GRAND FUNK & HUMBLE PIE in Italy, CIAO 2001, 1971
Nel giugno del 1971 CIAO
2001 ricordava il "doppio" concerto dei Gran Funk e Humble Pie,
tenutosi a Roma e Milano.
A Roma la conferenza stampa fu tenuta
in un "tram" dell'Atac!!! (a seguire la recensione fatta dall'epoca
dal compianto Ernesto de Pascale)
Di tutto un Pop…
Wazza
Di Ernesto De
Pascale
“Un sòla”… lì per lì non capisco: una
nota musicale di sol al femminile?, un uomo solo ma declinato male? Non “Un” ma
“Una sola” nel senso di una sola volta, una sola cosa, la suola di una scarpa? boh!
Sinceramente non capisco.
Nel caldo romano odierno, di questi
“un sòla” ce ne devono essere molti, o chi per loro in giro, visto che, davanti
ai cancelli del Palaeur - dove mi trovo per un concerto pazzesco ed attesissimo
da settimane e per il quale ho convinto la mia famiglia ad emigrare nella
capitale - mi imbatto in una discussione sul gruppo che apre la serata e che,
per l’animato relatore, è guidato da “un sola”. Giungo alla conclusione che,
qualsiasi sia il significato nella migliore accezione del termine, sto’ sola ò
è un ganzo o una mezzasega.
Il giovane in questione che conduce la
discussione- canotta militare, ray ban da sole, capelli lunghi ondulati con la
divisa su un lato, baffetti, jeans scampanati con bordino di merletto ricamato
che denota una certa cura nel trattamento, clark marroni e, immancabile,
tascapane – sta facendo capannello descrivendo il gruppo spalla come capitanati
da “un sola”, un traditore che aveva mollato nel momento di maggiore successo
il suo vecchio gruppo per formarne uno nuovo.
Il giovane, per un insieme di cose,
dal tono della voce all’entourage che lo accompagna, anni dopo avrei pensato
essere Nanni Moretti
Visto che io conosco a mala pena il
gruppo in questione, se non per un album acquistato la settimana prima a
Viareggio al negozio di Corrado Fontana, Fontana dischi (oggi Mondodisco), e
che ho suonato a tutta manetta continuativamente per sette giorni, faccio
fatica a entrare nel merito.
A me questi Humble Pie (così si chiama
la band mentre il loro leader si chiama Steve Marriott, questo lo so!) mi
sembrano molto ganzi, caro amico “un sola”, però mi esento dal dirglielo visto
che non conosco nessuno intorno, che sono il più piccolo e che qui mi ci ha
portato mio padre al quale ho imposto letteralmente di stare alla larga da
questo luogo di rock & roll.
Infatti, lui mi ha mollato all’inizio
della Cristoforo Colombo e se ne è tornato in città eseguendo alla lettera i
miei desideri (a 3 km dal palasport, che ho fatto a piedi, chi se la sentiva di
chiedere uno strappo come tanti altri facevano…).
Insomma, il tipo, qui, fuori dal
Paleur, va avanti un bel po’ in mezzo a un capannello che va aumentando di
numero fino a che uno, più anziano, o almeno così sembrava - ma a dire il vero
mi parevano tutti grandi quelli lì- uno con la barba lunga fino quasi alla
pancia – che anni dopo ricollegherò essere Paolo Zaccagnini o il suo sosia –
dopo averlo ascoltato un po’ con un sigaro fra i denti, non lo zittisce,
tirandogli “una pizza” in viso, quasi facendolo cadere, mandandolo via
piangendo e urlandogli dietro
Davanti ai cancelli del Palaeur,
intanto, è un delirio.
La gente urla incazzata che non vuol
pagare le 1500 lire del biglietto perché – affermano – il prezzo è troppo alto
e che, se non entrano gratis, “sfondano”. Io, che ho un biglietto comprato
all’Orbis, il box office degli anni settanta a Roma, svicolo dentro quatto
quatto mentre fuori sento urlare slogan celebri dei cortei dell’epoca come
“celerini assassini“ (ma fuori non è successo nulla!), “jimi, Eric, Mao Tse
Tung” (il compromesso politico-musicale avanza!) e altri meno celebri ma più
geograficamente collocati come un mastodontico “Forza Roma!” e un più generico
“ladri, ladri”, che in Italia funziona bene sempre.
Anche oggi.
Dentro il Palaeur sembra di stare al
Super Dome di New Orleans dopo l’uragano Katrina.
Lo sbraco più totale imperversa.
L’aria condizionata non esiste (c’era
scritto sul biglietto che al Palaeur c’era, era un segno distintivo
dell’epoca!).
Non importa però.
Il fascino è così forte che l’odore
del profumo patchouli, misto a pecorino da calzini sporchi una settimana
assomiglia, in quel momento per me, all’odore di una rosa di prima mattina:
Straordinario!
E se è il rock & roll, mi dico,
deve essere così: let it be, lascia che sia
(le mie conoscenze dell’inglese erano,
al momento del concerto, limitate a poche canzoni, poi sarei migliorato!).
Torniamo al disco più recente del
gruppo che la formazione inglese questa sera presenterà e che da poco ho
comprato e di cui vado fiero: esso ritrae una serie di poliziotti motociclisti
che si sono montati in testa l’uno all’altro e io ho passato l’intera settimana
precedente al concerto a studiare la loro faccia per tentare di capire come
avevano fatto a non cascare tutti.
Ma certo! Era stata la musica a dargli
la forza di resistere, mi ero detto e giustificato: un cazzotto nello stomaco
che li aveva compressi e impacchettati l’un sopra l’altro.
Ero, infatti, sicuro che la foto di
“Rock On”, questo il titolo dell’album, era stata scattata mentre i
motociclisti stavano ascoltando il contenuto sonoro del disco, una musica tozza
e sporca e dura dal sapore blues che riempiva il cuore di piacere.
All’epoca del disco ero certo, anzi
certissimo che le foto di copertina si scattavano facendo ascoltare ai soggetti
i dischi che avrebbero rappresentato, per una semplice questione di pertinenza
e aderenza ai contenuti, no?
Ad esempio, alla mucca di Atom Heart
Mother avevano – sicuramente- fatto sentire tutta la suite dei Pink Floyd e
alla tipa sul disco di debutto dei Black Sabbath tutto l’album dei quattro di
Birmingham.
Andatevi a riguardare la copertina in
formato ellepi dell’epoca e ditemi se sbaglio oppure no!
Riflessione a parte, devo confessare
che avevo, in cuor mio, una vaga speranza di ritrovare sul palco del Palaeur,
oramai un brodino per la temperatura tropicale, quello stesso show circense
visto sulla cover del disco degli Humble Pie ma quando i quattro musicisti
montano sul palco dell’enorme caverna capisco che le cose, per la prossima ora,
sarebbero andate diversamente.
Annunciati fra una selva di fischi
diretti a David Zard, un giovane impresario ebreo che si vocifera ricicli i
soldi e lavori per la CIA, i Pie entrano come leoni nell’arena.
Il leader del gruppo, “un sola”, è in
verità uno spiritato tappetto non più alto di Renato Rascel (all’epoca i
termini di paragone erano quelli, mi dispiace. Prince non c’era ancora e se ci
fosse stato avrebbe avuto la mia età, 13 anni!) che sbraita e urla e si rotola
sul palco mentre i suoi soci con una certa nonchalanche gli ruotano intorno in
una danza cannibalesca.
Il gruppo, attaccatosi agli ampli con
lunghi cavi come funi, con lo spirito del musicista plug & play al quale
frega ‘n cazzo tanto sa sempre cosa tirar fuori dal suo strumento - infatti
fischia tutto! - partono con un boogie orgiastico menando come pazzi e sparando
bordate dai loro amplificatori Marshall ed Orange alle prime file, centrandomi,
immancabilmente, in pieno.
È in quel momento che comprendo che
gli Humble Pie suonano con l’intenzione di fare male all’ascoltatore e lasciare
il segno.
Questo rock, mi dico, è, a parte il
dolore auricolare, un piacere, un vero piacere: una venatura di blues e rhythm
& blues emana da tutti i pori dei quattro.
I riff sembrano sciabolate!
Il bassista (Gregg Ridley), un biondo
crinito, sventola i lunghi capelli a tempo con maggiore insistenza proprio
quando il batterista (Jerry Shilrey) cerca disperatamente di bucare i tamburi
con delle mazzate così roboanti che il Palaeur trema e pare stia per cadere.
Un secondo chitarrista con la faccia
d’angelo (Peter Frampton) tiene le redini della danza ed è così giovane che per
mesi e anni a venire sono rimasto convinto fosse minorenne.
Nel mezzo della baraonda Steve
Marriott canta il blues come non avevo visto fare a nessun bianco.
A un certo punto mi soffermo sugli
abiti di scena del tappetto: pantaloni di flanella (cazzo! è giugno) tenuti su
da delle bretelle con la union jack e delle scarpe basse di corda. Niente
altro.
Marriott è matido di sudore. Sono
talmente vicino a lui che noto un’otturazione tra i molari destri superiori.
Ogni tanto, per allentare la tensione sputa per tera e si grata il sedere.
Lo show va avanti con la furia di
quello che sa che il traguardo è in cima alla montagna.
Non so dietro di me il gradimento, ma
qui davanti, nel golfo mistico, il feeling è altissimo.
Gli Humble Pie chiudono l’ultimo pezzo
con la stessa classe con cui un camionista sonnambulo lanciato a tutta velocità
tira il freno a mano a un metro da un muro.
Adesso Steve Marriott è steso al suolo
come un pugile a knock out.
La gente applaude ma lui resta lì.
Immobile. Nell’enfasi e nell’estasi generale la gente continua ad applaudire.
Poi il silenzio scende per un attimo sul Palaeur ma dal brusio è evidente che
il pubblico non ha capito la gravità della situazione.
Tutti riprendono a battere le mani
mentre io inizio ad andare in paranoia e penso che Steve Marriott sia morto
qui, stasera, A Roma, davanti a miei occhi, a un metro da me.
E’ tutta una ridda di pensieri
velocissimi. Eppure, dopo l’iniziale spavento il mio umore cambia
repentinamente e mi esalto e mi galvanizzo all’idea di aver visto il primo
morto da troppo rock. Cazzo che scoop!!! E a soli tredici anni…
Due tecnici appaiono a questo punto
sul palco e, senza proferire parola né una smorfia sul viso, prendono Marriott
di peso e se lo tirano via sulle spalle.
Poi, è questione di un attimo, il gran
colpo di teatro: le luci si accendono tutte e Steve ritorna in scena,
sorridente, seguito dai suoi e saluta, tutti salutano. Gli applausi si
moltiplicano.
Per le migliaia di persone non è
accaduto nulla. L’ultimo è un applauso da Colosseo alla “morituri te salutant”
quello che accompagna la scena finale, mentre dagli spalti ricompare
l’immancabile coro “Forza Roma, Forza Lupi, Sò finiti i tempi cupi”.
Steve- penso- sei “un sòla”…
Questo è il mio ricordo degli Humble
Pie come supporter dei Grand Funk Railroad, trio di cui rimembro ben poco se
non che facevano il doppio del casino dei Pie.
Il repertorio di Marriott e soci?,
chiederanno i (pochi) fans rimasti oggi aficionados della band: esattamente il
doppio live “Rockin’the Fillmore” registrato solo il mese prima, che andai ad
acquistare sempre a Viareggio, sempre da Fontana, appena pubblicato, e
immediatamente mandato a memoria da allora fino a oggi.
Quando tutto il pubblico defluisce
lentamente dal palasport noto qualche faccia famosa fiorentina mentre cerco di
raccogliere i commenti. Fra loro spicca per altezza e sagacia “La Nonna”
personaggio che anima i pomeriggi del “Sala Disco” di via Vecchietti, a
Firenze, l’unico negozio che venda dischi d’importazione, con i suoi commenti.
È uno, “La Nonna” a cui piacciono solo i dischi” strani” ma i concerti, quelli
no!, non se ne perde uno e già nel 1971 è un veterano.
“La Nonna” a voce alta, come presto
scoprirò essere sua abitudine fare, licenzia la serata, senza essere stato
interpellato da alcun presente, con due sole parole: ”Bella Cagata” ma non farà
in tempo a terminare l’ultima sillaba che lo stesso barbuto castigatore di cui
sopra, facendosi larga tra la gente, lo mette a terra con “una pizza” tirata
con una copia accartocciate del quotidiano “Il Messaggero” ( dove molti anni
dopo il presunto o il suo sosia, sarebbe andato a lavorare), potente almeno due
volte quella del pomeriggio e, fra le risate e i lazzi, lo liquida nello stesso
modo con cui aveva liquidato nel pomeriggio il suo concittadino: ”tu nun ce
capisci un cazzo de stà robba!” aggiungendo perentorio”...e tornatene a casa”
concludendo con l’immancabile firma capitolina: “stronzo!”.
La serata finisce lì.
Enuff said!
Le parole del barbuto sceriffo, miste
ai watt della serata e al ricordo della mezza bottiglia di Jack Daniel che
Marriott si era tirato giù nel corso dello show, mi faranno girare la testa per
un bel po’, conscio di aver toccato con mano il vero rock, in tutte le sue
forme e sfumature, orgoglioso di essermi conquistato la prima fila, di aver
vissuto una “vera” rissa per motivi musicali, di quelle che ti fanno togliere
il saluto, nel nome di un ideale.
Resto solo deluso (un po’, solo un
po’…) dal mancato decesso in diretta, lì, sul palco, di Steve Marriott.
I Pie mi resteranno per sempre nel
cuore.
Prima della sua prematura scomparsa,
il 20 aprile 1991 nel suo cottage nell’Essex, avrei rivisto Steve Marriott
ancora una volta, quasta volta insieme a Ronnie Lane, già suo compagno
d’avventura nei mod-issimi Small Faces, nel 1980, dal vivo all’Hope &
Anchor, uno storico rock club di Londra, ma l’intera serata aveva un tono
dimesso, da viale del tramonto, da dimenticare.
Meglio mantenere forte nella memoria
il ricordo degli Humble Pie.
Quei tipi Plug & Play dallo
spirito olimpionico che non si arresero neanche davanti all’evidenza dei tempi
che cambiavano più veloci dei loro boogie.
Ricordate, allora: colui che cerca di
mutuare la vecchia storia per cui chi ha vissuto i sessanta se ve li racconta
significa non c’era e tenta di rifilarvi la stessa abbinandola ai settanta, è
solo “un sòla”.
Per zittirlo, tirategli “una pizza”…
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