Zita Ensemble – “Zita Ensemble” (2024)
di Alberto Sgarlato
Per chi ama le più evolute ed
avanguardistiche frontiere del jazz-rock, Zita
Ensemble è un nome ben noto e molto apprezzato. La loro carriera,
seppur con qualche stop, qualche ripartenza e qualche progetto parallelo nel
mezzo (come è normalissimo che sia nel variegato mondo della musica), dura
ormai da vent’anni esatti. Ovvero da quel 2004, anno della loro formazione,
fino a questo 2024 che vede l’ensemble consegnare alle stampe questo album
omonimo formato da otto tracce.
“Musica strumentale post-moderna” potrebbe essere un termine bellissimo e onnicomprensivo per descrivere gli universi sonori di questa formazione, nei quali convergono il jazz-rock, il post-rock, il math-rock e suggestioni “cinematiche” da colonna sonora.
La opener “The wind” vede
arpeggi di chitarra ridotti all’essenziale, dal suono pulito, appena
riverberato, danzare leggeri su una sezione ritmica mixata in modo presente,
che si snoda con la velocità tipica di generi come il drum’n’bass e con
deliziosi accenti degli splash che fanno capolino qui e là, fino a un crescendo
con un rullante turbinante.
“Atlantico” si regge su un
roccioso giro di basso che fa persino venire in mente certi brani dei Soft
Machine (periodo “Seven”) o del Perigeo, sul quale ancora chitarre ora
minimali, ora dal sapore “desertico” e drumming fantasioso costruiscono le loro
trame sonore.
“Black summer” ha
un’introduzione che potrebbe persino far pensare all’Hendrix di “Little Wing” o
all’Howe di “Roundabout”. Quando la band entra al completo si respira quasi un
clima da “blues fusion del III Millennio” (pur non essendo, in realtà, affatto
un blues nella struttura; semmai nel “mood”).
Accenti dispari introducono “Dance Tape”,
brano che trova il suo punto di forza nelle stratificazioni dei vari temi,
rapidamente cangianti, che ciclicamente ritornano.
“Us” profuma di esotico, di
Bossa Nova. Ma come avevamo detto per “Black Summer”, se quel brano
tecnicamente non è un blues, questo di fatto non è una bossa nova. Ed è proprio
da questi dettagli che si coglie la sottile intelligenza compositiva della
band, capace di far “respirare” all’ascoltatore certi climi, certe atmosfere,
certe suggestioni, ma facendo in realtà tutt’altro. Difficile da spiegare, più
facile da capire ascoltando.
“Amigos” è forse la traccia più
assimilabile al classico concetto di ballad, per la sottile malinconia e per
quel senso di struggimento che la pervade.
“Musica per immagini”, si diceva all’inizio.
Qui le note lasciano che ogni ascoltatore viva, chiudendo gli occhi, il suo
“film personale”. E nei minuti conclusivi sembra quasi di scorgere remoti echi
king-crimsoniani.
“Lipstick”, dopo i languori
della traccia precedente, torna a giocare con il groove in modo poderoso.
Math-funk-jazz ai massimi livelli per un brano che svela tutta l’energia di cui
è capace questa band.
Si conclude con “Sunday”… Quel
raffinato lavoro di bacchette sul bordo del rullante che sorregge tutti gli
intarsi tra chitarra e basso è qualcosa di delizioso. Ascoltare per credere.
Siamo di fronte a un’altra traccia che, dietro al groove intelligente e
raffinato, nasconde una vena di malinconia. Come forse un po’ tutto l’album.
Concludendo: un’opera in cui la perizia tecnica degli strumentisti, di altissimo livello, è messa sempre al servizio di una scrittura intelligente, raffinata, senza sterili prove muscolari o gratuite ostentazioni ma, al contrario, alla costante ricerca di un “mood” elegante e ricercato.
Sia che voi ascoltatori siate culturalmente “figli” del prog-rock e del jazz-rock degli anni ‘70, o della new-wave e del minimal degli anni ‘80, o del post-rock degli anni ‘90 o dell’eclettico mondo chillout, drum’n’bass, trip-hop dei primi 2000, qui troverete un gran lavoro di composizione capace di unire almeno quattro generazioni diverse.
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