Aether:
“Trans-Neptunian Objects” (2024)
di Alberto Sgarlato
Il nome degli Aether non è certo nuovo agli attenti e affezionati lettori di MAT2020. Era infatti circa un anno fa (per la precisione dicembre del 2023) quando recensivamo il loro ottimo album omonimo. Quell’esordio fu frutto di una lunga gestazione, iniziata già nel corso del 2022 e terminata a metà del 2023. Chi volesse rispolverare quell’articolo, può trovarlo a QUESTO LINK.
In quella circostanza parlavamo di fusion,
post-rock, progressive, ambient e minimalismo come vaghe coordinate di massima
per guidare l’ascoltatore alla scoperta di una band che, in realtà, nonostante
la recentissima formazione (esistono solo dalla fine del 2021) ha già saputo
creare una propria cifra stilistica interessante e ben definita.
Merito della straordinaria preparazione
tecnica dei quattro musicisti, che avevamo già menzionato analizzando il
precedente album e che in questa nuova pubblicazione restano invariati. Squadra
che vince non si cambia, ed ecco pertanto che salutiamo nuovamente Andrea
Ferrari (chitarre e tastiere), Andrea Grumelli (basso fretless), Andrea
Serino (tastiere e piano elettrico Fender Rhodes) e Matteo Ravelli
(batteria ed elettronica).
Questo nuovo “Trans-neptunian
objects” è un concept-album: ovviamente nel senso in cui può
essere sviluppato il “concetto” da parte di una band totalmente strumentale;
quindi non con i testi che si legano tra loro cantando un’unica vicenda ma,
semmai, trasmettendo all’ascoltatore una sensazione di continuità attraverso i
titoli dei brani e attraverso un “mood” comune che collega le varie
composizioni. Nello specifico, qui, il tema è quello dell’astronomia; in
particolare, il punto di partenza che ha fatto scattare questa “molla” nella
band è stato l’osservare una serie di foto scattate nello spazio, dalle
immagini raccolte dal telescopio James Webb a quelle sulla superficie marziana
raccolte dal Mars Rover. Tuttavia, i nostri quattro sono anche grandi
appassionati, oltre che di astronomia, di fantascienza: sia quella letteraria
dei grandi autori (Philip Dick, J. G. Ballard, le indimenticabili raccolte
“Urania” dalle copertine immediatamente riconoscibilissime), sia quella
cinematografica dei registi di ieri e di oggi (Christopher Nolan, Ridley Scott,
Terry Gilliam).
Insomma: tutte queste suggestioni sono state
immagazzinate dagli Aether e vengono proiettate sull’ascoltatore attraverso la
musica.
Siamo di fronte a otto brani, dei quali il
primo rappresenta una sorta di introduzione all’opera e l’ultimo ne condensa i
temi principali in una struttura omogenea ed eclettica al tempo stesso.
E partiamo con “Sidus (Prelude)”,
brano che vede il piano Fender e il basso fretless protagonisti in uno
stratificarsi all’inizio di piccoli tocchi e poi pian piano di melodie sempre
più definite; poco più di un minuto che però già basta a mettere in chiaro
l’ottimo gusto melodico che pervade l’opera.
“Neptune”, esattamente al
contrario, parte con un turbinio batteristico degno di John Marshall nei Soft
Machine! Ed ecco un grande jazz-rock di stampo canterburyano, grinta e melodia,
nel quale i “ghirigori” della chitarra sembrano quasi danzare attorno ai temi del
sintetizzatore analogico. Il lavoro insistente dei piatti (un china? Un crash?)
sotto il solo di chitarra è uno spettacolo nello spettacolo. E le linee
chitarristiche frammentate ricordano Hatfield and the North ma anche Fripp.
Alcuni temi del brano sono citazioni e rivisitazioni di quella “Neptune” che
Richie Beirach aveva già inciso con John Abercrombie.
Con “Magrathea” torniamo alle
rarefazioni elettroniche care alla band. In questo caso il brano cresce più
lentamente, dettaglio dopo dettaglio, fino a raggiungere la piena maestosità
attorno alla sua metà, vero un intenso finale.
“Saturn” è una stratificazione
di rumorismi che, però, cessa nel giro di meno di un minuto per dare spazio
invece a temi chitarristici e pianistici di una pulizia (formale, compositiva,
esecutiva, sonora) opposta rispetto all’introduzione, in un gioco di contrasti
suggestivo. Tuttavia “ondate sonore” fanno capolino in sottofondo per creare la
giusta destabilizzazione e movimentare l’ascolto. Dal secondo minuto in poi,
davvero pregevole il lavoro del basso fretless che si prende la scena,
elevandosi al ruolo di protagonista. E nell’ultimo minuto il brano sembra
“indurirsi”, ritrovando quelle sonorità e quei fraseggi canterburyani già
assaporati in “Neptune”.
“Ephemeris”: le antiche “carte
astrali” che guidavano i marinai nella navigazione sembrano qui trasformarsi in
partiture che segnano la strada ai quattro musicisti in uno dei momenti più
sperimentali dell’intero album, dove il jazz diventa più vicino all’avanguardia.
“Amalthea”, ovvero: come si fa
a raccontare una storia se sei strumentale? Semplice, trasmettendo delle
sensazioni attraverso i suoni! Ed ecco che, su un gran lavoro di chitarra e
piano elettrico, il supporto offerto dalla sezione ritmica si fa costantemente
cangiante, variegato, disomogeneo, spiazzante, proprio come la superficie del
satellite di Giove dal quale il brano prende il nome. Se invece noi dovessimo
dare un nome a quello che stiamo sentendo, si potrebbe parlare quasi di
“funk-postmoderno-destrutturato”: i suoni sono caldi come quelli di un blues,
ma l’incedere è colorato come il free-jazz (pur senza sfociare mai nelle
correnti più “estreme” di questo genere).
“Pale blue dot”: il “pallino
celeste” del titolo non è altro che la Terra vista dalla “Voyager 1” nel 1977…
Per cui i fans dei Dream Theater si mettano pure il cuore in pace: la traccia è
soltanto omonima rispetto al brano dei cinque di Boston. E, paradossalmente,
rispetto al “massimalismo parossistico” dei Dream Theater, qui invece siamo di
fronte a una delle tracce più intime e rarefatte dell’intera opera. Con un
fretless ancora protagonista, sentiamo piccoli tocchi di chitarra col wah-wah
snodarsi su loop ritmici elettronici appena “conditi” da impalpabili colpi di
batteria.
Ed eccoci arrivati al monumentale gran finale: i circa 13 minuti di “Sidus (Suite)” sono, come anticipato all’inizio di questa recensione, un rincorrersi di temi che in qualche modo “accarezzano” dei mood già “assaporati” nel corso dell’album, ma qui destrutturati, rarefatti, in un continuo rincorrersi di dissoluzioni e poi nuovi crescendo e poi ancora dissoluzioni e poi crescendo. E qui c’è anche la summa di quella cifra stilistica della band già indicata come un sapiente mix di ambient, free-jazz, elettronica, Canterbury sound e molto altro.
Concludendo: il fatto di ritrovare i tratti
distintivi già apprezzati nell’ottimo album di esordio, dimostra che la band ha
ormai riconfermato la sua piena maturità, peraltro già pienamente apprezzata
nel lavoro precedente.
Tracklist
1-Sidus
2-Neptune
4-Saturn
6-Amalthea
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