INTERVISTA A GIANNI LEONE
di Paolo Carnelli
(novembre
2014)
GIANNI LEONE: nel regno di Ego
A cura di
Paolo Carnelli
Questa
intervista è leggibile anche in rete all'indirizzo:
Nonostante a Gianni
Leone - tastierista, cantante e compositore conosciuto soprattutto per quel
capolavoro dark prog che è Ys del Balletto di Bronzo - mi leghi da tanti anni
una bella e sincera amicizia, in tutto questo tempo non avevo mai provato a
realizzare con lui una vera e propria intervista. Forse perché avevo già avuto
la fortuna di sapere da lui tante cose senza dover nemmeno fare lo sforzo di chiedere,
o forse perché immaginavo che avrei dovuto faticare non poco per riuscire ad
avere tutte le risposte necessarie per completarla. Ma del resto la forza di
Gianni, la sua energia dirompente, è senza dubbio il frutto di uno spirito che
lascia spesso prevalere l'istinto e la spontaneità sulla convenzionalità dei
comportamenti stereotipati o regolati dallo scorrere del tempo. Oggi però, con
il ritorno del Balletto di Bronzo alle porte il prossimo 19 dicembre a Roma, le
risposte a quelle domande che avevo pensato qualche mese fa sono divenute
nuovamente impellenti... se non altro per ingannare l'attesa e ricominciare a
riassaporare l'emozione di vedere nuovamente Gianni Leone manipolare sul palco
la sua creatura preferita.
“Ys” fu registrato a Milano negli studi della Polygram su un
semplice 8 tracce: è vero che visto l'esiguo numero di piste a disposizione
foste costretti a incidere i brani praticamente “live”, suonando tutti insieme
dal vivo?
Sì, certo: le basi furono registrate tutte in
diretta. Io poi sovraincisi le altre tastiere e le voci. Spesso dovemmo
ricorrere al “trucchetto” dei premissaggi di più strumenti e voci su una sola
pista, visto che il registratore ne aveva solo otto. Proprio in quei giorni, e nello
stesso studio, Le Orme stavano registrando l'album "Uomo di pezza".
Ancora oggi l'ascolto di “Ys” non sembra fornire alcun punto
di riferimento, come invece accade con tutti gli altri, pur pregevoli, album
che hanno caratterizzato la grande stagione del pop italiano degli anni '70.
Sei d'accordo con chi dice che per trovare un qualche aggancio bisogna cercare
direttamente nella musica colta contemporanea, in Bartok o Stravinskij?
Mah, non saprei… Ricordo, però, che all’epoca
comperai (ma non riuscii mai a leggerli!) dei pallosissimi e pesantissimi tomi
di Arnold Schoenberg sull’armonia e sul contrappunto…
Sei
stato uno dei primi a suonare l'organo Hammond a Napoli alla fine degli anni
sessanta: come è avvenuto il tuo incontro con questo strumento e cosa ti ha
affascinato al punto di farlo diventare lo strumento che ti ha accompagnato per
tutta la tua carriera?
Da bambino, prima di osare ambire all’organo
Hammond – sogno irraggiungibile – impazzivo per il Farfisa Compact de Luxe, che
era lo strumento portante, il SUONO dell’era beat. Nel ’69 mi fu regalato un
Farfisa fast-5, organo che poi (s)vendetti scioccamente e che oggi vorrei tanto
riavere. Nel ’70 mi fu regalato l’Hammond, che possiedo ancora. Sì, fui uno dei
primi a Napoli a possederlo. All’epoca aveva un costo proibitivo: quasi due
milioni di lire per il modello “L222” e quasi quattro per i leggendari “B3” e
“C3”! Il suono dell'organo Hammond, per me, è in assoluto uno dei suoni più
belli che l'orecchio umano possa udire. Anni fa acquistai uno splendido Farfisa
Compact de Luxe del ’68 perfettamente funzionante, che ho adoperato anche ai
concerti del Balletto fino a qualche tempo fa.
Nel 1972 il Balletto di Bronzo fu protagonista di molte
esibizioni lungo la penisola, in particolare nell'ambito di celebri rassegne
come Controcanzonissima al Piper di Roma o il Davoli Pop a Reggio Emilia, ma
purtroppo di tutto questo pare non essere rimasta traccia... quale repertorio
eseguivate dal vivo e di quale strumentazione ti servivi nei concerti per
ricreare le sonorità di “Ys”?
Sebbene io sia stato fra i primissimi
tastieristi in Italia ad adoperare in studio il Minimoog e il Mellotron, non li
acquistai. Dal vivo adoperavo semplicemente l’Hammond, un organo Eko Minstrel
modificato da Lino Ajello e un Binson Echorec. Negli ultimi tempi aggiunsi un
Clavinet D-6 Hohner. That’s it. Lino usava delle pedaliere che comandavano
effetti da lui stesso creati. Eseguivamo tutto YS, naturalmente, ma in
versione… ”dilatata”. Per esempio, la parte centrale di "Terzo
incontro" - quella col riff ossessivo, ipnotico e molto dark - durava
un'eternità ma nessuno si lamentava, tanto eravamo tutti sballati, sia noi che
il pubblico. Ricordo, per esempio durante le nostre esibizioni alla leggendaria
"Carta Vetrata" di Bollate Milanese, coltri di denso fumo molto
"aromatico" che ci avvolgevano dall'inizio alla fine del concerto...
Poi talvolta io restavo da solo sul palco per un lungo e delirante assolo di
organo, cosa moooooooolto anni 70!... Altri tempi.
Quali sono le ultime notizie sugli altri componenti storici
del Balletto di Bronzo?
Vito Manzari vive fuori Roma, in un piccolo
centro, e fa l’artigiano; Gianchi Stinga, "il batterista della mia
vita" (con lui avevo un'affinità batteristica che non ho più ritrovato),
dopo decenni trascorsi a Stoccolma, da un po’ di tempo si sposta fra Malesia,
Svezia e… costiera amalfitana; Mike Cupaiuolo è sempre stato a Stoccolma fin
dal’72 e non suona più; Marco Cecioni fa il pittore/scultore e vive fra la
Svezia, la Finlandia, Ibiza e… Pozzuoli; Lino Ajello, dopo decenni in Svezia e
anni a Tenerife, è tornato in Italia, a Pozzuoli, e sta mettendo su insieme con
Marco un gruppo pop-rock (che non avrà nulla a che vedere con i “2 balletti”,
quello di YS e quello di Sirio 2222) dal nome, per ora, misteriosissimo…
Che ricordi hai della tua partecipazione nel 1972 alle
session di “I mali del secolo” di Adriano Celentano e di “La stagione per
morire” di Mauro Pelosi?
Celentano era divertentissimo e offriva gags a
ripetizione. Anche per quelle session - come per YS - fra le ragazze del coro
c’era Giuni Russo, che allora si faceva chiamare Giusy Romeo. Spesso cantavamo
affiancati allo stesso microfono. La ricordo molto timida e riservata.
Mauro Pelosi era un ragazzo introverso e
timidissimo fino all’inverosimile. Io e Gianchi, durante le registrazioni,
cominciammo a prenderlo in giro spietatamente, poverino… Che insensibili!
Rincontrai per caso Pelosi in casa di amici comuni qui a Roma una ventina di
anni fa.
Per molti artisti provenienti dagli anni settanta, il
passaggio al supporto digitale si è rivelato particolarmente traumatico: Justin
Hayward dei Moody Blues ad esempio cercò invano di convincere la casa discografica
a inserire il CD all'interno della vecchia e spaziosa confezione del vinile
perché non sopportava l'idea di un packaging così ridotto. Tu come hai vissuto
questa fase dell'evoluzione del mercato discografico?
Che tristezza, quegli striminziti e squallidi
contenitori in plastica dei cd! Vorrei fare del male fisico all’inventore di
quelle quattro “orecchiette” che trattengono il libretto!
Ho ancora una folta collezione di vinili
“d’epoca” e ne sono fiero. Sulle copertine degli LP, noi, sognavamo!
Ti piaceva il formato 45 giri o secondo il tuo modo di
concepire la musica era già superato all'inizio degli anni '70?
Non mi sono mai posto il problema. Il Balletto
a tutto ambiva fuorché a produrre dischi “commerciali”, e il formato 45 giri
era indubbiamente più vendibile di un LP. Negli anni 60 compravo i 45 giri dei
Rokes, dei Sorrows e dei primi gruppi beat, che ancora possiedo.
Per registrare i tuoi due album solisti, “Vero” e “Monitor”,
negli anni settanta hai fatto un vero e proprio “coast to coast” da New York a
Los Angeles... a quale delle due città sei rimasto più affezionato?
Mi sono entrambe rimaste nel corpo e nella
mente, seppure per ragioni diverse. Inizialmente rimasi folgorato da New York,
questo “mostro” tentacolare che può prenderti e proiettarti alle stelle oppure
farti sprofondare negli abissi più torbidi. Io sperimentai entrambe le…
opzioni. Poi, quando mi trasferii a Los Angeles (a Hollywood, per l’esattezza),
scoprii una nuova dimensione: la luce del sole, le palme, il positive thinking,
il salutismo sfrenato (infatti, da allora sono vegetariano)… Posso affermare
che proprio a Hollywood ho vissuto alcuni dei momenti più belli e felici della
mia vita. Poteva capitare che, durante i missaggi di Monitor ai Cherokee
studios, Rod Stewart mi facesse l'occhiolino al bar per cercare di
rimorchiarmi, o che mi ritrovassi a fare la pratica buddista (il chanting)
nella villa di Herbie Hancock insieme a lui, o che Marlene Stewart (futura
stilista di Madonna, i DEVO, Cher...) insistesse per farmi indossare i suoi
costumi, o che presenziassi alla cerimonia dei Grammy Awards (gli Oscar della
musica) vedendo gli artisti più eccelsi esibirsi dal vivo sul palco,
ritrovandomi poi seduto allo stesso tavolo accanto a loro nel corso del party a
fine serata ... Tengo a precisare che, dopo circa un annetto o poco più di
"esplorazione" della pratica del Buddismo, lasciai perdere, poiché
non mi piace legarmi ad alcuna ideologia, religione o altro.
La cura dell'abbigliamento sul palco ha sempre rappresentato
per te un punto di importanza fondamentale: quali sono gli artisti che nel
corso degli anni hai apprezzato di più per il loro look e che ti hanno in
qualche modo ispirato?
Ho sempre sentito dentro di me, fin da quando
ho memoria, una irrefrenabile propensione ad andare controcorrente. Ricordo di
aver sempre avuto una predilezione assoluta per l’eccentricità e la
provocazione in tutte le sue forme, spesso esagerando anche. Potrei raccontare
aneddoti incredibili… Era ed è semplicemente la mia natura, non posso farci
niente.
Reputo inaccettabile, offensivo e ripugnante
andare sul palco vestiti come se si fosse in sala prove o… all’osteria! Per un
artista è assolutamente sano e normale, ovvio direi, considerare la sua faccia
e il suo corpo come fossero delle tele da dipingere, dell'argilla da modellare.
Ciò stimola la creatività e procura un piacere assoluto. Odio la casualità, la
“quotidianità”, la sciatteria! Il semplice atto di salire su un palco proietta
automaticamente in un’altra dimensione: la dimensione del Sogno, dell’Arte.
Moltissimi non lo capiscono e si ostinano a imporre il look stracciarolo da
metropolitana alle 8 del mattino. E allora io, quando vado in scena, è come se
ci andassi da solo, gli altri nemmeno li guardo. Ma questo è terribile per me
perché vorrei, pur essendo io un campione mondiale di egocentrismo (non a caso,
negli anni 70, prima di adottare lo pseudonimo “LeoNero”, per po’ pensai di
farmi chiamare “EGO” -questa la dice lunga), che invece emergesse l’immagine
del GRUPPO e non del singolo!
Ricordo che rimasi letteralmente folgorato
quando da bimbo vidi le prime foto di Jimi Hendrix, dei Rolling Stones, di
David Bowie… Però voglio precisare che, quando mi capitò di leggere su un
numero di Ciao 2001 nel ’72 il primo articolo con foto proprio su Bowie - che
stava emergendo in Inghilterra ed era totalmente sconosciuto in Italia -, io
ero già… come appaio nel retro copertina di YS: capelli lunghissimi e biondissimi,
abiti glamour, bigiotteria a quintali, immagine molto efebica. E ti credo:
all’epoca non avevo neanche ancora la barba!
Senza
nulla togliere a Ivano e Dario, il tuo Balletto dei sogni è composto da Gianni
Leone e...
Il giorno in cui uno scienziato (pazzo? Non è
detto) riuscirà a clonare da me un Gianni Leone bassista e un Gianni Leone
batterista, potrò finalmente raggiungere la totale FELICITA’, quella felicità
che ho inseguito incessantemente per tutta la vita. Il mio sogno è quello di potersi
capire al volo senza parlare, discutere, litigare… Essere in totale sintonia,
vibrare all’unisono, avere lo stesso approccio grintoso con la musica, lo
stesso tipo di sensibilità. Quanto tempo e quante arrabbiature risparmiate!
Questo, senza nulla togliere a tutti i musicisti bravissimi con i quali ho
suonato finora e nemmeno a quelli – sempre bravissimi, ovviamente! - coi quali
suonerò in futuro, perché si cresce e si migliora soprattutto confrontandosi
con gli altri, rimanendo però sempre se stessi.
Parola di… EGO.
Nessun commento:
Posta un commento