Montebello
E come ha scritto Alvaro Fella dei Jumbo, suo collega: “Lassù non ne avevano abbastanza di grandi, e
dopo chitarre, pianoforti, e batterie avevano bisogno di una voce, e hanno
scelto la più bella”.
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