Alan Parsons Live Project
Roma, 28 marzo 2015
Auditorium della Conciliazione
Vorrei evidenziare che
non sono uno scrittore, ne un consulente musicale e tantomeno un critico di
questa, chiamiamola così, “disciplina”; non
voglio con questo ''giustificare la carenza sintetica, tutt'altro, e una
cosa la posso fare... perché sono un grande appassionato di ''suoni”, di musica
suonata, e non mi importa di ricordare ne i titoli ne i testi, ma bensì tutte
le sfumature sonore, descrivendo da dove e come sono state tecnicamente
ricavate.
Intendo con questo raccontare,
sperando in modo comprensibile, le miei sensazioni e i miei ricordi della
serata.
ALAN PARSONS LIVE PROJECT, un bellissimo concerto andato in
scena a Roma, il 28 MARZO 2015, in un habitat nato
esclusivamente per accogliere concerti.
L'Auditorium della Conciliazione a Roma è in via della Conciliazione,
e fa parte del “sistema 'Vaticano”, nato per accogliere musica prevalentemente ''classica
ed ecclesiastica”, ma si è aperto, con il passar del tempo, anche a tutto il
resto e alle molteplici possibilità musicali.
Bisogna anche
rammentare che in un ambiente simile la perfezione sonora e acustica è quasi obbligatoria.
Tantissima gente era
in trepida attesa per questo concerto, anime di tutte le età, figure dall’apparenza
un pò retrò, con affascinanti abbigliamenti, sgargianti, fuori moda, quasi a
volersi intonare all'aspettativa musicale della serata.
Un calore particolare
avvolgeva il posto, e non mi capitava da anni vedere gente di una certa età stipata
in largo anticipo ai piedi del palco per scattare piccoli ricordi tecnici, fotografando
nei particolari le strumentazioni, ferme lì in attesa di essere usate, con
pedaliere colme di effetti che quasi
sempre fanno la parte del leone, perchè poste più in avanti di tutto e subito
distinguibili, una manna per il “mare di competenti” musicofili, intenti nel provare
a capire, vedere, toccare, commentare e pronti ad intuire come e da dove
sarebbero usciti i suoni che aspettavano con trepidazione.
E giunge il momento
dello start... buio in sala... una nota
lunga, profonda, profondissima… di tonalità molto bassa, tecnicamente
chiamata “pedale”, ma non in riferimento a quanto accennato precedentemente. Con
questa si crea un tappeto sonoro senza inflessioni, ne oscillazioni... una
linea ipotetica orizzontale, una
sonorità tipica della così chiamata “attesa”...
lineare e senza articolazioni, che ha fatto tremare letteralmente il
pavimento... un suono molto prolungato, che nel buio fornisce il tempo agli
artisti di posizionarsi sul palco.
Ed eccolo arrivare per
ultimo... Mr Parsons, illuminato da
una luce bianca… è lui!
Un omone enorme, che
desta inquietudine per la sua mole... altissimo, indossa una giacca degna di un
grande presentatore d'avanspettacolo, stravagante, eccentrica, piena di
lustrini e luccichii, tanto particolare da non farne capire
il senso, ma comunque a suo modo elegante ed efficace; pochi cenni con
la mano per salutare e arrivano le ovazioni della sala, mentre inizia un battere ossessivo, tra basso e batteria, e
parte un riff che crea un'atmosfera irreale;
la tastiera suonata da Parsons elabora
echi inimmaginabili, creati dal BINSON, un vecchio modulatore Echo ideato e costruito a Milano, punto di
forza dei Pink Floyd nei loro album.
Vi chiederete… perché
questo accenno ai Pink? Semplice, Parson manipolò quelle sonorità
e registrò in studio tutti gli album -o quasi-
più famosi del più importante gruppo psichedelico di tutti i tempi, e ne è ancora
notevolmente influenzato.
Cerchi luminosi ruotano
sul soffitto, grande movimento di luci gradevolmente macchiate di bellissimi
colori pastello, che sembrano uscire da un proiettore che sputa acquarelli e olii che, mischiandosi, creano
scene fantastiche, psichedeliche. No, non mi sono fumato nulla... mai fatto in
vita mia, ne bevuto (sono astemio), ma sono rimasto semplicemente stupito da
tanta abilità nel riprodurre quei momenti che si pensava dovessero essere per
forza completamente dimenticati.
Il gruppo sin dai
primi accenni dimostra un senso del bello musicale e ne approfondisce i suoni,
e proprio quando questi sembrano ripetersi troppo il cambiamento avviene
gradualmente, quasi senza accorgersene, senza dare distacco esecutivo che
desti attenzione tra l'uno e l'altro, e
ci si accorge improvvisamente di essere passati da una dimensione irreale a
un'altra ancora più spaziale.
I ragazzi spingono
sugli strumenti vintage di cui sono forniti -fender, gibson, echorec, binson, sax,
selmer e batteria d'altri tempi, a fusti in puro legno- un suono potente e
robusto, pieno di sostegno che serve a supportare un sound che di fatto si mantiene ancorato su due soli
accordi, ma dalle molteplici armoniche e dalle sfumature particolari, mentre
Parson dalla sua postazione guida tutti con gli occhi, guardandosi
ripetutamente intorno.
Un cenno basterebbe per
lo stacco finale, ma questo non ci sarà
mai, solo il cambio delle due note ed una leggera modifica del ritmo... divenuto leggero, molto leggero.
Impressionante il
suono del bassista, soprannominato “Cirio” -con un Fender Precision Sumbarst-
molto sicuro e navigato... si vedeva... molto lavorato e consumato, un suono
alla Roger, sì, proprio quello!
Mi ripeterò, ma voglio
sottolineare che, chiudendo gli occhi, senza esagerare, l'impressione di
ascoltare i cari e vecchi Pink era reale, viva.
Non c’è voluto molto a
far passare la prima mezzora, con quei suoni e atmosfere infinite, spot lunatici,
incredibilmente colti, dosati e analogici... analogici sì, perché lì di computer non si vedeva nemmeno
l'ombra; Parson, in un momento di pausa, ha ringraziato in un italiano stentato
e quasi incomprensibile Roma, per il suo calore e la sua bellezza, e per tutto
il pubblico accorso ad ascoltarlo. Certo che vederlo rannicchiato
su quella sedia, dalle gambe così alte e dalla spalliera piccola, faceva
pensare che potesse scivolare da un momento all'altro, ma fortunatamente non è
successo nulla.
Come ho detto in
precedenza non conosco i titoli dei brani, ma i primi quattro -e per un altro quarto d'ora buono- non avevano testo, solo
sonorità, e secondo me contenevano piccole improvvisazioni; fin qui mi ha
entusiasmato, poi pian piano la musica è cambiata, e notevolmente direi.
Da quel momento si è assistito
ad un concerto razionale, senza grossi sbalzi sonori, semplici, piacevoli, ma ben lontani
dall'introduzione.
E così avanti per un po’
e alla fine si è capito che comunque non c'era un repertorio tanto vasto
da coprire l'intero contesto, e gli
artisti perdevano tempo, come per mantenere una vittoria in una partita di calcio
giunta agli sgoccioli, ma poi, quando ormai tutti pensavano di essere arrivati
al punto di non ritorno, è arrivata la sorpresa: quale?
Quella che io me ne
sono dovuto andare! Sì, perché ero con i mezzi pubblici e se perdevo l'ultimo
me la dovevo fare a piedi… ahahahahaha!
Nessuno mi ha applaudito,
ci mancava pure quello, ma io ne ho fatto uno in silenzio per loro... mentre
uscivo… per quelli del Parsons Project intendo!
Stefano Pietrucci, lo scrittore
sconsiderato...
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