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lunedì 9 maggio 2022

Nathan – Uomini di Sabbia-Commento di Alberto Sgarlato

 


Nathan – Uomini di Sabbia

(AMS Records, 2022)

Di Alberto Sgarlato


Il 25 febbraio di questo 2022 è uscito il terzo album dei Nathan, dopo i titoli “Nebulosa” ed “Era”. Chi scrive questo articolo ricorda benissimo di avere seguito con affetto e curiosità i primi passi di una formazione, agli inizi ancora embrionale, poi via via più strutturata, nei piccoli teatri della provincia di Savona. Era lì che i Nathan prendevano forma all’inizio degli anni ‘90 e, come molte bands, hanno visto la loro storia costellata di cambi di formazione.

Oggi più che una band i Nathan sono un vero e proprio progetto, un collettivo di musicisti che si avvicendano nelle varie tracce seguendo una rotta dettata dal timone saldamente stretto nelle mani del duo Lugaro/Abba, autori di tutti i titoli, testi e musiche.

Bruno Lugaro alla voce e Pier Giorgio “PJ” Abba, tastiere e chitarre acustiche, per questo “Uomini di sabbia” hanno potuto contare su uno schieramento di validi strumentisti: le chitarre di Giulio Smeragliuolo, le batterie di Luca Grosso e di Fabio Sanfilippo, i bassisti Fabio Zunino, Dino Cerruti, Mauro Brunzu.

 

Chi ha apprezzato i due precedenti lavori non potrà fare a meno di notare una trasformazione del sound: i Nathan, infatti, “figli” soprattutto di Genesis e Pink Floyd (band delle quali, in passato, hanno tributato le gesta dal vivo), sono sempre stati collocabili nel filone del cosiddetto “neo-prog”, uno stile quindi melodico e “cantabile”, grintoso e moderno, legato sì ai suddetti Genesis e Floyd ma anche alla scena ‘80/’90 di gruppi come Marillion, Iq e Arena.

Ma il nostro pianeta sta vivendo strani giorni, tra una pandemia che dopo due anni non è ancora finita, venti di guerra che dai tempi della Bosnia non erano mai stati così vicini all’Europa Occidentale e preoccupazioni per l’economia di oggi e di domani.

E tutto questo, inevitabilmente, si riflette nella scrittura di Abba e Lugaro, che sia nei testi, sia nei suoni, sia nelle strutture delle varie tracce, si fa più cupa, tesa, nervosa. E del resto gli “uomini di sabbia” del titolo siamo noi, tutti noi, persone fragili e sgretolate dall’ansia e dalle paure.

La prima traccia, “Fatti non foste”, è pienamente ascrivibile al metal-prog, una svolta quasi inaspettata per i Nathan; “Monoliti” è scandita da geometrie batteristiche che ricordano i Rush del periodo più anni ‘80 (quelli di brani come “Mystic Rhythms” o “The Body Electric”), mentre i ricami del piano e dell’organo trasportano tutto il sound su profumi più da ballata vintage; particolare nota di merito per il cantato di Lugaro che, a tratti, ricorda quasi Aldo Tagliapietra in questa traccia. Non mancano però, anche qui i crescendo in cui la chitarra torna a “ruggire” in un disco dove le sorprese non mancano e dove, persino nei momenti più rilassati, la svolta fatta di durezza e di inquietudine è sempre dietro l’angolo. E proseguiamo con “Delirio onirico”: qui pad lunghi e sibilanti delle tastiere a supporto di arpeggi organistici ci riportano verso sonorità hard-prog, ben scandite da un lavoro davvero solido di chitarra/basso/batteria. Anche qui menzione di merito speciale per l’intensità dell’interpretazione vocale. Dal quarto minuto in poi i “duelli” tra chitarra e organo richiamo il prog italiano più classico, quello di gruppi come il Biglietto per l’Inferno.

Il pianto del cielo”, con la sua introduzione affidata all’intrecciarsi della chitarra e del pianoforte, è la traccia che più di tutte rivela il passato dei Nathan, quello legato ai Genesis e ai Marillion. Dal minuto e mezzo in poi il “botta e risposta” serrato tra sintetizzatori e chitarra è pura, godibilissima, scuola neo-prog. Il tutto verso un crescendo finale intenso e toccante, fatto di continue “altalene” tra ricami acustici e momenti più elettrici.

Di nuovo lo spettro dei Rush, con il basso in primo piano, un gran lavoro di piatto hi-hat e lunghi tappeti di synth, nell’intro di “Madre dei sortilegi”, che poi, sempre per restare al di là dell’Oceano, si sposta dalle coordinate canadesi dei Rush a quelle dei Kansas grazie a un gran lavoro di organo distorto e chitarra. Il punto di forza dei Nathan è quello di saper fare loro le influenze sia britanniche sia d’oltreoceano senza mai dimenticare o accantonare quella che è stata la tradizione italiana. E infatti, dopo avere menzionato in questa recensione le Orme e il Biglietto per l’Inferno qui tutta la melodia cantata è quella che, più di altre nel disco, evoca il Banco. La storica band romana affiora anche in alcune sezioni strumentali del brano dall’incedere molto “mediterraneo”. E prima di ritornare alla ripresa del riff e poi, di nuovo, alla chiusura “rushiana”, le divagazioni soliste dei vari strumenti sono davvero spettacolari per velocità e tecnica.

Nel giardino di Maria” è un brano scandito e sorretto nei suoi vari momenti dal pianoforte ma è tutt’altro che una ballad romantica. Anzi: sia nel testo, sia nelle musiche, è forse uno dei brani che riescono a generare le sensazioni più angoscianti di un album, come già detto fin dall’inizio, pervaso da questo senso di inquietudine. Anche gli squarci più eterei della traccia hanno sempre quel qualcosa “tra le righe”, che turba l’anima. E poi, ovviamente, anche qui non mancano i crescendo strumentali funambolici che contribuiscono a indurire il pezzo.

Lo stesso si potrebbe dire per “L’Acrobata”: l’intro dal profumo “cameristico” potrebbe far tirare un sospiro di sollievo dopo gli scossoni emotivi delle tracce precedenti, ma in realtà così non è. Perché c’è sempre qualcosa di cupo e di struggente in ogni singola nota, che non è messa lì per caso ma che contribuisce a tracciare un sentiero emotivo complesso, proprio come quello percorso dall’acrobata che dà titolo al brano.

A questo punto, che dire di “Egos (la Terra dei Perduti)”? La suite, di un quarto d’ora di durata, chiude l’opera e costituisce al tempo stesso la “summa” della cifra stilistica dell’intero disco. Troviamo la partenza lenta, arpeggiata, sorretta da tappeti cupi, inserti tra il fiabesco e il medievaleggiante (ve li ricordate gli alessandrini Arcansiel e il loro splendido album “Stillsearching” di fine anni ‘80?), momenti dall’incedere marziale, frammentazioni della linea cantata figlie dei Gentle Giant, indurimenti e rarefazioni, dal nono minuto le accelerazioni che ci riportano su territori neo-prog, poi l’entrata di una chitarra che, nei momenti più languidi, fa apparire in controluce il profilo di Steve Hackett, fino ad arrivare, in un turbinio di suoni e di emozioni, al doveroso crescendo conclusivo (seppur sfumato), degna parola “fine” di una traccia e di un album di cotanta caratura.




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